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Sogni e pratiche di giustizia trasformativa: intervista a Giusi Palomba

Nel marzo 2023 per Minimum Fax è uscito “La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere” di Giusi Palomba. Si tratta del primo testo italiano sul tema della giustizia trasformativa

Giusi Palomba è scrittrice, traduttrice e attivista e da anni si occupa di organizzazione comunitaria. Il suo libro è il primo che in Italia affronta il tema della giustizia trasformativa, un approccio collettivo per la gestione, riparazione e trasformazione dei danni prodotti da episodi e dinamiche di violenza di genere che si verificano anche all’interno degli spazi, dei collettivi e dei movimenti. Questo libro arriva dopo anni in cui la lotta a tutte le forme di violenza di genere, maschile e patriarcale è stata portata avanti con gli scioperi e le manifestazioni femministe/transfemministe e attraverso le pratiche che quotidianamente vengono messe in campo sui territori. Negli ultimi tempi all’interno di diversi collettivi si è poi aperta una voragine, che ha preso forma dalla consapevolezza che gli stessi movimenti non siano affatto immuni alla violenza di genere, domandando sempre più la costruzione di spazi per affrontare il tema.

Intorno all’urgente necessità di dotarsi di strumenti per far fronte alle dinamiche e agli episodi di violenza all’interno degli spazi politici, si sono diffuse diverse pratiche volte ad attivare processi di responsabilizzazione collettiva, senza che a ciò corrispondesse una deresponsabilizzazione del singolo.

La trama alternativa di Giusi Palomba

Queste riflessioni e queste pratiche vanno nella direzione opposta al “Not all men” e, in alcuni casi, sono state anche accompagnate dall’avvio di percorsi ispirati agli approcci antipunitivi e anticarcercari. Tuttavia, queste pratiche e riflessioni non sono sistematizzate e faticano a trovare spazi di confronto fuori dai singoli collettivi e gruppi. Eppure, quando degli spazi di dialogo e discussione vengono aperti, ritornano domande, dubbi e difficoltà che sono, in parte, gli stessi interrogativi che animano il libro di Giusi Palomba. L’idea di questa intervista nasce proprio dalla consapevolezza che l’attivazione di percorsi di giustizia trasformativa comporti un elevato grado di complessità, di scomodità e di dubbi ed è per questo che riteniamo necessario far fiorire momenti di discussione e confronto su questo tema. Il libro di Palomba, infatti, si inserisce nel solco di questa complessità e rappresenta un contributo essenziale per iniziare ad aprire tempi e spazi di immaginazione alternativi al punitivismo e al sistema giudiziario dello Stato.

Nella prima parte del libro, l’autrice racconta di un’esperienza concreta di giustizia trasformativa che è stata portata avanti nell’ambiente dei movimenti a Barcellona e alla quale ha preso parte. Il suo obiettivo tuttavia non è presentarci un’esperienza dalla quale estrapolare delle ricette esemplari, da esportare e riprodurre ovunque; al contrario, parte da un racconto personale per poi avviare una riflessione più ampia sul tema delle violenze di genere, delle lotte e delle potenzialità dell’approccio della giustizia trasformativa. Nella seconda parte, infatti, ricostruisce il dibattito entro il quale ha origine la giustizia trasformativa, passando per i contributi di bell hooks (insieme a diverse altre), il movimento #MeToo, il femminismo anticarcerario, le diverse organizzazioni che da anni si occupano di violenza interpersonale senza coinvolgere le strutture dello Stato e alcune serie televisive che, come scrive Palomba, hanno il valore aggiunto «di potersi soffermare con precisione sui pregiudizi di una comunità impreparata a gestire le conseguenze di un trauma».

Ciao Giusi, innanzitutto ti ringraziamo infinitamente per aver accettato la proposta di questa intervista. Siamo rimaste entrambe rimaste molto colpite dal tuo libro, perché affronta molti nodi che sentiamo irrisolti e per questo ci ha fatte sentire anche molto coinvolte. Per iniziare, brevemente ti chiederemmo di dirci dove, come e quando nasce il libro La trama alternativa, da quali pensieri e da quali esigenze.

