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Storie di giovani e di muri. “La città e il fantasma” di Davide Grasso
Come funziona politicamente un muro? E perché sono sempre i giovani, o quasi, a far cadere i muri, reali e mentali, che separano e soggiogano i popoli? A partire dall’ultimo libro di Davide Grasso, “La città e il fantasma. Dal Muro di Berlino ai nuovi muri” (2019), Daniele Poccia prova a riflettere sul nesso tra possibilità di trasformazione dell’esistente e quella specifica forma della biopolitica neoliberista contemporanea che ha scelto come proprio bersaglio privilegiato le nuove generazioni e la loro capacità di far convergere idee e realtà, immaginazione e prassi
Nel tempo sospeso di una guerra o di una catastrofe naturale si annidano spesso i prodromi di una spinta all’emancipazione politica che, in altre condizioni, farebbe fatica ad affermarsi. Questa volta, tuttavia, l’emergenza protratta per la pandemia di Covid-19 non sembra (almeno a prima vista), per ragioni tanto ovvie quanto bisognose di tutta la nostra attenzione critica, aver sprigionato la stessa potenza di cambiamento dal basso che ha caratterizzato nel corso dell’epoca moderna altri momenti di sconvolgimento della vita associata – ma le recenti mobilitazioni dei rider, come quelle all’insegna del motto «tu ci chiudi, tu ci paghi», sembrano far presagire un cambiamento prossimo venturo, capace forse di mettere in questione una situazione ormai troppo cristallizzata…
A fronte infatti di un blocco iterato, seppure discontinuo e pressoché mondiale delle attività economiche e sociali, ci siamo trovati, per necessità e virtù, a dover sospendere e ripensare dalle fondamenta anche quel poco di condotte politicamente incidenti che negli ultimi anni, almeno nel contesto nazionale, prendevano soprattutto la forma privilegiata dell’occupazione e dell’autogestione di spazi pubblici, ovvero di spazi di relativa indipendenza dalle istituzioni (i cosiddetti “centri sociali”, per intendersi). Col risultato di proiettare l’attività “politica” quasi per intero in rete e di sancire così emblematicamente le forme di (dis)organizzazione di un’umanità sempre meno capace, almeno in Occidente, di vivere in consapevole autonomia lo spazio pubblico fisico.
La dimensione del muro – della reclusione in un’area circoscritta e confinata – da funzione concentrata in alcuni specifici distretti statuali (prigioni, fabbriche, caserme, scuole, ecc.) pare infatti disseminarsi negli ultimi decenni in una miriade di divisioni, visibili e invisibili, la cui funzione non è più semplicemente di recludere e internare, ma di governare i flussi (umani e non) e di organizzarli secondo un criterio di ripartizione che autorizza alcuni al passaggio e esclude invece gli altri. Siamo sottoposti a un continuo regime di check point, da attraversare mostrando i documenti – che si tratti del caso, meno drammatico ma simbolico, del lavoro in smart working, dell’istruzione in Dad, o di quello, tragico a dir poco, di un profugo o di un militante alle prese con un muro alto svariati metri e lungo, talvolta, centinaia di chilometri.
Ora, un muro è innanzitutto una soglia, che divide un dentro da un fuori, un noi da un voi: al limite, un amico da un nemico. Ma un muro è anche uno strumento di controllo, che istituisce, separando un popolo da un altro, una serie di dinamiche politiche ed economiche che non avrebbero la loro ragion d’essere senza di esso.
È su quest’ultimo aspetto che insiste l’ultimo libro di Davide Grasso, La città e il fantasma. Dal Muro di Berlino ai nuovi muri (Castelvecchi, 2019). La struttura “narrativa” di questo testo ha qualcosa di intrinsecamente “classico”. Si inizia con un antefatto, rappresentato dagli avvenimenti che condussero alla costruzione del Muro di Berlino, tra il 1945 e il 1961; si prosegue con una lenta progressione drammatica, incarnata nella serie di eventi – rivolte e primavere, crisi istituzionali, passaggi di potere, risposte culturali più e meno underground – che dal 1956 al 1989 preparano la spettacolare caduta della Cortina di Ferro; infine, accade l’agnizione finale (il biennio 1989-1991, naturalmente) che tutti si aspettavano, seguita a ruota, però, da una sequela di eventi che rilanciano la storia raccontata sino ai nostri giorni, rivelando al contempo un mutamento di scala e di logica politica che si impone come una sorta di inaspettato e imprevedibile seguito di una Storia, con la maiuscola a capolettera, che sembrava finita una volte per tutte.
