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The Best of 2017. I romanzi

Michel Chabod, Ian McEwan ma anche Donatella di Pietrantonio, Zadie Smith e Margo Jefferson. Ecco quali sono stati alcuni dei romanzi in italiano e in traduzione più belli e significativi di questo 2017.

8. Patria di Fernando Aramburu (Guanda)

C’è una cosa che emerge fra le altre in questo imponente romanzo che vorrebbe chiudere definitivamente i conti fra l’Eta e la cultura spagnola: il legame fra politica e giovinezza. Nelle interviste rilasciate per il lancio in Italia del libro, lo scrittore basco ha insistito molto sui mezzi della propaganda dell’Eta, sulle fotografie sfoggiate dei detenuti politici che li mostravano sempre giovani e attraenti, negando il fatto che in carcere fossero invecchiati e ingrassati. La violenza cancella il tempo, promette l’eternità dell’idea, laddove la scrittura si assume il compito contrario di scandirne la durata e la pesantezza. Le storie di due famiglie basche colpite in maniera diversa dalla lotta armata separatista sono intrecciate in maniera forse tradizionale, attraverso il classico mosaico di rivendicazioni e dolori, vendette e gelosie; ma portano dentro l’anima di una storia non riconciliata, mettono a nudo l’indottrinamento politico di una regione e il tentativo di salvarsi dalla deriva. Ora che la tregua è stata firmata, ora che il disarmo è cominciato, il tempo ha fatto la sua parte, e il romanzo può tessere le sue trame.

 

7. Negroland di Margo Jefferson (66th and 2nd)

“La chiamo Negroland perché trovo ancora che ‘Negro’ sia una parola sbalorditiva, illustre e terrificante. Una parola che trovi sui manifesti con gli schiavi fuggiaschi e sugli editti con i diritti civili; nelle convenzioni sociali e negli sbruffoni all’angolo della strada”. Scrive così Margo Jefferson all’inizio del suo memoir di scrittrice e donna negra nata a Chicago nel 1947 e cresciuta in una famiglia della borghesia afroamericana colta e altolocata. Il suo racconto lungo mezzo secolo passa dalla bambagia dell’infanzia alle passioni di una giovinezza da privilegiata (i cosmetici, i vestiti, Audrey Hepburn, i ricordi piacevoli e il senso di colpa di non potersi crogiolare nel destino di una razza), dagli echi delle rivolte all’educazione alla cultura di generazioni di negri abituati a odiare e a essere odiati, a resistere e costruirsi faticosamente un’identità. “Come fai ad adattare il tuo io ostinatamente singolare a una storia così lunga, a così tanti miti? A così tanta gloria, bassezza, onorabilità e slealtà?”.

 

6. Swing Time di Zadie Smith (Mondadori)

In The Shape of Water di Guillermo Del Toro, il vincitore della Mostra di Venezia e probabilmente anche dei prossimi Oscar, la protagonista triste e sola sogna a occhi aperti guardando alla tv in bianco e nero (siamo negli anni ’50) vecchi musical anni ’30 con i ballerini danzano leggiadri e sinuosi. Pare strano, ma il cinema classico è ancora raccontato come una fuga in fantasie di celluloide e di illusioni in trasparenza. In questo romanzo diseguale e strano, Zadie Smith, raccontando la storia di due amiche inglesi di origine giamaicana che crescono nella Londra degli anni ’80, entrambe mulatte, l’una bravissima a danzare e l’altra negata, prende invece il medesimo immaginario ritrito – Ginger e Fred, Pick Up Yourself Up, Cheek to Cheek, All of Me, Follie d’inverno (titolo italiano di Swing Time) – e grazie a Dio lo ribalta completamente: lo considera puro movimento, concretezza di corpi in sintonia e passi coordinati, cancella per una volta il cinema e si concentra sui balletti, scopre la storia dimenticata della danza black hollywoodiana, i Nicholas Brothers, Stormy Weather, Jeni LeGon, Mr Bojangles (per poi arrivare a Michael Jackson e a un’inesistente cantante pop che si pulisce la coscienza con progetti educativi nell’Africa subsahariana…) e ridefinisce a fatica la propria identità di donna, di inglese e di nera, a partire da radici che non affondano più nella terra ma nell’immaginario.

 

5. Innocenti e gli altri di Dana Spiotta (La nave di Teseo)

A proposito di immagini chiuse negli occhi: è incredibile come certi romanzi che nulla hanno in comune riescano a parlarsi a distanza. In Innocenti e gli altri di Dana Spiotta, scrittrice americana postmoderna, allieva ideale del De Lillo di Rumore bianco, accumulatrice compulsiva di esperienze cinematografiche, di titoli di film veri e di titoli film inventati, di nomi di registi veri e di nomi di registi inventati (qui c’è anche un racconto sugli ultimi anni di vita di un signore del cinema che chiunque capisce essere Orson Welles), alla fine di una storia che ha per protagoniste due amiche che crescono insieme nella Los Angeles degli anni ’80 e un po’ alla volta si separano, una regista sperimentale che ha perso la fede nel cinema, l’altra regista di commedie femministe di successo, c’è un passaggio come questo. “Guardò a fondo nel nero dei suoi occhi chiusi. Fissò il buio. Quando il senso della vista riceve pochissimi stimoli si inventa immagini. Sarah non lo sa ma si chiama “cinema del prigioniero”. È uno scherzo della mente, la cecità trasformata in splendida visione”. Forse è vero, allora, che il destino della scrittura, e con essa della visione e dunque del cinema, sta proprio in quello spazio tra l’occhio e la realtà di cui parlano sia Dana Spiotta sia Donatella Di Pietrantonio. In quel buio vergine da riempire di allucinazioni che la scienza, dice Spiotta, chiama “fosfeni”, cioè “apparizione di luci”, c’è la consolazione di chi sa di non poter più raccontare, vedere o credere in alcunché.

