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Ėjzenštejn e la forma rivoluzionaria del cinema

L’11 febbraio 1948 moriva a Mosca Sergej M. Ėjzenštejn. Una breve ma intensa vita tra cinema, rivoluzione e le contraddizioni dell’esperienza sovietica

“Aucun cinéaste sans doute n’a été autant étudié”. È con questa affermazione che lo studioso di cinema Jacques Aumont sintetizza in Montage Einstein la grandezza di uno dei registi con cui ancora oggi il mondo del cinema continua a confrontarsi: Sergej M. Ėjzenštejn (in russo: Сергей Михайлович Эйзенштейн).

Disegnatore, uomo di teatro, produttore e scrittore, Ėjzenštejn nasce il 23 gennaio 1898 a Riga, nell’attuale Lettonia: un talento visionario nel quale si mescolano le più diverse correnti artistiche e letterarie come il futurismo, il surrealismo, il costruttivismo, il cubismo e dove si vedono le influenze teatrali di Mejerchol’d, del Proletkul’t, della LEF e di molto altro ancora.

A differenza di David W. Griffith – dove secondo Ėjzenštejn si rifletteva una visione del mondo dualistica che correva su “due linee parallele di poveri e ricchi” verso un’impossibile “riconciliazione” – il regista di Riga ha un’idea di montaggio, inteso secondo la dialettica marxista, come scontro/assemblaggio di elementi antitetici dalla cui sintesi sarebbe scaturito un concetto nuovo che superava gli elementi di partenza (“montaggio delle attrazioni”). Uno degli esempi più celebri è la sequenza finale di Sciopero! (Stačka) del 1925 dove alle immagini degli operai scioperanti che cadono sotto gli spari della milizia, Ėjzenštejn alterna scene che mostrano dei macellai uccidere un bue.

Il film è ambientato nella Russia protoindustriale del 1912 dove un operaio viene ingiustamente accusato di furto dai suoi padroni. Disperato per l’ingiustizia subita, si impicca sul posto di lavoro. I lavoratori della fabbrica allora decidono di organizzare clandestinamente uno sciopero di solidarietà e protesta che non è solo un atto di accusa contro la durezza padronale ma anche un esempio di fraternità tra lavoratori. In una sequenza particolarmente evocativa viene mostrato l’inizio dello sciopero: vediamo gli ingranaggi delle macchine funzionare regolarmente, poi tre operai incrociare le braccia e fermarsi, e gli ingranaggi smettere di produrre con loro.

Questo tipo di montaggio verrà definito “montaggio espressivo”, un montaggio cioè che non ha più solo il compito di stabilire i nessi narrativi tra le inquadrature, ma di esprimere significati che si trovano al di là della semplice rappresentazione fenomenologica della realtà. Un film che nasceva come un esperimento e senza ricorrere a un impianto narrativo classico, si proponeva di ricavare la sua configurazione drammatica complessiva dalle strutture costitutive di un fenomeno tipico della modernità: lo sciopero come forma della lotta di classe.

La composizione e struttura del film nel suo complesso danno l’effetto e la sensazione di un’unità ininterrotta tra “il collettivo e l’ambiente che crea il collettivo”. Ėjzenštejn mira a sottolineare l’azione collettiva di corpi e volti di uomini e donne sullo schermo che si contrappone all’ individualismo borghese.

Nel successivo film, La corazzata Potëmkin (1925) possono essere rintracciati altri numerosi esempi di “montaggio espressivo”. Nel film viene celebrato il ventesimo anniversario dei primi prodromi rivoluzionari di Kronštadt e del celebre massacro di Odessa che portarono poi alla Rivoluzione Russa del 1905 a seguito della sconfitta dell’impero zarista di Nicola II nella guerra russo-giapponese.

Il gesto del marinaio che rompe il piatto in terra rifiutandosi di mangiare carne avariata, viene ripreso da dieci angolazioni diverse. Ogni inquadratura viene a ripetere ciò che era stato mostrato nella precedente creando una sovrapposizione temporale del tutto contraria a all’illusione del flusso continuo del tempo che era il fine del montaggio contiguo. Ėjzenštejn si serve di questa tecnica, detta overlapping editing, per mettere in risalto il gesto che porta allo scoppio della celebre rivolta sulla nave russa.

Il processo opposto è il jump editing che si ottiene, invece, eliminando parti di un evento. Come al termine della celebre sequenza del massacro sulla scalinata di Odessa: tre inquadrature ci mostrano frammentariamente un soldato nell’atto di picchiare qualcuno e subito dopo il volto sfigurato di una donna, noi spettatori siamo portati a ricostruire virtualmente l’accaduto.