Nel frattempo, infatti, qualcosa di inedito è successo: al muro, al singolare, ne sono subentrati molti altri, e allo schema bipolare della Guerra Fredda, in fin dei conti ancora molto eurocentrico o comunque legato a vicende prettamente occidentali, si è sostituito un modello di governo dei movimenti umani basato sì sul controllo territoriale, ma attraverso un sistema di murature che rivela l’ordine ormai compiutamente acentrico della geopolitica contemporanea. Diventa allora inevitabile riconoscere che, sebbene dalla caduta del Muro di Berlino siano passati poco più di trent’anni, un’intera epoca ha tuttavia ceduto il passo ad un’altra. L’Autore individua la cifra di questo mutamento in una sorta di moltiplicazione di quel dispositivo che fu altrimenti, negli anni della Guerra Fredda (e, nello specifico, dal 1961 al 1989), il muro, nel suo assicurare «il controllo politico e sociale dei movimenti umani in base a calcoli economici e politici internazionali» (p. 216).
Nella sua dettagliata ricognizione, Grasso miscela allora sapientemente la storia istituzionale delle repubbliche del Patto di Varsavia e quella popolare di una cultura di massa che, insieme alle politiche del debito estero, è stato il vero cavallo di Troia delle potenze dell’Occidente liberale nei confronti del blocco socialista.
Ottiene così l’effetto di accompagnare il lettore in un singolare viaggio, nel quale le stesse rivendicazioni delle popolazioni dell’Europa orientale, improntate invariabilmente alla richiesta di maggiore libertà politiche ed economiche, si intrecciano senza sosta a quanto si potrebbe definire la progressiva dismissione del ruolo storico delle idee a favore delle immagini e comunque delle forme di comunicazione fondate sulla fruizione immediata, non risultanti insomma da una elaborazione critica collettiva (quale è quella che, a nostro parere, sempre informa la politica reale, a ogni livello).
Esemplare, da questo punto di vista, è la narrazione della cosiddetta “Guerra fredda dei Concerti” (pp. 90 e ss.). Nel 1987, comincia un botta e riposta epocale tra Brd (Germania dell’Ovest) e Ddr (Germania dell’Est) che si svolge tutto sul piano musicale. Star internazionali e rigorosamente occidentali come gli Eurythmics, David Bowie, Pink Floyd e Michael Jackson, convocate dal fronte occidentale, e i Depeche Mode, Brian Adams e Bruce Springsteen, assoldate dal fronte orientale, si esibiscono in una Berlino sempre meno divisa e tanto più desiderosa di diventare una delle tante, grandi metropoli del mondo, pulsante al ritmo di una sola musica globalizzata.
Scrive in effetti Grasso: «Il rapporto sempre più stretto tra non detto politico e musica, evidente nella vicenda cecoslovacca dei Plastic People of the Universe, era esploso a Berlino nel giugno del 1987, quando, per i 750 anni dalla fondazione della città, una serie di eventi fu organizzata a ridosso del muro, nei pressi del Reichstag, con l’evidente intento di provocare attenzione, invidia e tensione nella metà socialista» (p. 90). In fin dei conti, infatti, a uscirne completamente sconfitto ancora prima del 1989 fu il rigorismo morale e culturale dei Paesi della Cortina di Ferro che, nel giro di pochissimo tempo, si trovarono costretti a cedere all’Occidente liberale provando a rispondergli con le sue stesse armi (la musica pop) e aprendosi così decisamente a un’avanzata che nessun confine materiale avrebbe potuto e saputo arrestare: quella, appunto, della globalizzazione, economica e culturale.
La Storia dopo il 1989-1991 si mostra allora come più difficile da tracciare di quanto non lo fosse quella immediatamente precedente. Più passa il tempo, anzi, più lo diventa, ineffabile.
