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Senza braccia e polmoni: Jack Halberstam avec Mickey Mouse

L’arte queer del fallimento di Jack Halberstam, in Italia dallo scorso marzo per minimumfax, è un saggio che, a partire dal titolo e dall’epigrafe – For all of history’s losers – nel fallimento vive e del fallimento canta, ma che del fallimento rinuncia a fare eulogie e a farne bandiera.

«To England will I steal, and there I’ll steal» – in Inghilterra me ne sgattaiolerò, e lì vivrò di furto –, così l’exit di Pistol nell’Enrico V. Sono ormai vecchio, le mie membra sono stanche – mi vogliono ruffiano, agile tagliaborse? E sia: filerò in Inghilterra, e lì da altre tasche, sporte e tracolle sfilerò quella fortuna promessami, che m’ha voltato le spalle. The foul-mouth’dst rogue in England, la canaglia shakespeariana dalla bocca più sboccata, impugna i torti subiti e buffonescamente minaccia la fuga, la torsione o la “perversione” – come Goffredo Polizzi e il Centro di Ricerca e Archivio Autonomo Transfemminista Queer Alessandro Zijno (CRAAAZI) scelgono, in più luoghi, di rendere queerness –, che innerva L’arte queer del fallimento di Jack Halberstam (in Italia, dallo scorso marzo, per i tipi di minimumfax). Saggio che, a partire dal titolo e dall’epigrafe – For all of history’s losers – nel fallimento vive e del fallimento canta, ma che del fallimento rinuncia (in partenza: ma si sappia che la strada non è retta, né mostra intenzione di mantenere la promessa) a fare eulogie e a farne bandiera. Traducendo il fallire, piuttosto, in rocambolesca pedagogia, maturata da una premessa d’immaturità: quella di non avere, in realtà, proprio niente da insegnare – e, tuttavia, qualcosa forse da imparare, o ancora da condividere, come accompagnandosi allə bambinə.

Perché non rubare, allora, agilmente sfilando? Halberstam sembra rilanciare la splendida lezione di Moten e Harney: l’unica relazione possibile oggi con l’Università è una relazione criminale. Sottraete ai luoghi dell’istituzione i suoi “beni comuni”, saperi che, a loro volta, sono stati sottratti, e così impoveriti, o così, meglio, organizzati da un fondo poco chiaro di pratiche locali, militanti ideologie, politici impegni e occulte fedi e strategie, resi leggibili e legittimi, messi a coltura. Sì, davanti all’enorme corpus dei saperi e delle discipline, diffuso progetto educativo al cui fine sta l’individuo col suo corpo raddrizzato, composto, produttivo e vincente (infallibile ed economica arte e formula del successo) potrebbe non potersi annunciare nessun’altra risposta che la rapina. E lì vivrò di furto – di più o di meno: lì vivrò nel furto, siccome già vi siete presi, senza nemmeno fare troppi complimenti, la mia vita. Possibilità che già si presentava (appena appena, quasi per finta, e quasi per gioco) a Walter Benjamin nelle sembianze dell’animazione per l’infanzia: nei film di Mickey Mouse «si palesa per la prima volta il fatto che ci può essere rubato un braccio, o perfino il nostro stesso corpo».

Prima ancora dei fenomeni di potere, come riconosceva Foucault in Le sujet et le pouvoir, abbiamo tentato di parlarvi dei modi di soggettivazione – le modalità attraverso cui le scienze e le sue architetture istituiscono un soggetto (e stilano sue normalità e devianze, l’educano e lo disciplinano), le modalità del discorso attraverso cui ciascunə in questo soggetto cresce e si riconosce, per dire infine: “Io sono”. Ecco, suggerisce Halberstam, non è che a questo impegno di essere ed esserci (esserci io, in questa maniera, a queste condizioni) si debba per forza tener fede. Ci può essere rubato un braccio, ci può venir rubato il nostro stesso corpo… e, tuttavia – questa la lezione del topolino – possiamo sopravvivere. Azzardiamo: vivere meglio? Possiamo metterci di traverso senza portare a termine il processo di soggettivazione; esporci a una passività radicale, come a dire: “Fate di me quel che volete, io vivrò di questo furto”. E di traversocrescere, senza trattenere niente (come la pesciolina Dory in Finding Nemo) e impregnandoci invece di tutto (stolta e stolida ignoranza della spugna marina SquarePants SpongeBob) – come durante l’infanzia perché questa, di suo, ha qualcosa delle growing sideways, ed è in questi termini che Kathryn Bond Stockton ha pensato allə queer children. Partiamo da qui, allora, nel costruire – di nuovo: senza padroneggiare niente, ma prendendo tutto quel che capita – gli «archivi “stupidi”» (p. 37); che s’estendono da Galline in fuga a Fantastic Mr. Fox, per poi virare verso «il ruolo del masochismo e della passività in relazione al fallimento e alla femminilità», e ancora pervertire «una versione trionfalistica della storia gay, lesbica e trans che non può che finire per dare valore alle nozioni forti di successo e successione» (pp. 43-44).

