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EUROPA

Il diritto alla casa in Spagna tra turismo, speculazione e conflitto sociale

La crisi abitativa in Spagna esplosa con la bolla immobiliare del 2008 ha raggiunto oggi livelli drammatici. L’emergenza non riguarda più solo alcuni settori sociali, ma si estende a larghe fasce della popolazione, che non riescono a soddisfare il diritto a un’abitazione. In Catalogna, e non solo, si è aperto lo scontro fra due modelli: da un lato la casa come bene finanziario, dall’altro la casa come diritto fondamentale

Negli ultimi quindici anni la questione della casa in Spagna è passata da problema di alcuni settori sociali a vera e propria emergenza strutturale. Un tema che oggi occupa stabilmente il centro del dibattito pubblico, ma che affonda le sue radici nella trasformazione profonda del modello economico e urbano del paese. La Spagna che negli anni Sessanta si promuoveva al mondo con lo slogan “Spain is different” e che nei primi anni Duemila si raccontava come una storia di successo europeo durante l’era Zapatero, è diventata nel giro di poco tempo uno dei paesi con la crisi abitativa più acute del continente.

Comprare una casa, accedere a un affitto stabile o semplicemente non perdere l’abitazione è diventato per milioni di persone un percorso a ostacoli. Il paradosso è evidente: sfratti a livelli record convivono con decine di migliaia di alloggi vuoti, soprattutto nelle grandi città. Barcellona è il caso più emblematico, ma non l’unico.

Per capire l’origine del problema bisogna tornare alla grande crisi del 2008. Lo scoppio della bolla immobiliare, alimentata per anni da credito facile, speculazione e mutui subprime, ha avuto in Spagna effetti devastanti. Centinaia di migliaia di famiglie persero la casa, mentre il prezzo degli immobili crollava e le banche si ritrovavano proprietarie di enormi stock di abitazioni svalutate. A questa crisi economica si accompagnò una risposta politica segnata dall’austerità. Con i governi a maggioranza assoluta del Partido Popular iniziarono i tagli alla spesa pubblica, la riforma del lavoro che precarizzò ulteriormente l’occupazione e un giro di vite repressivo contro i movimenti sociali, culminato nella Ley Mordaza.

La crisi della casa non fu quindi solo un problema di mercato, ma divenne rapidamente una questione sociale e democratica. Non a caso, proprio in quegli anni esplosero movimenti di protesta che misero in discussione l’intero assetto politico del paese. Il movimento degli Indignados, il 15M, nel 2011, individuò nel bipartitismo PSOE-PP una delle cause strutturali della crisi.

Dalle piazze nacquero reti di solidarietà, piattaforme contro gli sfratti e nuove forme di organizzazione politica che cercarono di portare il conflitto nelle istituzioni.

Mentre l’attenzione pubblica era concentrata sugli sfratti per insolvenza ipotecaria, il mercato immobiliare stava cambiando pelle. Con il crollo del credito e la difficoltà di accesso ai mutui, la casa smise di essere un bene da acquistare e divenne sempre più un bene da affittare. Ma anche il mercato degli affitti si trasformò rapidamente. Investitori immobiliari e fondi iniziarono a vedere nella locazione una nuova opportunità di profitto, soprattutto nel momento in cui i prezzi delle case erano ai minimi storici. L’espansione delle piattaforme digitali di affitti brevi – Airbnb, Booking e simili – accelerò un processo già in corso: acquistare appartamenti non per affittarli a lungo termine, ma per destinarli al turismo, garantiva rendimenti molto più elevati.

Questo fenomeno ridusse drasticamente l’offerta di alloggi per i residenti e fece esplodere i prezzi degli affitti. Gli sfratti non scomparvero: cambiarono forma. Sempre meno famiglie perdevano la casa per mancato pagamento del mutuo, sempre più persone venivano espulse perché non riuscivano a sostenere i nuovi canoni d’affitto.

A Barcellona la speculazione immobiliare si è intrecciata con due processi chiave: gentrificazione e turistificazione. Quartieri centrali o semi-centrali, già trasformati dalle Olimpiadi del 1992, sono diventati il terreno ideale per la riconversione turistica. La città che negli anni Novanta aveva costruito un immaginario cosmopolita, multiculturale e mediterraneo ha visto questa identità trasformarsi in prodotto da consumo rapido.

Il centro storico si è progressivamente svuotato di residenti ed è diventato un’enclave di stranieri, turisti, expat e residenti temporanei. Nei quartieri come il Barri Gòtic, El Born o la Barceloneta, la riduzione della popolazione stabile è avvenuta in pochi anni, in parallelo a un aumento vertiginoso dei prezzi e dei flussi turistici. Il processo è stato rapidissimo: il movimento degli Indignados nasce nel 2011, le prime proteste contro gli appartamenti turistici esplodono già nell’estate del 2014. In meno di cinque anni il volto della città era profondamente cambiato.

