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“Un trop humain virus”. La riflessione di Jean-Luc Nancy sulla corona-krisis

Edito da Bayard, Un trop humain virus di Jean-Luc Nancy riflette sulla crisi causata dalla pandemia: una minaccia all’uomo che evidenzia la «intollerabile» disuguaglianza di questa seconda modernità, in cui continua a sentirsi la mancanza di un solido modello di welfare

Quella di krisis è una categoria concettuale che può presentare, in questa fase storica, una certa efficacia per cogliere un tornante del mondo contemporaneo. Per quanti presagivano un’era della post-storia, sarà stata l’ennesima delusione. La Storia non finisce, semmai a volte ci sfinisce con imprevedibili disastri. Nell’epoca dell’antropocene, le minacce non provengono solo dall’uomo ma pervengono anche all’uomo. Questa pandemia ne è la prova evidente.

 

Su tale scenario, un libriccino da poco pubblicato in Francia da Jean-Luc Nancy – Un trop humain virus (Bayard, 2020) – ci permette qualche frammentario pensiero sullo statuto ontologico-politico del nostro sfuggente presente.

 

La pandemia che attanaglia le società umane evidenzia «lo stato fragile e problematico» di un mondo che – sebbene abbia connesso gli Stati, le città, i territori attraverso vincoli economici tesi ad alimentare un modello di crescita infinita – rispetto a questo «evento» si scopre disarmato e «lacerato» da differenze che impongono un ineludibile ripensamento della sua stessa figura.

Tali fratture palesano la siderale distanza tra gli interessi delle élites che detengono il potere economico e le masse di individui estromesse dal circuito politico. La corsa all’accaparramento da parte degli Stati al maggior numero di vaccini rende ancora più evidente la posta in gioco che si disputano le «potenze tecno-economiche» del capitale globale.

 

 

Lo stadio della Corona-krisis non attiene solo all’«organizzazione» del sistema-mondo e alle sue capacità di risposta ma a un processo di «mutazione profonda» intrinseco al mondo che conosciamo. In gioco sono le nostre capacità di adattamento ai mutamenti prodotti dall’infezione patogena in atto. Covid-19, in quanto «acceleratore di tensioni» (p. 9), porta alla luce «una malattia più grave» in corso da almeno tre decenni.

Simili considerazioni non sono affatto tardive in Nancy che già in precedenza ne aveva colto alcuni sintomi. Se il vorticoso turbinio degli scambi commerciali aveva configurato la possibilità di operare in un sistema economico globale – arena prediletta dai voraci spiriti animali del neo-liberismo – questa pandemia restituisce il frutto venefico di questo stadio della globalizzazione.

 

Non che la storia non avesse già inflitto alle società umane eventi simili, ma nessun algoritmo high-tech è riuscito a prevedere – nella società dell’utile per eccellenza – un fenomeno di tale portata.

 

La vecchia Europa avrebbe dovuto far tesoro delle pestilenze pregresse, ma la storia non docet. La pratica del «copia-incolla» sembra aver contagiato anche l’OMS e gli organi preposti a predisporre i protocolli sanitari per le emergenze. Il virus sembra, tuttavia, aver sconvolto meno le potenze «autocratiche» dell’Oriente che le democrazie occidentali. Queste, forti dei loro modelli di razionalità calcolante, si sono scoperte non solo impreparate all’onda mortifera che giungeva da Oriente ma ancor più paralizzate da un’irrituale incredulità.

Le scontate soluzioni protezionistiche si sono subito rivelate armi spuntate rispetto all’invisibile marea virale. Per non parlare degli Stati Uniti e della Gran Bretagna che hanno reagito in maniera del tutto scomposta con pose che oscillavano tra un bieco cinismo e un ancor più penoso scetticismo.

L’ospite inatteso è giunto in Occidente con gli stessi biglietti business-class con i quali i capitani d’assalto avevano perseguito i sogni di un turbo-capitalismo che ha barattato diritti con profitti, valori con dividendi aziendali. Le delocalizzazioni produttive hanno avuto un imprevisto effetto di ritorno, la comparsa di uno «straniero» che non si è fatto annunciare, un microscopico viaggiatore «senza biglietto».

