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Zombie Cowboys: il capitalismo al collasso

Con il loro terzo album, i Gomma – band napoletana tra le più interessanti rivelazioni dell’universo indie rock italiano degli ultimi anni – riflettono sulla catastrofe tardo-capitalista contemporanea costruendo un immaginario a tinte fosche, dove la ricerca di un’improbabile alternativa lascia spazio a una rabbia disincantata dal sapore punk

“C’è un futuro per il capitalismo? o “un’altra età oscura ci aspetta?”

Zombie Cowboys si apre con questo interrogativo ancora prima della traccia numero uno, fin dalla cover dove, sotto alla natura morente di un manichino-cowboy in fiamme, le due domande racchiudono un testo frutto di un taglia e cuci da un articolo di Paul Johnson del 1971. L’alter ego fittizio dello storico britannico, noto conservatore, getta un rapido sguardo rapido sulle origini e l’affermazione del capitalismo moderno, chiudendo con una domanda, la promessa di una risposta e due punti lasciati in sospeso che aprono alle dodici tracce del disco.

«Has capitalism a future?»

E se è stato detto che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, adagio di incerta attribuzione che ormai è la summa del realismo capitalista, citando un celebre meme viene da dire: why not both?

Forse le due domande in apertura non necessitano di una disgiuntiva, un po’ come a dire che «there is no alternative» oggi vuol dire che non c’è, non sembra esserci o ancora non si vede, alternativa al collasso.

Non era scontato immaginarsi un percorso così per i Gomma, quando sono spuntati fuori nel 2016 con Aprile e poi con l’album Toska (2017, V4V/Controcanti). Una piccola rivelazione punk viscerale e inquieta che, grazie al traino di un singolone come Elefanti, aveva avvicinato ə quattro ragazzə di caserta all’epicentro dell’universo indie rock/pop italiano, all’epoca ancora in espansione. Due anni dopo, in Sacrosanto’ si presentavano con un suono e una personalità musicale più matura e definita, con melodie da sbandierare e uno sguardo sacrale sulla dimensione dello stare insieme, della cura e del confronto con l’altro.

Adesso, con il terzo album in studio, i Gomma sembrano aver definitivamente mollato gli ormeggi per entrare a far parte di diritto del vasto mare del rock alternativo italiano, che va dai Verdena ai Massimo Volume, dagli Uzeda al Teatro degli Orrori, con ancora una forte traccia delle influenze emo alla FBYC. Stavolta, accanto a un deciso sguardo puntato all’estero verso band come Jesus Lizard, ma anche verso il nuovo post-punk made in UK. La posta si alza: marce funebri post hardcore, intermezzi jungle, shoegaze, un suono di chitarra mai così riconoscibile e di carattere, ma anche fiati, schegge jazz e la faccia tosta per giocare con la forma canzone più elementare, riconnettersi ereticamente ad un’idea di melodia che guarda alla forma canzone ed anche a quella del Bel Paese, attraverso l’influenza e l’insegnamento della filosofia morriconiana e del suo rapporto ambiguo con l’idea stessa di melodia.

Messi da parte i fantasmi, che (dis)incarnavano i temi del secondo album, questa sorta di saga dei mostri continua attaccando alla gola temi di ampio respiro, stavolta fatti carne (putrida) ed ossa nella figura degli Zombie Cowboys. Predatori, machisti, guappi, colonizzatori in decomposizione ma ancora in piedi e affamati, gli zombie cowboys sono una metafora sfacciata del capitalismo, un’immagine che arriva dritta dai primi zombie movies di Romero ricollocata nel nostro presente. Guardando al deserto sociale della pandemia e a quello climatico del riscaldamento globale, su cui, spinta dalla fame, arranca una carcassa già morta, ma ancora pronta a divorare.

Nella “bibliografia” del disco raccontata dalla band in interviste e comunicati c’è anche Il Capitale è morto. Il peggio deve ancora venire (NERO Editions, 2021) di Wark McKenzie, in cui la dichiarazione di decesso del capitalismo non porta nessun sollievo ma denuncia l’incapacità della società occidentale di leggere e descrivere il qualcosa che sta prendendo il suo posto. Un sistema nuovo, nato non dalle ceneri ma dalla necrosi di quello precedente, in altre parole un morto vivente?