In questo contesto si inserisce l’ascesa politica di Ada Colau, ex attivista contro gli sfratti, eletta sindaca di Barcellona nel 2015. La sua figura ha incarnato la speranza che il conflitto sociale potesse tradursi in politiche pubbliche radicali. Durante la campagna elettorale Colau affermò che bloccare gli sfratti fosse una questione di volontà politica. Una promessa che, una volta al governo, si è scontrata con i limiti strutturali del potere municipale.

Il suo mandato è stato caratterizzato da tentativi di regolazione degli affitti turistici: multe alle piattaforme, controlli sulle licenze e l’introduzione del PEUAT, il piano urbanistico che limitava la concentrazione degli appartamenti ad uso turístico. Misure che hanno avuto un impatto parziale, ma che non sono riuscite a invertire la tendenza generale.

Gli affitti illegali hanno continuato a proliferare, le piattaforme hanno spesso ignorato le sanzioni e il Comune si è trovato a gestire una macchina di controllo complessa e poco efficace. Nel frattempo, i prezzi continuavano a salire e per molti abitanti Barcellona diventava una città inaccessibile. La tensione sociale non si è placata.

Nel 2017 alcuni appartamenti turistici illegali vennero occupati come atto simbolico per denunciare la sottrazione di alloggi al mercato residenziale. Nello stesso anno nacque il Sindacato degli Inquilini di Barcellona, che in breve tempo divenne uno degli attori centrali del conflitto abitativo.

Il sindacato ha denunciato pratiche sempre più diffuse: contratti non rinnovati, aumenti del 30 o 40 per cento, riconversione degli appartamenti in alloggi di lusso per expat, nomadi digitali e residenti temporanei. Le conseguenze si sono estese oltre la questione abitativa, colpendo il commercio di prossimità e il tessuto sociale dei quartieri. La pressione dei movimenti portò nel 2020 all’approvazione di una legge catalana sul controllo degli affitti, che introduceva un primo meccanismo di equo canone. Una norma considerata pionieristica, ma rapidamente smantellata dal Tribunale Costituzionale, che ne annullò le parti centrali sostenendo che la competenza fosse statale.

Il vuoto normativo lasciato dalla sentenza contribuì a una nuova impennata dei prezzi. Solo nel marzo 2024 il governo centrale approvò una legge statale che fissava limiti agli affitti nelle aree di mercato teso. Ma la norma escludeva affitti temporanei e stanze, aprendo la strada a un aggiramento sistematico: contratti di 11 mesi al posto di affitti stabili. Nel frattempo, il nuovo sindaco di Barcellona, Jaume Collboni, ha annunciato l’intenzione di non rinnovare le licenze degli affitti turistici, con l’obiettivo di eliminarli entro il 2028. Una promessa forte sul piano simbolico, ma lontana nel tempo e politicamente incerta: il 2028 sarà dopo la fine del mandato del sindaco.

Tra il 2024 e il 2025 lo Stato ha introdotto anche un Registro Unico degli Affitti a Breve Termine, per contrastare l’illegalità e aumentare la trasparenza.

Ma la mossa più significativa è arrivata ancora una volta dalla Catalogna, che ha approvato una nuova legge estendendo il controllo dei prezzi agli affitti temporanei e alle stanze. La norma equipara queste tipologie agli affitti residenziali ordinari, impone l’equo canone, rafforza i controlli e introduce sanzioni più severe. È una risposta diretta a un fenomeno che aveva svuotato di efficacia le leggi precedenti.

Il Partito Popolare ha già annunciato un nuovo ricorso al Tribunale Costituzionale, parlando di espropriazione mascherata. Lo scontro si ripropone, come nel 2020, e il destino della legge resta incerto. Ma il significato politico del conflitto va oltre l’esito giuridico.

In Catalogna, e sempre più nel resto della Spagna, la questione abitativa ha superato la dimensione tecnica per diventare un terreno di scontro tra due modelli: da un lato la casa come bene finanziario, dall’altro la casa come diritto fondamentale. Il laboratorio catalano mostra che il conflitto non è risolto, ma anche che il mercato, lasciato a se stesso, non è in grado di garantire l’accesso all’abitazione. Ed è su questa linea di frattura che si giocherà una parte decisiva delle politiche urbane dei prossimi anni.

Immagini di copertina e nell’articolo di Victor Serri, da Barcellona (fonte: La Direkta).

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