 

Persino le nostrane vulgate in salsa leghista hanno dovuto per un po’ cedere il passo all’evidenza di una minaccia che non proveniva più dai marosi affrontati dagli ultimi dannati della terra, ma da affaristi del tutto ignari di quanto accadeva nel paese dei Mandarini.

 

Le «misure eccezionali» adottate dagli Stati hanno fatto riecheggiare – tra il disorientamento generale e un disarmante scetticismo – il fantasma dello schmittiano «stato di eccezione», sebbene l’unica eccezione effettiva sia quella di un virus sconosciuto che nulla ha a che fare con improbabili complotti anti-democratici. «Il coronavirus – scrive Nancy – in quanto pandemia è sotto tutti i riguardi un prodotto della mondializzazione» (p. 16).

Traendone peculiarità e «tendenze», il virus si rivela come un «libero-scambista» che si misura attivamente con l’articolato insieme di forze tecnico-economiche che regolano il sistema.

Se prima della pandemia, il triage indicava la scelta per classificare le urgenze, nei reparti sommersi dai ricoveri, il sistema sanitario è stato costretto – nell’incapacità di garantire a tutti l’universale diritto alla salute – a un drammatico e irreversibile processo di «selezione» tra individui «che possono essere ammessi alle cure» (p. 17) e altri da consegnare al loro destino, forse perché “improduttivi” dal punto di vista economico.

Vite di scarto – per dirla alla Bauman – che non contribuiscono abbastanza alla valorizzazione del capitale. Le reazioni delle società hanno mostrato un andamento schizofrenico: da tardive quanto inutili chiusure caldeggiate dai peggiori spiriti nazionalisti a un fatalismo privo di qualsiasi fondamento razionale. Profilassi sanitaria versus interessi di mercatura, affari olimpici versus contenimento della pandemia.

 

Con il global-disease la società si è improvvisamente riscoperta «troppo umana».

 

Lo statuto proprio di Covid-19 è, per Nancy, quello di un «communovirus» (p. 21), nozione ambivalente che espone una doppia accezione che rimanda per un verso alla Cina come sedicente regime «comunista», per un altro, alla paradossale natura di un virus che «accomuna» non solo nella condizione individuale che ci espone alla sua minaccia, al di là delle differenza di classe, di territorio, di etnia – una post-moderna livella 2.0 – ma anche nel costringere tutti a reagire insieme nella ricerca di un’inedita coesione sociale che contrasti la propagazione della pandemia.

L’aspetto inedito di tale «comunanza» ha prodotto il più grande processo di «distanziamento» che la storia umana ricordi; l’isolamento come contrappasso di qualsiasi istanza comunitaria. Ciò che accomuna le singolarità diviene ciò che ne marca la loro reciproca distanza. In una condivisione della solitudine nella quale non si può far altro che evitare il rischio patogeno proveniente dall’altro. Sembrerebbe quasi la rivincita dell’immunitas sulla communitas.

 

 

Particolare da Gibbons in a Landscape (S. Shukei, ca. 1750, Metropolitan Museum of Art)

 

Inedito paradosso di una «solidarietà» che può operare solo attraverso la negazione del rapporto, di quel cum che si rivela come interdetto attraverso l’agognato desiderio di trasgressione, di una preziosa e perduta «normalità» delle relazioni sociali. Le solide forme della nostra società (famiglia, nazione, luoghi di lavoro, chiese, scuole, università) vacillano sotto le scosse prodotte da questo nemico invisibile.

Il non-sapere che regna sovrano riattiva una ritrovata urgenza di riannodare i contatti affidandosi disperatamente alle molteplici chance della comunicazione. Questa impossibile condivisione acuisce ancor più la sensazione di essere orfani di una socialità che il virus ha irrimediabilmente spazzato via.

Su questo bordo, affiora tuttavia anche un’opportunità: ripensare l’esigenza stessa di una «sociazione» che informa la condizione umana, una kantiana socievolezza che – nonostante la catastrofe – resiste alle spinte centrifughe individuali. Ciò non significa ancora un’inedita forma di «comune».