La band di Caserta tenta di abbracciare una prospettiva globale, declinata però senza tralasciare uno sguardo locale, proprio come il vecchio cinema di genere nella ricetta spaghetti: i riferimenti culturali specifici, da Mastroianni al Pasolini di Mamma Roma, le chitarre western dal deciso sapore morriconiano, anche se in una rilettura psicotica/post hardcore apparentata con quella dei newyorchesi Unsane di Visqueen, disegnano un affresco radicato anche a queste latitudini, e sembrano guardare all’immaginario passato del nostro paese, o al suo passato immaginario. Attraverso una specie di filtro distorto, ci arriva l’eco di un’immagine della Dolce Vita, che parla del boom economico e dei suoi lati oscuri che ancora ci portiamo dietro, di un’epoca di crescita sproporzionata e immaginazione fortissima in cui si reinventavano anche l’America e i cowboy, nella versione spaghetti western che smascherava spudoratamente il buonismo dei western americani mettendo a nudo la realtà amorale e proto-capitalista della frontiera.

C’è La decima vittima, film del 1965 di Elio Petri con Marcello Mastroianni e Ursula Andress tratto da un romanzo di Robert Sheckley, citato più volte come riferimento dai Gomma e ripreso esplicitamente in Mastroianni: «Marcello, tu ti compiangi troppo!»

In una società futura iperconsumista e disumanizzata, dove invece di controllare le nascite si aumentano i decessi consegnando i vecchi allo Stato o organizzando gare di omicidi legittimi a favore di sponsor e telecamera, i personaggi si affrontano in una caccia all’uomo da film western, con lo charme e le ambiguità di uno spy movie alla Bond sullo sfondo di una Roma da Dolce Vita affascinante e letale. Distopie future e western, design e violenza, commedia all’italiana e thriller, distopia globale e idiosincrasie italiane, tutto si riconnette in un ritratto impietoso, senza tempo, dell’umanità e dei suoi legami sotto l’egemonia del mercato turbocapitalistico.

Il complesso di estetica, suoni, testi e riferimenti situa tutto Zombie Cowboys in uno scenario diacronico in cui passato, presente e futuro collassano per dare vita a un panorama della catastrofe tardo-capitalistica. Un disastro sfaccettato nelle forme e nel tempo, che è, sarà, in qualche modo è già stato.

«There is no alternative», ma c’è mai stata? E se sì, cosa, quando è successo perché le alternative venissero soppresse?

Adesso che l’orizzonte del reale, della politica e della critica sembra ridotto quasi unicamente al discorso intorno alla pandemia, solo nelle ultime settimane scalfito dal nuovo evento globale, la guerra in diretta, sembra ancora più difficile parlare di un altro ora, di un altro mondo.

Zombie Cowboys nasce da questa temperie, ma anche dalla sua negazione. La pandemia ha spazzato via un lavoro precedente su cui i Gomma stavano lavorando, un disco i cui suoni più dolci sono stati soppiantati dall’esigenza di ragionare e prendere parola, dall’«urgenza di ripensare al nostro ruolo, come singoli e come comunità». Uno dei tanti dischi nati a distanza quindi, in una solitudine mitigata dai contatti a distanza per il lavoro di scrittura, che parte proprio dalla condizione di isolamento, desiderando urgentemente quel contatto tra corpi, la fisicità dell’affetto e della relazione umana: il contatto “guancia a guancia”, catturato attraverso l’immagine fortissima  e teneramente identitaria di quelle “abitudini a Sud” in cui il saluto quasi ricorda i pugili stretti nell’abbraccio prima di essere separati, «che a farsi male ridono» (Guancia a guancia). Un’immagine di estasi carnale, ma anche una metafora violenta di tutte quelle dinamiche di non-distanziamento sociale, che siano una stretta di mano, il pogo sotto palco, un bacio, con cui abbiamo perso una confidenza che speriamo di recuperare con naturalezza, ma che un po’ temiamo.

Non ne usciremo migliori, lo abbiamo già scoperto e, se ne stiamo uscendo, ne stiamo uscendo impoveriti, disgregati, spaventati, solo per entrare nella crisi successiva. Provare a parlare di Covid-19 in musica fuori dalle narrazioni da cui siamo bombardati significa provare a uscire dal racconto malinconico e rassegnato dell’isolamento e dei suoi riflessi digitali, uscire dalla retorica bellica che ci vede(va?) tutti uniti contro il grande nemico invisibile, ma desiderare sfacciatamente i corpi e farsi beffe del pensiero magico, del mantra dell’ «andrà tutto bene»» del calcolo per «un pugno di morti di meno». Alle canzoni dai balconi i Gomma oppongono un muro di chitarre, un abisso drum n’bass, un (doppio) bacio e un ghigno beffardo: «Ci saranno altri giorni, altro sangue, altra guerra» (Guancia a guancia).