Grazie innanzitutto per l’interesse. Questo libro è stato pensato in una stanza nell’East End di Glasgow, tra materiali e note disordinate, residui degli ultimi anni di laboratori, di ragionamenti sul punitivismo, sul senso della giustizia e sul non-senso delle istituzioni totali. Ma la ventata di concretezza è arrivata poi grazie alla editor Alice Spano, che mi ha proposto di fare un libro a partire da un articolo uscito diversi anni fa sulla rivista “Menelique”. L’esigenza è stata quella di aprire un varco anche nel panorama italiano sulla questione delle alternative al carcere e alla polizia, e raccontare storie, pratiche e riportare le domande che mi sono posta io negli anni, sperando potessero poi dare spazio a quelle successive di chi si avvicina a La trama alternativa.

Considerato che è un tema che sta iniziando a circolare in questa fase e di cui finora si sa poco, potresti darci una definizione di “giustizia trasformativa”?

Per quanto possa sembrare un’espressione complessa, giustizia trasformativa è tutto ciò che una comunità decide di fare per ridurre la violenza o la possibilità della violenza senza però ricorrere alla polizia o al carcere, o a rimedi che prevedono espulsione, allontanamento, cancellazione delle persone. È un modo di mantenere insieme due tensioni: la protezione di chi ha subito la violenza e il supporto a chi l’ha agita, in modo da poter cambiare rotta, interrompere un ciclo, affinché quella violenza non si ripeta e non ne venga generata altra.  

Sappiamo ci sono diversi approcci di giustizia trasformativa: come si caratterizza quello che adotti tu? E come tracci la differenza tra giustizia trasformativa e giustizia riparativa? Dove hai incontrato per la prima volta l’approccio della giustizia trasformativa?

Più che vari approcci, ogni contesto esprime le sue specificità. In alcuni contesti che ho attraversato esiste un discorso sulla mascolinità egemonica e sulle nuove mascolinità molto avanzato, e i femminismi antipunitivi, decoloniali e comunitari riescono a raggiungere uno spazio nel discorso pubblico. Queste idee contaminano la cultura e rendono più prolifico l’humus necessario per ragionare su pratiche alternative. Il tessuto cooperativo catalano e la sua anima ribelle hanno sicuramente un ruolo in tutto questo: la critica allo stato è forte già di per sé, ma questo non vuol dire che tutte le persone pratichino giustizia trasformativa. Possiamo parlare di una cultura che può accogliere un po’ più facilmente certe possibilità.

In Scozia sono più presenti materiali anglofoni e si fa riferimento ai percorsi dell’abolizionismo statunitense e dunque a come si costruisce il senso della sicurezza nelle nostre società, evidenziando che si tratta più della difesa di pochi privilegiati che della protezione di una collettività. Si tratta di comprendere la storia dell’istituzione stessa della polizia e degli interessi privati che stanno dietro alle incarcerazioni di massa.

Ovviamente ci sono tanti altri contesti dove queste pratiche esistono, non potrei elencarli tutti. Posso dire però che il primo approccio alla giustizia trasformativa si ritrova in embrione nei miei contesti da molto giovane, nell’evidenza che più sicurezza o più sorveglianza non rappresentavano un miglioramento delle condizioni di vita nella provincia del sud Italia, quella un po’ abbandonata a se stessa, dove le istituzioni locali sono spesso corrotte, inaffidabili, e lo stato centrale si fa sentire più per punire e demonizzare che per altro.

Foto di Daniele Napolitano

Vorremmo farti alcune domande su alcuni punti del libro che ci hanno fatto interrogare in maniera particolare e sulle quali vorremmo riflettere insieme a te e aprire spazi di confronto collettivo. Il primo punto riguarda il contesto: leggendo quanto scrivi della tua storia personale abbiamo percepito una profonda differenza rispetto alle nostre esperienze in alcuni degli ambienti che abbiamo attraversato. Se da un lato, come anche espliciti nel libro, non ci sono ricette e pratiche perfettamente riproducibili nei diversi contesti, dall’altro pensiamo sia interessante provare a capire come collettivi e comunità possano arrivare a elaborare pratiche per affrontare i casi di violenza. Quali sono gli elementi che è necessario mettere in campo? Inoltre, senza rendere dei casi concreti e situati degli esempi idealizzati e senza appello, ci sono delle esperienze che possono essere uno spunto per altre realtà collettive?