Nancy, con sguardo disincantato, ci ricorda che siamo ancora lontani dal cogliere il «proprio dell’individuo», che per Marx stava nel suo «essere incomparabile, incommensurabile e inafferrabile» (p. 25). Quell’uomo che si «realizza» non nel possesso di beni, di cose, di merci quanto nella sua «unicità esclusiva» che si dà solo «nel rapporto e nello scambio», in quel «valore» senza misura e che si sottrae a qualsiasi equivalenza.

 

Cosa resta allora del valore quando tutto sembra consegnarsi all’orizzonte della mera sopravvivenza, di una «nuda vita» che non lascia più scorgere alcuna possibilità di senso?

 

In questo scenario, lo smarrimento sembra lasciare un margine solo alla paura, all’angoscia e alla tristezza dei morti senza commiato e senza sepoltura. Questo pervasivo contagio – che secondo Nancy riafferma il «diritto sovrano della morte» sulla vita – si trasmette in modo molto più efficace dei «diritti». Le disuguaglianze rendono ancor più manifeste le possibilità di isolamento riservate ai ceti privilegiati e quelle di chi tenta di resistere nei suburbi europei, a Gaza o nelle favelas sudamericane.

Esplodono le «differenze sociali» tra coloro che comunque mantengono l’accesso all’istruzione e coloro che – per mancanza di connessione – vengono espulsi dai sistemi formativi. Non è difficile immaginare quali cure saranno riservate alle moltitudini di senza-nome (e senza-cash) che saranno esclusi dal diritto al vaccino. Al virus che si abbatte sui corpi inermi, la replica che dovremmo aspettarci sarebbe quella di una liberalizzazione universale dei brevetti detenuti dalle aziende farmaceutiche e di un «reddito di cittadinanza universale» (p. 31) come estrema risorsa per poter tornare alla vita, alla ricerca di un lavoro.

 

«Noi non siamo uguali per un diritto ma per una concreta condizione di esistenza» (p. 40).

 

A contrastare questo a-venire che non viene, c’è un presente che non lascia spazio ad alcuna visione. Un accadere sospeso che fa della presenza a se stessi l’estrema esperienza del vuoto. Come i bambini, secondo Nancy, dovremmo «di nuovo imparare a respirare e a vivere» (p. 33). L’«I can’t breathe» di George Floyd sembra far risuonare la sua eco nelle miriadi di presenze silenziose che si ammassano nelle terapie intensive e ricordarci quanto prezioso sia quel respiro che manca.

Un termine che riecheggia nel dibattito sulle misure di contenimento è quello di «libertà». La crisi sembra aver rinfocolato i novelli arditi di una libertà che viene artatamente evocata ogni qual volta la sfera individuale sia messa in discussione. Il supposto «attacco» alla libertà sarebbe la manifestazione di fantasmatiche trame liberticide ordite ai danni degli inermi cittadini. Di che libertà è questione? Che cosa diviene la libertà quando a essere minacciato è il diritto fondamentale, il diritto di ciascuno alla vita?

Le libertà dei singoli (e del mercato) sarebbero sacrificate – secondo i social-darwiniani dell’ultima ora – per proteggere la parte della popolazione più minacciata al virus. Gli spiriti animali del laissez-faire tornano a far sentire le loro sordide voci appellandosi a una supposta «legge di natura» che autoregolandosi dispenserebbe morte o salvezza. Un cinismo ostentato sia da chi non vuole accettare le restrizioni, sia da chi si fa araldo di un liberismo d’accatto pronto a sacrificare – sull’altare della libertà di business – gli «inutili e gli sfortunati vegliardi» (p. 49).

Nancy coglie bene qui la confusione che il fuorviante appello alla «libertà» tradisce, una «libertà meschina» blandita solo per affermare l’arbitrio e il capriccio dei singoli. Dovremmo a lungo ricordare a questo folto squadrone di sedicenti «libertari» che la libertà deve misurarsi sempre con l’«interesse comune» (p. 55), con quello spazio condiviso nel quale il diritto alla libertà non va mai confuso con il diritto di contagio.