Soprattutto, affrontare il tema con consapevolezza impone di svincolarsi da quella centralità che la pandemia ha assunto nel nostro orizzonte, assorbendo il futuro e a momenti anche il passato come grande catastrofe del nostro tempo.

Una pericolosa metonimia prospettica che ha focalizzato l’attenzione del mondo su quello che è solo l’ultimo epifenomeno dell’idra dalle mille teste, impossibili da contemplare tutte in una volta, che è il tardo capitalismo neoliberista. Un iperoggetto le cui facce sembrano ognuna a loro volta questioni troppo complesse e interconnesse per lo sguardo individuale o collettivo: l’economia globalizzata, la geopolitica neo-nazionalista, il cambiamento climatico e la devastazione ambientale in tutti i loro aspetti, dalla cementificazione della provincia italiana più sperduta fino alla diffusione globale di un virus che viaggia sulle rotte del mercato neoliberista.

L’album è figlio di uno sguardo, forse l’unico concesso alla generazione dei suoi autori, intriso di una sensazione di impending doom dalle forme indistinte e dalle dimensioni lovecraftiane. In Iena l’oggetto di questa angoscia diventa una bestia dalla «fame pazzesca» che «non smette di ridere»; si nasconde dietro la crisi sindemica, dietro la guerra, da sempre si contano le zanne nel cuore del capitalismo, di quello che c’era prima e quello che ci sarà dopo. Non c’è da stupirsi che una risposta generazionale frequente sia quella di rifuggire dalla scena pubblica e rintanarsi in se stessi, anche e soprattutto nel mondo della produzione culturale. Chi sceglie di non farlo, e i quattro casertani sono attualmente una delle poche realtà nell’ecosistema musicale italiano che sta provando ad andare oltre il gesto d’impegno performativo, la strada, difficile, è quella di evocare i temi nella loro dimensione complessa e ineffabile, chiamando in causa l’impatto sul sentire personale (Santa Pace, 7) più che provando a lanciarsi in analisi didascaliche e slogan.

In questo frangente è inevitabile partire dall’urto della pandemia, per poi avvicinarsi con suggestioni, ammiccamenti e riferimenti netti ad una serie di nodi cruciali che stanno intorno, dentro e più o avanti o più indietro nel tempo rispetto alle vicissitudini degli ultimi due anni.

Il video di Mamma Roma è girato all’ex Italsider di bagnoli, lontano dalla capitale ma al centro di uno dei simboli della devastazione ambientale in Italia, e di un processo di deindustrializzazione e smantellamento del settore pubblico tutto sbagliato che non ha saputo tutelare il diritto all’ambiente e quello al lavoro, né tantomeno a dare una risposta alle legittime aspettative degli abitanti in termini di recupero di spazi e risorse. Il brano si muove sulle tracce della cementificazione e della speculazione edilizia nel nostro paese, accompagnata dal mantra proverbiale «una volta qui era tutta campagna», tra città «sempre incinte» di «bambini in cemento» e territori sempre più indifesi di fronte agli eventi naturali, appesantiti e indeboliti da «opere pubbliche e pianificazioni sempre meno sostenibili”»

«La senti questa pioggia?»

Attraverso il video e il luogo comune-ritornello è facile guardare a una dimensione storica del saccheggio del territorio italiano, al peccato originale raccontato da Francesco Rosi in Le mani sulla città, mentre le pennellate noir/western di chitarra creano ancora una volta un ponte con un presente e un domani su cui le conseguenze di politiche scellerate ricadono e ricadranno. «Tuo figlio, lui / non perdonerà». In una sorta di hauntologia punk evocata all’interno dello scheletro dell’Italsider, e da lì a qualunque provincia spolpata fino all’osso, emerge il fantasma di alternative soppresse e di un tempo differente, in cui forse le cose potevano andare in maniera diversa.