Al momento ho una preoccupazione concreta, vorrei non si finisse per credere che il cambiamento avvenga da un giorno all’altro, a volte si tratta più di innescare riflessioni e vederne poi i frutti tra anni. Forse basta iniziare a guardarci intorno, armarci di pazienza e smettere di trascurare certi temi e certe istanze, perché una parte della difficoltà in Italia deriva anche da questo. La spinta repressiva del nuovo governo non nasce dal nulla, ma da decenni di politiche autoritarie e repressive che hanno avuto un impatto enorme ai margini della nostra società. Quei margini purtroppo, nella maggior parte dei casi, sono poco presenti, poco raccontati, poco protagonisti della vita pubblica per testimoniare le innumerevoli pratiche che hanno dovuto attivare per non soccombere alla violenza dello stato. Dunque, più che un elenco di elementi, secondo me è necessario riconoscere tutto questo e contemporaneamente aprire spazi di confronto su cosa stiamo assorbendo da anni senza nemmeno rendercene conto, cosa abbiamo escluso dalla nostra vista e dalle nostre considerazioni, e infine rompere quel ciclo di negazione che pensa al “nemico” sempre e soltanto come un corpo fuori da noi.

Nel tuo libro parli del concetto di “accountability” in relazione alla giustizia trasformativa. Ti va di darcene una definizione un po’ a braccio e, soprattutto, di approfondire come si può costruire questa accountability all’interno di un collettivo?

Essere accountable vuol dire assumersi la responsabilità delle proprie azioni, anche a costo del prestigio o del ritorno personale. Davanti alle crisi si scompare, o ci si nasconde dietro media digitali, o ci si preoccupa di “uscirne bene” più che di capire il danno inferto. L’accountability si oppone a tutto questo, ma anche al dualismo colpa e perdono, che cristallizza le persone in ricatti morali a volte insostenibili. Non succede così di rado che le relazioni interpersonali si imbriglino in queste logiche perché i retaggi religiosi sono molto forti nella nostra cultura, anche quella più laica. Eppure, il senso di colpa crea immobilità, la responsabilità è invece generativa. Per scardinare questi processi e abituarsi a pensarla in questi termini servono anni e tanto supporto, perché la società premia e rinforza quel dualismo e i discorsi punitivi.

In relazione a questo ma non solo, ti volevamo anche chiedere in che rapporto stanno giustizia trasformativa e saperi e competenze “tecniche” / “esperte”.

I saperi che nascono ai margini creano l’esperienza da cui attingere, quello che la giustizia trasformativa aggiunge, quando studiata e approfondita, è il tema della sostenibilità, la redistribuzione di quel lavoro che è sempre ricaduto sulle stesse categorie di persone. Il rischio di appropriazione e di professionalizzazione escludente è molto alto, per questo credo sia importante lavorare in condivisione, rimettere in circolo ciò che si impara, ricostruire il concetto di leadership sociale, invece che quella forgiata dal capitalismo, e fare attenzione al rapporto col potere, che va sottoposto a continua revisione.

Foto di Daniele Napolitano

Dalle prospettive che abbiamo maturato negli anni, dentro e fuori i movimenti, ci sembra la responsabilizzazione è molto genderizzata: semplificando, ci pare che le compagne tendano a un’iper-responsabilizzazione, al senso di colpa, all’autocolpevolizzazione, terreno fertilissimo per i processi di victim blaming (a questo proposito ci viene in mente il lavoro collettivo “(h)amor3: Celos y culpas”, che parla anche di questo aspetto nell’ambito delle relazioni intime), e dall’altra i compagni invece sembrano meno socializzati alla responsabilizzazione e anche al senso di colpa. Ci sembra insomma che ci sia un’assimetria di partenza. Tu la ritrovi? E se sì, come si può affrontare?

Una delle mille pratiche possibili è, banalmente, parlare delle dinamiche di potere che si instaurano nei gruppi. La logica morale spesso impedisce di arrivare alla radice del problema, perché non è che l’iper-responsabilizzazione sia buona e la deresponsabilizzazione cattiva: entrambe bruciano energie, entrambe possono danneggiare relazioni, il punto è che sono il risultato di squilibri di potere. 

