approfondimenti

OPINIONI
Una marea in marcia per la Palestina
Le settimane appena passate hanno aperto uno spazio di mobilitazione inedito nel nostro paese. Una marea variegata, massiva e determinata. Di questa nuova voglia di partecipazione bisogna avere cura
La settimana appena passata in Italia, è stata inedita e sorprendente. È saltato un tappo e la partecipazione è esplosa: una partecipazione larga, massiva, variegata. La mobilitazione per la Palestina, nel nostro paese, non è certo cominciata la settimana scorsa, le realtà palestinesi, come alcuni sindacati di base, centri sociali e collettivi studenteschi si mobilitiano da almeno due anni sul genocidio in corso. E tante realtà si mobilitano sull’occupazione, sul sistema di appartheid e la colonizzazione di Israele da decenni e più. Eppure se nei due anni passati abbiamo visto mobilitazioni di massa per la Palestina in tutto il mondo, dai campus americani alle piazze dei paesi arabi, dalle manifestazioni in rosso in Olanda ai paesi latino-americani, in Italia le piazze non erano mai fuoriuscite dai margini delle organizzazioni che le chiamavano. Un lavoro continuo, ma anche difficile e non sempre in grado di parlare oltre sé.

Obiettivi comuni: senza essere d’accordo su tutto
Ma dall’inizio di settembre, mentre la Global Sumud Flotilla che organizzava la spedizione, qualcosa è iniziato a cambiare. Gli argini sono saltati. «Se loro possono salire su un nave, solcare il Mediterraneo, sfidare Israele e rischiare il carcere, allora anche noi qua possiamo fare qualcosa» – hanno commentato le e gli studenti in piazza. La Global Sumud Flotilla è stata un’azione che ha rotto l’immobilismo e si è mossa con pochi e chiari obiettivi comuni – rompere l’assedio a Gaza – sapendo che non si era d’accordo su molto altro. Muoversi per abbandonare lo schermo di fronte al quale abbiamo visto scorrore le immagini del genocidio per due anni, sentendoci sempre piu isolatə.
Nella strabordante manifestazione del 4 ottobre la complessità e varietà della partecipazione era evidente: c’erano collettivi studenteschi, gruppi territoriali, grandi associazioni, gruppi scout, gruppi religiosi cattolici e islamici, passando per qualsiasi sigla del sindacalismo di base e tutti i gruppuscoli comunisti. Una manifestazione che teneva insieme dalle bandiere della pace alle bandiere di Hamas.
Questo milione di persone non è d’accordo su molte cose: ad esempio sul ruolo di Hamas, su cosa sia o non sia il 7 ottobre, ma si è riunita sotto uno striscione che era dedicato alla resistenza palestinese e riconosce obiettivi comuni: la fine di ogni accordo diplomatico e commerciale con Israele, e l’imposizioni di sanzioni per porre fine al genocidio il prima possibile, la fine dell’occupazione e del sistema di apartheid in Palestina.
Probabilmente continuare a lavorare all’individuazioni di obiettivi e pratiche comuni e condivisi può essere un modo per continuare a costruire spazio per l’allargamento della mobilitazione. Al contrario, aprire lotte per imporre la propria visione e strategia politica rischia di rompere questo fragile equilibrio. Bisogna avere cura di questa nuova voglia di partecipazione politica, creare spazi di condivisione di pratiche e saperi, spazi di decisione comune e pubblica, espandere la socializzazione alla politica, e non con il solo fine di portare gente verso la propria singola organizzazione o collettivo.