Storie di industrializzazione/deindustrializzazione affiorano anche da Gigante di ferro, dove le distese di rottami, carcasse di auto, capannoni e fabbriche del casertano si stagliano sull’orizzonte come cittadelle fantascientifiche o fortezze di supereroi, stuzzicando la fantasia di qualunque bambinə cresciuto attraversando quelle zone in auto (chi scrive può testimoniare). Dietro l’immaginazione, il racconto di un territorio colpito da un’industrializzazione senza controllo, accompagnata dalla vicenda criminale e feroce degli sversamenti e interramenti di rifiuti tossici, dall’abusivismo e poi ancora dalla crisi economica. Un altro esempio di valorizzazione tutta sbagliata del territorio, di un conflitto insanabile in cui entrano in gioco le esigenze della produzione industriale, il capitalismo più predatorio, l’ambiente e il diritto alla salute, una storia dal passato occupata dalle macerie del presente in cui viviamo.

Foto di Guglielmo Verrienti

Rimane ancora lo sguardo innocente di bambino, convinto che «il gigante tornerà» a salvarci, ma è  in implacabile contraddizione con l’impotenza del liberarsi dalla «fame pazzesca» della iena che non smette di ridere, da cieli rossi carichi di presagi di guerra (Guancia a guancia). Gli stessi che infestano anche la visione infantile e materna  in 7, raccontando di un’umanità con sassi e polvere in tasca. Il mondo degli Zombie Cowboys incombe ed è un mondo di condizione estreme, arido e privo di vita, ma bersagliato da una pioggia incessante; anche nel brano apparentemente più romantico, Venezia, la città lagunare è sommersa, non ha senso immaginarla e immaginare un amore possibile lì tra i canali, se non sappiamo nuotare.

Non sembra esserci troppo spazio per un’alternativa, e forse non dovrebbe stupirci che uno dei pochi album, se non l’unico, con un forte sottotesto politico uscito negli anni ‘20 dalla penna di un gruppo di ventenni dipinge un quadro dalle tinte così fosche. Non è certamente il tempo degli album militanti con risposte facili o prospettive incoraggianti. Anche la rabbia che riverbera in tutto l’album, che come ogni rabbia di radici punk ha necessariamente anche dei tratti generazionali, sembra vacillare e  sciogliersi nell’invidia per gli anziani, che ormai non devono preoccuparsi del proprio futuro, racchiusa nella malinconica Sentenze. Denunciare un sistema insostenibile, ma in fondo desiderare anche solo un po’ di Santa pace e di serenità, a costo di immaginarsi anziani e privi di quella cosa che brucia in petto e ti fa venire voglia di riscrivere il futuro.

In questa presunta ambiguità forse si annida il significato di un album come questo nel 2022, in assenza di soluzioni da sbandierare, di posizioni adamantine da sostenere: ripartire da se stessi, non solo come individui, ma come comunità e soggetti complessi con debolezze, insicurezze, ma con la capacità di esercitare il dubbio, provare rabbia. Soprattutto, di prendere parola e provare a rompere il velo di Maya che da anni sembra impedire a buona parte della musica italiana di guardare in faccia la realtà, e che negli ultimi anni è diventato sempre più straniante rispetto ad una quotidianità surreale e completamente schiacciata da eventi di portata incommensurabile, di cui la pandemia e il conflitto in Ucraina sono solo gli ultimi.

A proposito di Zombie Cowboys, qualcuno ha richiamato l’immagine borisiana del «paese di musichette mentre fuori c’è la morte», con i Gomma ad alzare una delle pochissime voci fuori da un coro completamente accordato sull’autopromozione o, nel migliore dei casi, sul sostegno performativo alla causa del momento. Louis Armstrong sembra lanciare una stoccata a una musica che si confronta con l’esistente “pensando ad altro”, intrappolata nel canto di un fittizio migliore dei wonderful world possibili; se da parte degli artisti non sembra esserci bisogno andare oltre, c’è da chiedersi se invece il pubblico, soprattutto quello per cui l’adolescenza ha coinciso con gli ultimi, turbolenti anni, non stia iniziando a sentire il bisogno di trovare nella musica non solo uno spazio di evasione, ma un discorso comune in cui ritrovare anche un pezzo di se stessi e delle esperienze che viviamo collettività, se non una risposta alle grandi domande del nostro tempo. Un prodotto inusuale come Zombie Cowboys ci ricorda allora anche l’importanza di una filiera musicale indipendente. Una filiera di cui oggi rimane poco ma che ancora si muove tra cordate di piccole etichette, spesso a guadagni zero, concerti in piccoli club e spazi autogestiti, animata da un’etica DIY e un’idea dello stare insieme nella musica che è quella in cui i Gomma, pur trovandosi a parlare ad una platea più vasta di quella della maggior parte delle band underground, affondano le loro radici e da cui chiaramente continuano a prendere gran parte della loro attitudine.