«Voi siete tutti molto stanchi» e «alla stanchezza segue il sonno, e allora non è affatto raro che il sogno compensi la tristezza e lo scoraggiamento del giorno, e faccia avverare quell’esistenza semplice ma grandiosa, per la quale nella veglia ci manca la forza. L’esistenza di Mickey Mouse è un tale sogno dell’uomo di oggi», ancora Benjamin in Zu Micky Maus – riflessione frammentata, scomposta, mai pubblicata e cestinata nel più ampio progetto di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (altro fallimento, altra esitazione…). Ed è un tale sogno perché il corpo disneyano si espone a trasformazioni, ibridazioni, financo alla morte – che però non è mai davvero tale –, senza ritegno e con esclusiva leggerezza, e perché vediamo in opera (come se, e come forse in fondo è) un mondo in cui «natura e tecnologia» sono «una cosa sola», il modo in cui «un’esistenza in ogni situazione basta a se stessa nel modo più semplice e allo stesso tempo più comodo», il piano «in cui un’automobile non pesa più di un cappello di paglia»… Perché dai cartoni, immagini (in) movimento, proviene il provocante invito: così è, se vi pare.

«Restare saldi è divenuto privilegio dei pochi potenti», «ma gli altri si devono arrangiare», prosegue Benjamin. Messi alle corde – persi il proprio peso specifico, la propria autorevolezza e stabilità, la propria posizione (ora solo sintattica: guadagnata nella misura in cui ci si adegua alla stabilità della legge, della drittura – spesso dell’eterosessualità) entro una vita di stenti, condizione precaria come la paglia del cappello e la tela dell’automobile – non rimane che scoprire le corde del mondo, portarne allo scoperto (Vieni fuori! Ti prego, vieni) le sue leggi prime. Lo spettacolo – e forse, per primo, quello per la prima età – è, con le parole di Debord, «esposizione generale della razionalità del sistema». È la comunicazione che è diventata merce, d’accordo, eppure sempre passibile di fallire la promessa del profitto, e qui sta la sua arte –, che illustra tutto ciò che si può fare, disfare, diventare, e ancora di più. In questo senso, essa non teme d’impegnare la propria parola, perché la propria parola è nonsenso, e perché è parola che proprio fra persone si gioca – persone che, animate, a quel di più (o di meno) potrebbero e potranno effettivamente giungere e godere.

Attività senz’opera, lo spettacolo non è nulla se non la mostrazione a me e a te, e di te a me, o viceversa, o da capo (o da coda): presuppone, insomma, che si sia (almeno) in due a dirsi e a raccontarsi le parole e le cose, e così farle ac/cadere nello spazio della rappresentazione e della narrazione. In questo risiede la sua ingenua insincerità – tanto puerile da consegnarsi immediatamente, senza colpo ferire, nelle mani di chi l’osservi. Lo spettacolo è merce – è la realtà fantasmatica della stessa, non più ricondotta e riagganciata alle condizioni materiali della produzione, ma pienamente esposta, immaginata e immaginaria, e spettrale –, eppure degli effettivi, pratici, critici rapporti tra umani necessita per apparire; e anzi s’allarga fin oltre, prendendo nel proprio abbaglio animali, piante, automobili, cappelli, con cui parla e che lascia parlare (il suo artifizio non è ventriloquismo, assomiglia piuttosto alla pazienza e alla fiducia). Eccole, le corde del mondo: tuttə questi attanti, nei loro modi e nei loro tempi, non parlano già? Una domanda simile se l’era posta Gramsci nei suoi quaderni, riflettendo sul prezioso, irruento istante in cui il cosiddetto subalterno prende vita da cosa che sembrava: «Ma era mai stato mera resistenza e mera cosa? Certamente no…». Certamente no. In verità, in verità vi dico che dico e parlo: e magari non parlo a voi, o più spesso dico cosa non gradita. O magari, dicendo, fallisco la parola e quindi taccio, o la fiducia e quindi tradisco… Anima quindi la rivolta. Tieni a mente, però, che l’immagine invocata inizierà e ti spiegherà, se ne avrà voglia, che già da sempre ne era in grado e che tutto questo da un tempo infinito già faceva, che è lei ad aver immaginato te, ad aver consentito (Non ricordi? V’eravate incontratə da bambinə) questa tua stortura e deviazione. Ti inizierà a pensare, e trascorrerà oltre, e ti chiederà di smarrirvi assieme.

