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Violenza: è in corso una guerra sul e contro il corpo delle donne?

Un’anteprima dall’ultimo libro di Verónica Gago, ricercatrice e militante femminista argentina, “La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto” tradotto da Silvia Stefani (Università di Torino) per Capovolte edizioni. Il libro sarà presentato giovedì 5 maggio alle 18.30 a Esc Atelier a Roma

Possiamo parlare di guerra per definire l’aumento delle morti di donne, lesbiche, trans e travestis (80 per cento delle quali avvengono per mano di ex o attuali amanti, compagni, mariti)? Ovviamente non si tratta di una guerra nei termini di un confronto tra due parti simmetriche o con chiare regole di ingaggio. Ma ci sembra necessario qualificare così il tipo di conflitto che oggi, nella sola Argentina, comporta la morte di una donna, una lesbica, una persona travesti o trans ogni trentadue ore. Questo numero continua a crescere dal primo Sciopero Internazionale delle Donne del 2017 e nel mese immediatamente successivo a esso ha raggiunto un apice terrificante. Se le modalità dei crimini si diversificano, essi diventano tendenzialmente sempre più macabri, in un’escalation senza fine.

Perché ci uccidono? La ridefinizione della violenza sessista è stata un elemento chiave del movimento femminista negli ultimi anni, secondo due diverse modalità. In primo luogo, abbiamo reso plurale questa definizione: abbiamo smesso di parlare “solo” di violenza contro le donne e i corpi femminilizzati per iniziare a connetterla con un insieme di altre forme di violenza, senza le quali non possiamo comprendere la sua intensificazione storica. Parlare della violenza a partire dai femminicidi e dai travesticidi li colloca al suo culmine, ma, al contempo, pone una sfida: non fermarci lì, non limitarci a questo conteggio necropolitico dei femminicidi e delle vittime.

In quest’ottica, dare conto della pluralità delle violenze è una scelta strategica: è una forma concreta di connessione che produce intellegibilità e, dunque, permette di abbandonare la figura totalizzante della vittima. Rendere plurale il significato della violenza sessista non significa solo quantificare e catalogare diverse forme di violenza. È qualcosa di molto più complesso: significa mapparne la simultaneità e le interrelazioni.

Comporta collegare le famiglie che implodono con le terre rase al suolo dall’industria agroalimentare, il gap salariale con l’invisibilizzazione del lavoro domestico; connettere la violenza dell’austerity e della crisi con i modi in cui esse vengono affrontate dalle donne protagoniste delle economie popolari; nonché mettere in relazione tutte queste forme di violenza con lo sfruttamento finanziario esercitato attraverso il debito pubblico e privato. La pluralità della violenza collega i modi per disciplinare la disobbedienza attraverso la vera e propria repressione da parte dello Stato e la persecuzione dei movimenti migranti con l’incarcerazione delle donne più povere che praticano l’aborto e con la criminalizzazione delle economie di sussistenza. Inoltre, evidenzia la matrice razzista di ognuna di queste forme di violenza. Nulla è ovvio in questa rete di violenze: tracciare le forme di connessione significa rendere visibile il meccanismo di sfruttamento ed estrazione di valore che comporta soglie crescenti di violenza, con un impatto diverso (e dunque strategico) sui corpi femminilizzati.

Questo lavoro di tessitura – e lo sciopero è stato uno strumento fondamentale a tale fine – funziona come una ragnatela: è solo creando una cartografia politica, connettendo le linee che rendono le diverse forme di violenza funzioni di una dinamica interrelata, che possiamo denunciare il modo in cui la loro frammentazione cerca di rinchiuderci in celle isolate. Questa cartografia implica il superamento dei confini della “violenza di genere”, per collegarla alle molteplici forme di violenza che la rendono possibile. Così, usciamo dal “corsetto” di pure vittime con cui cercano di ingabbiarci per inaugurare un nuovo linguaggio politico capace non solo di denunciare la violenza contro i corpi delle donne, ma anche di includere altri corpi femminilizzati nella discussione e di muovere da una singola definizione di violenza (domestica e intima e, dunque, isolata) per arrivare a comprenderla nel suo legame con una rete di violenze economiche, istituzionali, la- vorative, coloniali, etc.

In questo tessuto politico possiamo anche valutare collettivamente l’impatto diverso della violenza su ciascuna di noi. Compresa in questo modo, la “Violenza” non è una parola enorme con l’iniziale maiuscola, che produce altre parole ugualmente grandi e astratte, come “Vittima”. Questa è la seconda novità introdotta dalla risignificazione della violenza: le forme assunte dalla violenza contro i corpi delle donne e femminilizzati sono analizzate a partire da situazioni specifiche, basate sulla specificità dei corpi stessi.

In questo modo, produciamo una comprensione della violenza come fenomeno totale. Il corpo di ognuna, come traiettoria ed esperienza, diventa una via d’accesso, un modo concreto di localizzazione, da cui si produce uno specifico punto di vista: come si esprime la violenza? Come assume una forma particolare in ogni corpo? Come riconoscerla? Come combatterla?

Questa comprensione incorporata della violenza ci permette di elaborare una critica trasversale a tutti gli spazi: dalla famiglia al sindacato, dalla scuola al centro comunitario, dai confini alle piazze. Ma lo fa dando a questa messa in questione un ancoraggio materiale, familiare, corporeo. Mentre la violenza mostra le differenze di oppressione e sfruttamento che si esprimono in diversi corpi concreti, essa al tempo stesso nutre, a partire da questa differenza, una “sorellanza interclassista” storicamente inedita, come sostiene la sociologa femminista argentina Dora Barrancos.

Tuttavia, è necessario un chiarimento: l’elemento comune non è la violenza, l’elemento comune è prodotto dalla messa in discussione situata e trasversale della violenza. Tracciare le connessioni tra diverse forme di violenza ci offre una prospettiva condivisa che è sia specifica sia in espansione, critica ma non paralizzante, capace di intrecciare le diverse esperienze.

Mappare le forme di violenza sulla base della loro connessione organica, senza perdere di vista la singolarità della produzione dei nodi in cui si intrecciano, ci permette di fare qualcosa in più: produrre un linguaggio che va oltre la nostra categorizzazione come vittime.

Infine, la questione della violenza solleva altre due questioni fondamentali: cosa significa produrre forme femministe di autodifesa di fronte all’aumento della violenza? E ancora: cosa significa per il movimento femminista essere capace di creare un proprio meccanismo di giustizia?

Il libro è uscito in italiano il 7 gennaio 2022 con Edizioni Capovolte, dopo essere stato pubblicato con Tinta Limon Ediciones in Argentina e tradotto in diverse lingue. Puoi aquistarlo qui o durante l’iniziativa a Esc.

Questo estratto è stato pubblicato originariamente sul sito della rivista Studi Questione Criminale che ringraziamo per la disponibilità. assieme alla casa editrice indipendente Capovolte che dal 2019 pubblica e traduce testi di saggistica con una prospettiva di genere, su temi relativi alle donne, ai femminismi, e all’intersezionalità. Il catalogo completo è disponibile qui

Immagine di copertina di Gianluigi Gurgigno per DINAMOpress. Sciopero femminista globale, Buenos Aires, 8 marzo 2019