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Conflitto, esperienza, letteratura

#1 Conflitto esperienza letteratura. Che senso ha narrare? Sulla perdita di valore della scrittura nella rappresentazione del mondo molto si è scritto, al punto che oggi si dà per scontata la netta separazione tra scrittura e prassi, tra narrazione ed esperienza

Una considerazione che accettiamo con un certo grado di rassegnazione, ignorando o fingendo di dimenticare che è in questo modo che si concretizza la più forte e pericolosa delle privazioni, così descritta da Walter Benjamin, già nel 1936 ne “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov”:

È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”.

Congiungere l’esperienza vissuta con la narrazione vuol dire anche riconnettere tra loro i fili che fanno l’epica, cioè la trasmissione di avventure e valori a cui una collettività di soggetti può richiamarsi e ispirarsi. Scriveva ancora il filosofo tedesco:

Il primo segno di un processo che porterà al declino della narrazione è la nascita del romanzo alle soglie dell’età moderna. Ciò che separa il romanzo dalla narrazione (e dall’epico in senso stretto) è il suo riferimento strettissimo al libro. La diffusione del romanzo diventa possibile solo con l’invenzione della stampa. Ciò che si lascia tramandare oralmente, il patrimonio dell’epica, è di altra natura da ciò che costituisce il fondo del romanzo […] Il narratore prender ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita -; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia”.

E poi:

Il romanzo si è tirato in disparte. Il luogo di nascita del romanzo è l’individuo nel suo isolamento che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più da vicino, è egli stesso senza consiglio e non può più darne ad altri”.

Questa preoccupazione è la stessa che qualche anno fa ha spinto il collettivo Luther Blissett, poi Wu Ming, a sostenere la necessità di un nuovo processo mitopoietico: la creazione cioè, attraverso la narrazione di eventi ed esperienze soggettive e collettive, di nuovi modelli mitici e valoriali: in questo senso portatori di un’etica, capace di opporsi alle derive che hanno caratterizzato parte della letteratura postmoderna. Definizione problematica, quest’ultima, che sintetizziamo così: esasperata interpretazione del reale, avvilimento di qualunque concetto di verità, ostentata ironia, citazionismo (Memorandum Nie di Wu Ming).

Se per alcuni critici e filosofi, la postmodernità come pensiero debole era garanzia di anti-assolutismo, democraticità e non violenza – frutto della rinuncia a tensione teleologiche e verità assolute – in termini pratici questa liberazione ha fondato nuove costrizioni, nella forma di nuove dipendenze (desideri indotti, processi di soggettivazione e forme di governamentalità asservite alla dottrina neoliberista). Il risultato è stato la moltiplicazione di individualità irriducibili esposte a poteri multipli e soggiogate – in campo sociale e politico – e di egocentrismi e narrazioni autoreferenziali in campo letterario. L’estrema difficoltà, o addirittura l’impossibilità (soprattutto per i soggetti che vivono condizioni di forte subalternità) di narrarsi, dunque riconoscersi e determinarsi – in opposizione al pensiero unico vigente – aggiunge a questa condizione un elemento inquietante: trasforma cioè la dimensione di sudditanza – fisica, culturale, valoriale – in una strada senza uscita.

Proprio nel contesto letterario italiano però qualcosa, con intenzioni dichiaratamente oppositive, critiche e alternative a questa condizione, si è realizzato. Prima di indicare titoli e autori di opere, ci interessa sottolineare l’uso di determinati strumenti: strategie narrative, metodi di lavoro, relazioni tra testi e personaggi. E tra questi distinguerne due: la riscrittura o l’adattamento di percorsi narrativi classici, diremmo istituzionali, a eventi e avventure altre (un’esemplificazione è il ruolo dell’eroe nella letteratura migrante e creola, senza patria, privato del ritorno, portatore di un’etica che sostituisce alla libertà la responsabilità); e l’indebolimento, il ridimensionamento se non il vero e proprio annullamento del ruolo e della condizione dell’autore, attraverso la produzione collettiva.

Nel primo caso la scrittura nasce a seguito di un processo di espulsione e testimonia la presenza di un’umanità sradicata, che scopre l’inganno dei discorsi di fratellanza e identità su cui si fondano i nazionalismi e, con la sua esposizione, segna il confine tra la vecchie comunità e un’aspirazione a nuove forme di relazione. Nel secondo caso, la scrittura collettiva si manifesta come culmine dell’esperienza, manifestazione e pratica concreta da attuare per superare la centralità della voce autoriale, isolata e individualistica. In entrambi i casi incontriamo narrazioni dal forte carattere epico, i cui elementi però non convergono verso quel processo di confisca istituzionale che li rende miti tecnicizzati – da sempre funzionali a pratiche politiche identitarie – ma si offrono nella loro infondatezza, come evento che racconta senza radicarsi, come pratica che non suggerisce identità ma relazioni. Facciamo riferimento qui alla differenziazione, risalente al filologo e storico delle religioni Károly Kerényi, tra mito genuino e mito tecnicizzato: il primo da intendere come produzione antropologica spontanea – un sistema di segni che fonda una cultura – il secondo la strumentalizzazione del mito ad opera della politica. Il mito tecnicizzato si sviluppa all’interno di una dinamica di dominio capace di produrre o mettere in moto una vera e propria macchina mitologica. Questo secondo concetto è stato elaborato dall’antropologo italiano Furio Jesi, che ha dedicato un’attenzione particolare al ruolo e all’uso del mito all’interno della cultura di destra. (Per un agevole trattazione sull’analisi contemporanea del mito, si veda anche Daniele Ventre, Mito e incertezze del mito).

Questa rubrica analizzerà alcune di queste produzioni. L’intenzione è comprendere il funzionamento degli strumenti indicati, immaginando di fornire a quell’insieme eterogeneo di soggetti altrimenti detto moltitudine uno elemento in più per riconoscersi, liberarsi, divenire e, naturalmente, generare conflitto.