Bloccare tutto: pratiche comuni
La partecipazione non è stata solo massiva, ma anche determinata e strategicamente mirata. «Se bloccano la Sumud Flotilla, noi blocchiamo tutto» – ha urlato il portuale nella manifestazione a Genova, che accompagnava la partenza della Flotilla. Cioè blocchiamo i flussi dell’economia di guerra, che continuano a scorrere dall’Europa e dagli Usa – ma non solo – verso Israele e rendono i nostri paesi complici del genocidio. In questo il blocco dei porti è stato un elemento centrale, una pratica comune, condivisa e da praticare in massa, che dal porto di Genova si è estesa a macchia d’olio in tutta Italia dal 22 settembre in poi. Questa non è una pratica che nasce dal nulla, chiaramente, nei mesi e anni scorsi, i portuali hanno costruito reti e già attuato la pratica del blocco, astenendosi dal carico o scarico di navi con materiale per l’industria bellica. Il blocco dei porti si è praticato, non solo nelle due giornate di sciopero del 22 e del 3 ottobre, ma tutte le volte che sono arrivate informazioni di carichi di morte, con passaparola che hanno portato nei porti centinaia di persone in pochissimo tempo, come a Taranto e a Livorno, riuscendo effettivamente a bloccare le navi.
Dal blocco dei porti, si è passati velocemente, nelle città senza porti, al blocco delle stazioni, dei poli della logistica, degli aeroporti, delle tangenziali e autostrade. Per bloccare i flussi dell’economia di guerra, che alimenta il genocidio in Palestina e i conflitti in molti altri luoghi del mondo, dal Congo all’Ucraina.
«Per scoprire infine che quello che stiamo bloccando è quella economia che ci impoverisce, licenzia, taglia, riarma», come scrivono i lavoratori della ex-GKN.
Un’economia che dall’altra parte del Mediterraneo è violenza coloniale e genocida e sulla nostra sponda è l’economia che ci rende precariə, ci impoverisce, ci impedisce di avere un casa, ci isola, ci rende sempre più vulnerabilə, inquina i nostri territori, distrugge le politiche sociali, la scuola, la sanità, approva leggi razziste, lascia morire le persone ai nostri confini e umilia la classe lavoratrice. Per questo lottare e bloccare l’economia di guerra è già lottare per i nostri diritti, le nostre condizioni di lavoro e le nostre vita.

Scioperare
E qui arriviamo a una altra questione centrale e inedita delle scorse settimana: lo sciopero. In due settimane sono stati organizzati due scioperi, prima il 22 settembre, uno sciopero indetto dai sindacati di base, che ha strabordato qualsiasi previsione, macchiando di ridicolo l’operazione della Cgil di lanciare una data di mobilitazione il 19 settembre, aspramente criticata dalle stesse iscritte e iscritti. E solo due settimane dopo, il 3 ottobre, uno sciopero generale indetto dalla Cgil, questa volta, insieme al sindacalismo di base, non rispettando il preavviso e invocando l’articolo 2 della legge 146/1990 «in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori». E aprendo un conflitto con le istituzioni sulle norme che regolano lo sciopero nei settori pubblici essenziali.
Uno sciopero che ha riportato al centro del dibattito pubblico l’astensione dal lavoro come arma in mano alle lavoratrici e ai lavoratori.
Due giorni di sciopero a distanza di dieci giorni pesano sulle tasche di chi lavora, di chi ha la partita iva, o una piccola attività, ma le adesioni hanno superato ogni aspettativa. Anche qui, non ci si arriva spontaneamente, ma dopo anni di lavoro del movimento transfemminista sullo sciopero dell’8 marzo e sulla sua risignificazione per farlo uscire dalle strette maglie economiciste delle indizioni sindacali. Anni di lotte dei e delle precarie in vari settori tra il pubblico e il privato che hanno cercato di organizzarsi superando le divisioni sindacali tra confederali e sindacati di base con grandi difficoltà. Anni in cui l’unità sindacale era stata trovata a destra con UIL e CISL, e non a sinistra con le sigle del sindacato di base. Queste giornate ci hanno fatto respirare l’idea che lo sciopero può tornare ad essere una leva nelle mani di chi lavora per sottrarsi ai ricatti e guadagnare spazi di vita.
Lo sciopero ha anche reso chiaro quanto l’economia del genocidio si basi sulla nostra complicità: non parlare di Palestina in classe, accettare che i PCTO nelle scuole vengano svolti dalle forze dell’ordine e dall’esercito, accettare le leggi razziste e la loro propaganda, far finta di non vedere il carico di merci che stiamo caricando, non dire nulla di fronte al villaggio dell’esercito nella piazza principale della nostra città, non protestare contro i software che la nostra azienda continua a comprare o sviluppare, continuare a comprare certi marchi. Alzare le voci da sole è difficile, soprattutto nei luoghi di lavoro, dove subiamo il ricatto continuo della busta paga, delle sanzioni, dei capi, per questo è necessario costruire spazi pubblici, reti di solidarietà, e spazi di supporto tra colleghe e colleghi.