Le linee di forza che dovrebbero attraversare la successione degli eventi puri e semplici, e che una storiografia attendibile è tenuta a raccogliere e riarrangiare in maniera sensata, si fanno in questo caso quasi inassegnabili. I fatti si stagliano ormai equanimemente in uno scenario geo-politico ed economico mondiale che rende impossibile individuare una qualche forma di avanzamento lineare della Storia, a parte quello riconducibile a una «logica della moltiplicazione dei muri» (p. 204). E cioè a una pluralizzazione dei fattori di divisione, di contrasto e di frammentazione che effettivamente costellano in maniera crescente il mondo odierno. L’impressione, quindi, è di assistere a uno sfaldamento progressivo degli ordini – materiali, prima ancora che simbolici – che dominavano, in maniera più o meno efficace ma comunque visibile, il mondo precedente quella data.
La transizione dal muro di Berlino ai muri, al plurale, contrassegna una sorta di smembramento sociale che smentisce, nell’atto di realizzarla, la prospettiva di una globalizzazione all’insegna di un regime economico ormai unificato e senza alternativa. Dal muro di Ceuta, tra Spagna e Marocco, a quello ormai tristemente noto tra gli Stati Uniti e il Messico; dalla cinta muraria che separa Israele dalla Cisgiordania a quella che passa tra Pakistan e Afghanistan (solo per citare alcuni dei muri di cui Grasso ricostruisce la nascita), l’economia neoliberista, incontrastata, fa il paio con una frammentazione politica senza precedenti. All’età della Catastrofe di cui ci ha parlato Eric Hobsbawm per descrivere il cuore del Secolo Breve è subentrata una nuova età della Dissoluzione – in tutti i sensi della parola. Dissolta pare la speranza di emancipazione socio-politica che ha caratterizzato il Novecento.
Dissolto è lo stesso anomalo “internazionalismo” che, almeno fino a certo punto, caratterizzava lo sviluppo spontaneo del capitale, in favore di una circolazione di merci, capitali e informazioni che avviene sempre più a discapito del libero movimento degli esseri umani. Dissolta è la prospettiva di una governance mondiale, travolta dalle stesse forze – l’economia globale – che sembravano averne arrangiato le premesse concrete. La «muratura tendenziale del mondo nel nuovo millennio» apre una stagione in cui la «rottura» (p. 226) del 1989 appare à rebours meno drastica di quanto sembrò in un primo momento, mentre le categorie storiche e politiche che governavano quel mondo subiscono sempre di più, nel vortice delle dinamiche politiche vigenti, un processo di drammatica decostruzione.
A fronte allora di uno sviluppo storico che sembra essersi rivolto all’indietro, procedendo per passaggi regressivi, i fatti cominciano a disporsi secondo un criterio non più longitudinale o sagittale, ma radiale e reticolare, raggruppandosi intorno a focolai di dissoluzione crescente.
Si tratta soltanto di un effetto prospettico dovuto alla prossimità con il momento in cui l’Autore, come tutti noi che ne parliamo, siamo situati? È solo perché, avvicinandosi sempre di più al tempo del loro narratore, gli eventi finiscono per apparire inevitabilmente più caotici di quelli precedenti e quindi meno riconducibili a una qualche forma di razionalizzazione teleologica, del resto sempre retrospettiva? Anche fosse, come forse realmente è, in questo caso ci troveremmo per la prima volta al cospetto di una situazione in cui non solo il presente o il passato recente appaiono opachi per eccesso di prossimità, ma non sono nemmeno più disponibili strumenti concettuali tramandati con i quali provare a ordinare i fatti e le direzioni storiche, nella loro insistente incoattività.
Il Novecento ne ha fatto altrettanto piazza pulita, anche in merito all’operatività del pensiero critico. Sul piano del sentire collettivo come su quello delle strutture economiche e politiche, questo sparpagliamento di riferimenti ha reso sempre più difficile pensare, e sempre più improbabile da praticare, un’alternativa all’attuale sistema economico mondiale. Lo svilimento nei fatti prima ancora che nei discorsi della direzionalità storica che fino al 1989 sembrava ai più innegabile coincide con una sorta di indebolimento della coscienza collettiva relativa al cambiamento sociale, visto non più come possibile e sempre più, invece, come un effetto collaterale di dinamiche tecnologiche ed economiche del tutto incontrollabili.