La deresponsabilizzazione maschile non è innata, è costruita socialmente. Agli uomini cis etero, sin dalla più tenera età, si invia il messaggio che ci sarà sempre chi si occuperà di loro, del loro successo, della cura personale, delle cose noiose, mentre loro dovranno solo pensare a se stessi. A questa costruzione sociale partecipano anche tantissime madri, padri, sorelle, partner iper-responsabilizzat*. E anche nella vita di spazi non domestici – realtà organizzative, culturali, luoghi di lavoro in genere, ecc. le competenze di ordinaria amministrazione, i “dietro le quinte”, sono percepiti sempre come ruoli adatti alle donne o comunque a una mascolinità non egemonica, mentre gli uomini assumono più facilmente ruoli di controllo e di spicco.

È qualcosa che sta cambiando, piano piano, ma intanto abbiamo intere generazioni di uomini che non sanno cucinare, lavarsi i vestiti, organizzare la vita domestica, gestire le relazioni, esprimere o maneggiare le emozioni, per non parlare della cura delle creature o delle persone anziane. Un numero considerevole di questi uomini, in conseguenza della deresponsabilizzazione storica, non è in grado di leggere l’umanità di chi gli sta intorno e, nei casi estremi, è più propenso ad agire violenza o ad abusare del potere che ha accumulato nel tempo. Questo humus culturale non scomparirà improvvisamente, e nonostante l’instancabile sforzo di decostruzione a opera dei movimenti femministi, la consapevolezza collettiva di come si contribuisce a questa acquisizione di potere sembra ancora lontana. Il risultato è che oggi abbiamo uomini singoli che fanno eccezione trattati come eroi, ma non si sono fatti molti passi avanti in termini di giustizia sociale.

Ci sono piaciute molto le due pagine sugli uomini femministi in cui riprendi le parole di Andrés Montero. Ti andrebbe di riprendere il passaggio in cui parli del perché l’autodefinizione di uomini femministi andrebbe messa da parte a favore di una riflessione critica su come gli uomini possono stare nel femminismo e non essere femministi? 

Per arrivare a quelle pagine in realtà sono dovuta partire da me, non esattamente dagli uomini. È la tensione che sento quando si tratta di allearsi con chi porta con sé dissidenze diverse dalle mie, o anche quando è necessario non occupare troppo spazio, anche se la nostra critica e lotta può avere la stessa direzione. L’ansia degli uomini di definirsi femministi mi riporta a quella tensione e mi ricorda che prima viene il lavoro di riconoscimento e che l’etichetta può essere solo il frutto di un’alleanza performativa a volte.

Ancora una volta, una domanda che punta all’apertura di riflessioni e non alla richiesta di risposte definitive. Vi sono dei rischi che la giustizia trasformativa presti il fianco a una sorta di alibi collettivo rispetto alle violenze? Secondo te come possiamo costruire un discorso collettivo capace di affrontare la complessità dell’approccio della giustizia trasformativa?

In fondo, la giustizia trasformativa non è l’unica pratica che può essere utilizzata come alibi. Molte elaborazioni politiche votate alla giustizia sociale sono soggette a questi tentativi di distorsione quando conquistano una diffusione più ampia. La presenza, l’interesse e la costanza credo siano le migliori difese contro qualsiasi tipo di manipolazione. E per scongiurare questa creazione di alibi rispetto alla violenza, credo sia importante non rinunciare mai alla scomodità, non rinunciare a stare nel conflitto. Quando i discorsi smettono di essere scomodi e vengono rinchiusi in pacchetti ed etichette, lì nasce il rischio.

Grazie infinite ancora una volta per la tua disponibilità Giusi: già con il tuo libro ci avevi lasciato un sacco di spunti preziosissimi, ma approfondire con te alcuni particolari nodi della giustizia trasformativa e in generale delle pratiche collettive e comunitarie che possono essere costruite per affrontare la violenza di genere ci ha, in effetti, aiutate a immaginare che delle “trame alternative” siano possibili.

Immagine di copertina e nell’articolo di Daniele Napolitano