Scuole e università: un nuova socializzazione al conflitto
Insieme ai luoghi di lavoro, le scuole e le università sono l’altro grimaldello di queste mobilitazioni. L’anno scolastico è cominciato male, se non malissimo, la scuola sotto il Ministro Valditara sta subendo una vera e propria torsione autoritaria. Dal voto in condotta per lə studenti al codice di condotta per le insegnanti, dalle nuove regole per gli esami di stato alla legge in discussione sul consenso informato. Fino ad arrivare alle nuove indicazioni nazionali per la scuola d’infanzia e primaria che segnano la fine della scuola “multiculturale”, “inclusiva” (e molto neoliberale), per dare l’inizio alla scuola dove si insegna che «solo l’occidente conosce la storia».
La partecipazione ai due scioperi tra il corpo insegnante è stata molto buona, con intere plessi chiusi, e studenti e docenti in corteo spontaneo insieme, liberi dai ricatti dei dirigenti scolastici e degli uffici scolastici regionali. In questi giorni si moltiplicano le occupazioni di scuole e facoltà in tutta Italia, mentre le questure di Brescia e Milano hanno iniziato a reprimere proprio giovani e giovanissimi con misure restrittive della libertà personale, daspo, denunce e perquisizioni.
Per molte persone giovani questa è la prima socializzazione alla politica e al conflitto con manifestazioni larghe e determinate, che se continua con questa intensità, potrebbe costruire nuove ondate di partecipazione politica e nuove forme di organizzazione politica negli anni a venire.
Una socializzazione al conflitto liberatoria, dopo anni di repressione, di continua chiusura dello spazio pubblico, della pandemia, della paura della guerra. Un’esplosione di vita in classi scolastiche che sono piene di solitudine, di sofferenza, di disagio e isolamento. E che per questo le questure e le autorità vogliono chiudere al più presto: è questa ondata disordinata di partecipazione giovanile e dal basso che fa più paura.

Gaza sta funzionando da specchio
La bandiera per la Palestina sta diventando il simbolo e catalizzatore di tutte le altre battaglie che oggi esistono nel nostro paese: lotte sindacali per delle degne condizioni di lavoro, lotte ecologiste, femministe e transfemministe, antirazziste, e per il diritto alla casa. Scendere in piazza per la Palestina e contro il genocidio a Gaza, sta diventando un modo per guardare il nostro lato di mondo, il sistema economico che si arricchisce con il commercio di armi, i governi pronti a tagliare la spesa sanitaria e sociale per comprare armamenti, il sistema razzista che discrimina sulla base della cittadinanza, religione e colore della pelle, le discriminazioni sistemiche contro donne e persone trans. Gaza funziona da specchio. Perché non distogliere lo sguardo dagli orrori commessi da Israele significa iniziare a comprendere quanto i nostri stati siano coinvolti in questo genocidio, e di quanto la guerra sia già nelle nostre società. Sono i gangli del sistema di potere che dobbiamo bloccare, avendo cura del processo di mobilitazione largo e plurale che si è aperto, senza smanie di conquista e di leadership della piazza.
E bisogna fare questo tenendo saldi i tre punti strategici che centrano i lavoratori ex-GKN: «1. Urgenza perché Gaza e la Palestina muoiono ogni secondo 2. Efficacia: ribaltare i rapporti di forza 3. Permanenza: perché i rapporti di forza non si cambiano in un giorno».
La copertina è di Luca Mangiacotti
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