Un aspetto emerge tuttavia con particolare ‘irruenza’ dalla narrazione orchestrata da Grasso, lo stesso che presiedette alla nascita del socialismo reale, raccontato per esempio con particolare efficacia e attenzione per la giovinezza dei suoi protagonisti nel Viaggio Sentimentale di Viktor Šklovskij, del 1923 (ripubblicato da Adelphi lo scorso anno). L’entusiasmo quasi orgiastico dei primi anni della Rivoluzione russa, ripercorso nel secondo dal punto di vista singolare di un intellettuale costretto presto a fuggire la madrepatria, per sopraggiunta incompatibilità con la rapida degenerazione autoritaria del bolscevismo, riecheggia infatti nella lenta ma inesorabile (tragica e gioiosa al contempo) caduta della Cortina di Ferro, raccontata nel primo con uno stile per quanto possibile concreto, mescolando storia istituzionale e storia culturale, storia dei collettivi umani e storia delle idee.
C’è infatti una nota comune, al di là dell’ovvia continuità storica, che accompagna i fatti narrati nell’uno come nell’altro libro, un sentore condiviso dal principio come dall’epilogo di quella vicenda: ovvero, il protagonismo storico indiscusso delle nuove generazioni.
Artefici, nell’uno e nell’altro caso, di un passaggio al limite ogni volta senza precedenti, i giovani sono necessariamente, e quasi biologicamente, il punto d’innesto nella Storia del cambiamento concreto, il luogo di articolazione tra il pensiero e il reale. Sono la cerniera instabile ma indispensabile tra idee e mondo. La storia stessa della tarda Modernità non è in fondo altro che questa scoperta, progressivamente “con-saputa”, della potenza di cambiamento radicale che compete alle nuove generazioni: è l’emergenza della gioventù quale soggettività storica trainante e decisiva.
Ecco dunque che cosa è successo e che spiega forse l’inerzia politica degli ultimi decenni: il capitalismo contemporaneo ha saputo mettere a frutto più di ogni altra cosa la vita dei giovani, trasformandola in un nuovo e inesauribile (perché sempre rinnovato e rinnovabile) territorio di accumulazione originaria, rivelando così il suo volto forse più antico. La digitalizzazione dell’economia, tra le altre cose, si fonda su questo formidabile, nel senso etimologico di “terrificante”, atout: convertire direttamente la disposizione giovanile a incarnare le idee – disposizione che si realizza sempre mediante un passaggio al limite politico trasformativo – in un terreno di fondamentale produzione del valore economico. Il capitalismo digitale è il tentativo di invertire il senso politicamente innovatore del protagonismo storico giovanile, ancorando la propria azione nel punto in cui le idee e il reale si incrociano e recidendo questo legame mutevole: facendo delle idee la sola realtà concreta, nella proliferazione di avatar di una realtà sempre meno direttamente vissuta, e spogliando la realtà di ogni idea accessoria, lasciando la realtà stessa al governo delle procedure automatiche.
Trasformando anzi le nuove generazioni in un bacino di continua espropriazione, grazie al quale scovare sempre nuovi strumenti di ricolonizzazione delle vie di fuga aperte dal loro continuo movimento, fisico e intellettuale. “Iperconnessione”, vocabolo entrato nel linguaggio contemporaneo con una prepotenza sintomatica, significa allora, essenzialmente, “sfruttamento della gioventù”, anche di quelle forze ‘giovani’ che permangono in chi ormai non è più tale. Significa il contrario di quello che dice, se è vero che il rapporto con le idee è sempre contrassegnato da una scommessa e da un rischio mai interamente calcolabili. Connesso, perché ancora immerso nei flussi – economici, sociali, culturali – della vita è infatti soprattutto il giovane, in tutte le sue forme.
