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The Best of 2017. Il teatro

Play in inglese vuol recitare, suonare, ma anche giocare. Perchè in teatro si tratta di giocare, anche se in modo affatto serio. La Compagnia di Fortezza, Anagoor, Agrupación Señor Serrano, ma anche il “Pinocchio” di Latella, Castellucci, Fanny&Alexander e molti altri: ecco quello che di meglio è passato sulla scena italiana durante il 2017

Il teatro, in nome di Dio, ha da esser gioco e non pensamento
(Carmelo Bene)

Perchè solo il gioco ha “la virtù di condurre molto avanti l’esplorazione del possibile”
(George Bataille)

 

Scrive Johan Huizinga in Homo ludens: “gioco è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in sé stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di ‘essere diversi’ dalla ‘vita ordinaria’”.

In I giochi e gli uomini, Roger Caillois individua quattro categorie in cui classificare i giochi (e sarà lungo questa suggestione che si diramerà la lista):

 

Agon: giochi che presentano le caratteristiche della competizione

Il dispositivo di Home visit Europe, ultimo progetto dei Rimini Protokoll, è quello di un gioco di ruolo, un gioco da viaggio che può essere agevolmente portato in un trolley, nel corso del quale si intrecciano storie personali e meccanismi politici nel tentativo di rispondere alla domanda: quanta Europa c’è in tutti noi? Ogni performance (pensata per un gruppo di 15 persone, ricevute e istruite da un “maestro di cerimonie”) ha preso posto in un diverso appartamento privato dando così vita a una tournée che si è spostata, porta a porta, lungo in tutto il continente. Un’idea di teatro come occasione di vedere attraverso una percezione alterata che fa apparire quel che nell’abitudine sparisce.

 

Alea: giochi nei quali si tratta di vincere non tanto su un avversario quanto sul destino

A House in Asia, del collettivo catalano Agrupación Señor Serrano, è un “western teatrale” che ritrae lo scenario contemporaneo, quello post 11 settembre, data d’inizio della “terza guerra mondiale”, conflitto combattuto “a pezzi” e differenti gradi d’intensità. Un progetto teatrale che rifiuta l’approccio cronachistico e per mezzo di una scena concepita come un videogame, come un ambiente aumentato in cui confluiscono data provenienti da diverse fonti (riprese live, miniature, video, registrazioni audio), opera ardite suture, fino a proporre una ricostruzione globale degli eventi.

Con Faust Anagoor, compagnia di Castelfranco Veneto già confrontatasi col teatro musicale (nel 2012 con Et manchi pietà, lavoro dedicato ad Artemisia Gentileschi scandito in tredici stazioni e due meditazioni, e nel 2013 con Il palazzo di Atlante di Luigi Rossi, operazione site-specific allestita per la Sagra Malatestiana), debutta nell’opera facendo incontrare Goethe con Charles Gounod, il compositore francese troppo spesso biasimato di non aver reso giustizia al capolavoro del poeta tedesco. Succede prima dell’ouverture: a Weimar, nel 1832, seduto in poltrona, il vecchio Goethe sfoglia il manoscritto del Faust. È l’anno della sua morte. Un frammento videoproiettao sul velo che chiude l’arco scenico. Sì, perché tutto il teatro di Anagoor si costruisce sulle relazioni e le cortocircuitazioni fra i diversi linguaggi espressivi e spettacolari. I video, appositamente realizzati, aprono lo spettacolo a tempi altri rispetto a quello della narrazione, in cui trovano spazio riflessioni universali sull’uomo e le sue pulsioni nonché delucidazioni meta-letterarie sull’opera e i suoi autori.