Ma da ex studente di ingegneria civile, il regista sapeva che aveva bisogno di una detonazione iniziale per far scoppiare il tutto e quindi mise un grande cartello con la scritta “improvvisamente”, e subito dopo tre grandi inquadrature della testa di una donna che sbatte, un ombrello vezzoso di una donna che copre tutta la scena, una caduta ripresa con la macchina a mano, un carrello che segue la gradinata.

Al contrario, la discesa dei soldati sulla scalinata che sparano sulla folla è girata muovendo la macchina da presa rasoterra per seguire gli stivali, e far quasi percepire agli spettatori i passi dei cosacchi alle loro spalle: vengono rappresentati senza volto, ma come delle macchine repressive del potere zarista. Nella realtà storica, la violenta repressione delle forze dell’ordine sugli inermi che aspettavano il ritorno in mare dei loro cari, avvenne di notte per strade secondarie, e non sull’imponente scalinata.

Nel 1928 il governo sovietico commissiona a Ėjzenštejn Ottobre, ispirato agli scritti di John Reed: I 10 giorni che sconvolsero il mondo (1919), per commemorare il decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Si tratta di una “superproduzione”, un lavoro grandioso e impegnativo in risposta ai primi “kolossal” dell’epoca come Napoleone (1927) di Abel Gance e Nascita di una nazione (1915) di David W. Griffith. Protagonista assoluto sono gli operai, i cittadini, i soldati che furono chiamati a interpretare se stessi nelle giornate vissute in prima persona nel decennio passato.

L’opera si apre con la demolizione del monumento allo zar Alessandro III e “rievoca, con le forme sintetiche dell’arte, gli eventi verificatisi in Russia dal febbraio all’ottobre del 1917” dalla proclamazione della repubblica, conseguente alla deposizione dei Romanov, alla presa del potere da parte del partito bolscevico e si chiude nella gioia collettiva rivoluzionaria.

Ėjzenštejn stesso aveva fatto parte in prima persona dell’Armata Rossa, e andò in giro per la Russia come ingegnere per partecipare alla costruzione di ponti e fortificazioni difensive. “La rivoluzione mi ha dato la cosa più preziosa della mia vita – essa mi ha reso un artista, se non fosse stato per la Rivoluzione non avrei mai rotto con la tradizione, tramandata di padre in figlio, di diventare un ingegnere. La rivoluzione mi ha presentato all’arte e l’arte, a sua volta, mi ha portato alla Rivoluzione.”

In una scena del film c’è l’ordine governativo di far alzare un ponte per fermare l’assedio degli operai, ma a dare il senso del movimento nell’immagine sono i dettagli dei capelli e della mano di una donna morta che scivolano dal ponte. Il film fu rimaneggiato, vennero tolte le figure di Trockij e Zinov’ev, per il mutato corso degli avvenimenti politici e l’avvento di Stalin.

Il primo film sonoro è invece Aleksandr Nevskij (in russo: Александр Невский) del 1938, che rappresenta il suo ritorno alla regia cinematografica dopo la lunga parentesi messicana e americana. Sui tratta di una ricostruzione storica medievale e di propaganda antinazista in chiave epica. In quegli anni era in corso un’operazione restauratrice sia in sede politica sia nel campo delle arti, con la liquidazione delle avanguardie e l’introduzione dei canoni del realismo socialista, dunque anche nel cinema si poneva l’accento sulla tradizione russa e sui valori nazionali.

Il film culmina nella mezz’ora della storica “battaglia del lago Peipus” (Ледовое побоище), sospinta dal racconto musicale di Sergei Prokof’ev. In quest’opera la musica diventa parte integrante della ricerca espressiva e il montaggio svela una coesione interna tra ritmo delle inquadrature e battuta musicale, come raramente si vedrà nella storia del cinema.

In Ivan il Terribile (1944) invece – un film storico ambientato della Russia cinquecentesca – sembrano giungere a maturazione alcuni degli elementi fondamentali del suo cinema, come la struttura dialettica della narrazione e la dimensione della costruzione dell’“inquadratura quale cellula (o molecola)”. Sarà all’interno di quest’ultima – e non più tramite il montaggio, come nell’ Ėjzenštejn dello sperimentalismo degli anni Venti – che prevarrà l’elemento della contraddizione.

L’iniziale spinta alla rivoluzione del linguaggio cinematografico, sembra qui tendere, alla sintesi di differenti suggestioni figurative e scenografiche, dalla pittura rinascimentale, all’arte bizantina, al teatro giapponese Kabuki, al balletto tradizionale russo.