Connesso è chi vive cercando la sintonia con il proprio Tempo, una sintonia che, col tempo, tende sempre di più a ridursi, trasformando spesso gli esseri umani in involucri, per il resto sclerotizzati, dei ricordi di quello che avevano osato essere e fare in passato.
Ma “connesso” è anche chi, per vivere, questa volta nel senso elementare della parola: nel senso più strettamente biologico, ha bisogno di essere continuamente assistito, come accade a quegli anziani e a quei malati in cui tutti, in quanto consumatori casalinghi di prodotti digitali, ci stiamo lentamente mutando, mentre l’altra parte dell’umanità geme schiacciata sotto il peso del lavoro, ben materiale, necessario per rendere possibile tutto questo. Ironia dell’esistenza, che assegna a una vita in piena espansione l’esigenza, soprattutto l’esigenza, della connessione e a quella oramai in decadenza la sua improrogabile necessità. E brutalità di un sistema che separa sempre più la vita dalle idee e le idee dalla vita, consegnandoci a uno strapotere di quelle immagini che in altri tempi assicuravano, proprio perché vissute soltanto come immagini e non come realtà a tutto tondo, la reciproca comunicazione di idee e vita.
C’è da riflettere, allora, su questa declinazione “giovanilistica” della biopolitica neoliberista e sull’espediente a dir poco devastante di cui si serve; c’è da realizzare che non esiste catastrofe antropologica peggiore di quella che consiste nel desertificare, mettendola integralmente al lavoro, la capacità di ‘perdere tempo’ delle generazioni più recenti, derubandole così della loro giovinezza. Solo chi ha davvero tempo da perdere – per informarsi e pensare, sperimentare forme di vita inedite, allacciare nuove relazioni e tentare nuovi approcci ai problemi di sempre – può provare a fare la rivoluzione o comunque a cambiare le cose in meglio. Chi non ha tempo da perdere e deve uniformarsi per forza alle procedure del proprio Tempo finisce invece, quasi sempre, per fare il gioco delle forze regressive della Storia.
Forse è dalla problematizzazione, pratica e teorica, di questo annodamento mortifero che bisogna ripartire per ricollocare l’azione politica trasformativa.
Forse è da qui che sono ripartite, alla fine della primavera di quest’anno, le manifestazioni di Black Lives Matter e tutte quelle realtà italiane che, nei difficili mesi che ci separano dall’inizio della pandemia, si sono rimboccate le maniche, cercando innanzitutto – con la distribuzione di pacchi alimentari e di beni di prima necessità – di ricreare dal basso un legame con chi di tutto questo ne paga di più le conseguenze e che, spessissimo, ha il volto dei giovani migranti, come delle giovani famiglie italiane che, sempre più precarizzate, non hanno più il modo di arrivare a fine mese. Forse, infine, è per questo motivo che l’esperienza del Rojava e della Confederazione Democratica della Siria del Nord ci sembra oggi tanto esemplare (e la sorveglianza speciale comminata dallo Stato italiano alla giovane Maria Edgarda Marcucci, combattente internazionale nelle Ypj confederali siriane nel 2018-2019, assume un significato così profondamente simbolico, oltre che tristemente concreto).
Si capisce inoltre come Grasso, che a quell’esperienza ha dedicato tante energie, intellettuali ed esistenziali, abbia deciso di affidarle ancora una volta l’apertura del suo libro (il «Preambolo»), in un momento quanto mai drammatico della sua storia, a causa dell’invasione turca della Siria, iniziata dall’ottobre 2019. Se c’è infatti un aspetto che sistematicamente colpisce l’osservatore occidentale nella Rivoluzione Confederale siriana, questo risiede con ogni probabilità nella giovinezza dei suoi militanti e delle sue militanti e, si direbbe quasi, dei loro gesti. Quei gesti che ci appaiono così fiduciosi di poter cambiare lo status quo come soltanto lo sono i gesti di coloro che ancora credono che le ragioni di una vita giusta possano essere in taluni casi persino più importanti della propria stessa vita (ma mai solamente di quella altrui). Come soprattutto i giovani, appunto, possono avere il coraggio di pensare e, di tanto in tanto, anche di praticare.
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