 

4. L’arminuta di Donatella di Pietrantonio (Einaudi)

Non è solo la storia tremenda di un’ingiustizia lontata, di un dolore privato, a rendere L’arminuta un romanzo prezioso. Non è solo il destino della bambina protagonista, una ragazzina che un giorno è costretta ad abbandonare quella che ha sempre creduto essere la sua famiglia e a incontrare i suoi genitori naturali, una coppia di contadini dell’entroterra abruzzese con altre quattro figli a carico. Non è solo la tragedia e la forza di questa vittima di un’Italia arcaica e poverissima, l’arminuta, la ritornata, la bambina data in adozione dalla madre alla cugina sterile e poi, per una ragione a lei sconosciuta, strappata alla sua vita e gettata in una nuova. È la precisione dello stile della Pietrantonio, l’eco profonda delle sue parole calibrate, l’attenzione per gli snodi imprevedibili di una realtà incomprensibile e inesplicabile. “Stringendo un poco le palpebre”, dice nel finale la protagonista a proposito di un ricordo della sorella Adriana, “l’ho presa prigioniera tra le ciglia”: in quello spazio chiuso, in quel mondo che viene prima della parola e subito dopo la visione, forse sta il segreto della scrittura.

 

3. Nel guscio di Ian McEwan (Einaudi)

Basta l’idea di questo romanzo per capire cosa vuol dire scrivere, inventare, ribaltare il mondo e descriverlo: il narratore è un bambino al terzo trimestre di gravidanza della madre, già in posizione per uscire e dunque a testa in giù. Impara dai programmi radiofonici della Bbc, per questo sa tutto di vini francesi e viaggi nel mondo, assorbe ogni cosa che ascolta e ogni cosa di cui la madre lo nutre. Ha un padre poeta che è stato cacciato di casa. Adora la proprietaria della pancia che lo ospita ma dal suo origliare capisce che ha una relazione con il fratello del padre e che i due meditano di uccidere suo padre. Lui è l’unico testimone, non sa cosa fare e teme soprattutto per sé, teme di non essere amato e voluto. Ricorda qualcosa? Sì, esatto, proprio lei, la tragedia del dubbio, l’Amleto, che McEwan reimmagina nel modo più incredibile possibile, affidando a un bambino non ancora nato la nostalgia di una felicità e di un amore che nemmeno ha ancora provato. Semplicemente perfetto.

 

2. Una vita come tante di Hanya Yanagihara (Sellerio)

Dickens, sempre Dickens, ancora Dickens. Dopo la Pip di Franzen, prima del Ferguson di Auster (4 3 2 1, altro romanzo tra i più significativi dell’anno, non necessariamente fra i più belli), ora il moderno Oliver Twist di questo libro poderoso ed eccessivo, Jude (che dal nome fa pensare anche Thomas Hardy e al suo realismo determinista), orfano americano cresciuto in un convento, molestato, violentato, costretto a prostituirsi, menomato nel fisico, salvato da un’assistente sociale e da grande, per una pena del contrappasso al contrario, amato e ammirato come nessun altro dalla cerchia di amici con cui cresce e in cui trova la sua prima e unica famiglia, quattro ragazzi inseparabili che si conoscono al college e poi diventano adulti in una New York di artisti, avvocati e attori, di bassifondi squallidi e appartamenti altolocati. La scrittrice di origini hawaiane rivela solo al lettore l’origine dei traumi del protagonista e sceglie invece di lasciare all’oscuro il resto dei personaggi, in un gioco che sarebbe quasi hitchcockiano se prevalessero il mistero e il desiderio, laddove invece dalle mille e passa pagine di Una vita come tante emergono soprattutto la potenza e il compiacimento, morboso fino allo sfinimento, di un melodramma strappalacrime che non arretra di fronte a nulla, tra la dolcezza dell’amore (quasi sempre omosessuale) più puro e l’incomprensibile rabbia dell’autolesionismo.

 

1. Sognando la luna di Michael Chabon (Rizzoli)

Chabon racconta la vita di suo nonno: scienziato, imprenditore, ex carcerato, ex soldato sul fronte francese nella Seconda guerra mondiale, marito di una ragazza francese di origine ebraica sopravvissuta allo sterminio nazista, ebreo anche lui, appassionato di missili, di viaggi spaziali, autore di modellini per la Nasa, ossessionato dalla carriera di Werner Von Braun, il nazista inventore dei razzi V2 e papà del programma spaziale americano, che nel 1945, nell’Europa ormai liberata, quasi riuscì a catturare. Sul letto di morte l’uomo racconta al nipote tutto ciò che ha taciuto in una vita, e il nipote ascolta, domanda, trascrive, travisa, inventa. Forse qualcosa, più probabilmente tutto quanto, persino l’identità del nonno e di se stesso. Ma è il bello del romanzo, la possibilità di trasformare l’io narrante in una menzogna e la (finta?) biografia di un uomo qualunque in un’elegia universale e quasi comica.