 

La minaccia che emerge è quella che Nancy stigmatizza come un «neo-viralismo» che traduce «sul piano sanitario il neoliberismo economico e sociale» (p. 47).

 

L’onnipotenza della scienza – nella vulgata dei neo-viralisti – sarebbe il sintomo di un’ostinata incapacità ad accettare la morte. La versione estrema di tale genia fascio-populista s’incarna nelle squadracce che avanzano nelle strade americane con fucili d’assalto per rivendicare la loro libertà di movimento, contro i «buonisti» che si ostinano nella pratica del distanziamento e della solidarietà sociale. La versione nostrana di questa specie è ben rappresentata dalla schiera dei no-mask, dei no-vax o degli innominabili negazionisti del virus.

La schiera dei liberal-sovrano-populisti, dopo la caduta delle illusioni securitarie che invocavano politiche di «immunità comunitaria», getta la maschera nel rivendicare una libertà che non può contrapporre al contagio se non uno miope rifiuto di una dura e nuova «realtà» che non prevede facili scappatoie. Assecondare gli istinti, le pulsioni, i moti irrazionali può solo allontanare da una presa di coscienza dei problemi presenti.

 

Particolare da Whaler (J. M. W. Turner, ca. 1845, Metropolitan Museum of Art)

 

La scomparsa di una qualsiasi praxis orientata al «progetto», alla costruzione di un futuro sostenibile rende ancora più urgente l’articolazione di un inedito orizzonte culturale, politico ed economico che ci proietti al di là del totem dell’«equivalenza generale» che ha segnato le politiche neo-liberiste. La pandemia diviene un catalizzatore di fenomeni che da tanto manifestano i loro effetti nefasti: sarà forse questa la tempesta perfetta che potrebbe far precipitare quelli che Nancy indica come «gravi squilibri climatici, energetici, esistenziali generati dalla febbre della produzione utile»? (p. 72)

Come gli anni Trenta ci hanno insegnato, le crisi possono incrinare le democrazie con esiti imprevedibili e l’assalto a Capitol Hill potrebbe già esserne un segno prodromico. Quella che si voleva come la società del «controllo» sta assumendo i tratti di una «società dell’incertezza» globale. Qualcosa deve essere sfuggito ai guru delle società di rating e ai tecnocrati dell’economia che sognavano una società regolata dal solo orizzonte valoriale del calcolo degli indici di borsa.

 

La grande paura è tornata e fa tremare tutti, innanzitutto gli ultimi, ma anche coloro che aspiravano a una confortevole «governance» al sicuro dalle oscillazioni del pendolo del mercato. «No future for you, no future for me», profetizzavano i Sex Pistols.

 

Quando cala la nebbia e i comandi non rispondono, i naviganti debbono affidarsi all’esperienza e alla fortuna, rintracciando tra le nubi i confusi «segnali» che consentano di ridefinire una rotta. L’era nella quale siamo entrati è «una realtà inedita» in cui vengono meno i precedenti sistemi di riferimento. «Abbiamo sentito», scrive Nancy, «vacillare l’autosufficienza. Quella dell’individuo, quella del gruppo, quella dello Stato oppure di qualche istituzione internazionale, quella delle autorità scientifiche o morali» (p. 79). Quel che in questa tempesta ancora sentiamo mancare è un solido modello di welfare.

E a coloro che la attraverseranno, occorrerà riflettere sull’«intollerabile» disuguaglianza di questa seconda modernità e tornare a pensare che «la nostra ragion d’essere è di nascere e morire, non di acquisire dei beni, dei poteri e dei saperi» (p. 85). Questa condizione di «forzata» assenza di con-tatto, che oggi scontano tutti nella «separazione» reciproca, farà forse riaffiorare quell’indigenza di senso che nonostante tutto ha sempre spinto le singolarità al rischio dell’altro, a una comunanza da ritrovare, a quello che Nancy definisce un «partage a voci eguali del peso della finitezza e del non-sapere» (p. 110).

 

In copertina particolare da Abstract Scene (J. Meuser, 1955) da WikiCommons