 

Mimicry: giochi nei quali si finge di essere altro o di vivere un’altra realtà

To be or not to be Roger Bernat, di Fanny & Alexander, è uno spettacolo che si propone come una conferenza su Amleto a opera di un attore, Marco Cavalcoli, che si presenta come Roger Bernat. L’attore inizia il discorso doppiando il monologo shakespeariano recitato fuori campo dalla voce di Bernat, la quale a poco a poco sfuma nella propria. Cavalcoli non è solo colui che s’impossessa di, ma anche colui che si fa possedere dai molteplici adattamenti che hanno costruito e insieme frammentato l’identità di Amleto, il cui dubbio, espresso con disarmante chiarezza nella domanda “essere o non essere”, dice tutto della tensione dualistica insita nella prassi recitativa, della spaesante separazione tra Attore e Ruolo a cui è costretto l’interprete, un soggetto che si realizza perdendosi, diventando altro per divenire la verità di sé stesso come direbbe Guy Debord.

“Come possono dei bambini mettere in scena la vita e le azioni dell’assassino di bambini Marc Dutroux?”. È questa la prima domanda che ci si fa pensando Five Easy Pieces, l’ultimo progetto di Milo Rau che si concentra sulla vicenda di Dutroux, l’uomo che rapendo, stuprando e uccidendo bambine è tristemente passato alla storia come il mostro di Marcinelle. A portare in scena la biografia dell’orco, che poi è anche quella del mondo che gli ha permesso di esistere, un gruppo di bambini e ragazzi tra gli 8 e i 13 anni, scelta, allo stesso tempo, paradossale e vendicativa. Uno spettacolo tutto giocato sul doppio: tra il piano di realtà (la cronaca) e quello della finzione (la ricostruzione in scena), le azioni interpretate dai bambini e quelle proiettate su schermo e interpretate da personaggi adulti che compiono gli stessi gesti, amplificandoli in un cortocircuito che chiama direttamente in causa gli spettatori.

 

Ilinx: giochi che si basano sulla ricerca della vertigine, infrangendo la stabilità delle percezioni

Pinocchio di Antonio Lattela, per dirla pasolinianamente, è spettacolo che si presenta sotto forma di edizione critica di un testo considerato monumentale: l’opera collodiana, di cui sono rispettati i personaggi e gli intrecci drammaturgici, è arricchita di intromissioni intertestuali, tanto da tramutarsi in opera aperta, quindi non compiuta e definita, che mentre si mostra allo spettatore rivela i meccanismi del suo farsi. Un lungo naso bugiardo ricopre l’intero palcoscenico. Ma per Latella è “necessario che l’artificio venga distrutto, che la scenografia venga smontata e il palco torni ad essere vuoto” perché, come lui stesso dichiarato: “ho bisogno di arrivare là dove sono io ora, dove per me c’è lo stare oggi”.

Ethica. Natura e origine della mente più che uno spettacolo è un “esperimento di antropologia teatrale” come lo ha definito il regista Romeo Castellucci. Uno spettacolo che inizia con l’oltreppassamento della cosiddetta “quarta parete”: è qui nell’Oskené – letteralmente “oltre la scena”-, dove non ci sono personaggi ma archetipi, figurazioni di concetti, che “l’immagine creata nella mente dell’artista raggiunge la mente dello spettatore, il quale la riceve, sì, ma nel ricevere la forma”, è in questo spazio ipotetico “tra il nulla e l’addio” che si sancisce la fusione tra la ricezione e l’idea originaria.

Con Le parole lievi – Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato Aramando Punzo, con i detenuti-attori della sua Compagnia della Fortezza, si spinge nell’inesplorato della irrealtà, arrischiandosi a latitudini non ancora pensate, in cui è necessario smarrirsi per ritrovarsi. Il titolo riprende un verso di William Butler Yeats, ma ad ispirare questo che è soprattutto progetto, lavorazione, piuttosto che spettacolo, è la scrittura di Borges la cui forza è quella di incrinare il principio di realtà, allontanando il lettore dal piano della quotidianità e della concretezza, costringendolo a smarrirsi nel mondo delle idee non ancora pensate. Le parole lievi è la prima tappa di un progetto speciale, biennale, dedicato al tema della Hybris, parola a cui si associano i significati di superbia, insolenza, tracotanza. E l’idea scandalosa è quella di ribaltarne il senso, riuscendo a farla intendere in termini di sfida, spregiudicata ricerca della felicità, contro ogni apparentemente immodificabile dato di realtà.