Accade esattamente questo – tanto che ci si potrebbe chiedere: accade mai altrimenti? – in quelle zone in cui Halberstam colloca i femminismi ombra, che corrono lungo le riflessioni di Spivak, Hartman, Mahmood e Kincaid. Riflessioni sulla subalternità dallə subalternə rimaste in qualche modo interdette e che, pertanto, richiedono al femminismo occidentale, e alla sua grammatica del prender parola, della resistenza e di quel che, tutto sommato, finisce per assomigliare anche inavvertitamente al potere e al retto ed energico slancio, la lingua «dello svuotamento, del rifiuto, della passività, dell’indecenza, del non-essere» (pp. 210-211). Il sati, per esempio, è la pratica d’autoimmolazione delle vedove indiane, praticata fin dentro il XIX secolo e nel saggio di Mahmood, The Politics of Piety, si revoca la trasversalità del desiderio d’autonomia e libertà di cui tantə intellettualə si fanno portavoce – è possibile, si e ci domanda Halberstam, desiderare, disegnare, animare, la possibilità di vedersi rubato il braccio, di vivere vedendo rubato il proprio corpo, per intero? Senza unirsi al coro dei diritti universali, così chiari e distinti, così liberali e coloniali, piuttosto pretendere per sé lo spazio per una meno scenografica ma altrettanto spettacolare rinuncia alla propria soggettività. Una richiesta forse complessa quella di lasciarsi divorare dal dubbio d’essere probabilmente ancora inf(r)anti, ma «dobbiamo ricordarci», come afferma Spivak, che parlare a nome di qualcuno significa anche “reinstaurare il soggetto sovrano all’interno di quella teoria che sembra metterlo più in discussione”» (p. 212). Ed è qui, al di là della nostra piena comprensione, che si palesa la possibilità perturbante di vivere senza concezioni proprietarie del sé… di vivere del furto e nel furto. Stealing away, forse non per caso, è l’espressione che ricomprendeva le molteplici pratiche di nomadismo e fuga dellə ex-schiavə raccontate da Hartman: l’impossibilità vissuta, così a lungo, di immaginare la libertà senza individualità, l’autonomia senza proprietà, creava un tale cortocircuito per cui, precluso l’accesso a una grammatica altra, la soluzione dellə fuggitivə si faceva continua peregrinazione, senza accumulazione, senza operosità, senza ri/produzione.

Le figure evocate da Halberstam non condividono nulla se non l’essere incomuni (mai incolumi), fuori posto, inappropriatə, di traverso, out of joint come il tempo d’Amleto, che malediceva quel destino che l’avrebbe voluto eroe dritto e corretto, quel fato che gli aveva assegnato il compito di rimettere tutto sui propri cardini, nel verso giusto e sul diritto cammino. «L’ortodossia è un lusso che non possiamo permetterci» (p. 32), e così il giusto e lo stimabile, quell’altra parte (il retto) rispetto a quel di/verso che è il torto. Viene dunque il tempo, urge Halberstam, di guardare alla stortura del queer: già «Foucault ci invitava a esaminare il nostro stesso attaccamento a certe narrazioni rassicuranti di libertà e dissidenza sessuale» (p. 241). Certamente il sesso è politico ma (e!), ricorda Halberstam attraverso Bersani, la modalità (in quale direzione, in quale verso) grazie alla quale tali dimensioni s’incroceranno, s’intrecceranno, s’accresceranno, non è prevedibile in anticipo – può sempre darsi il fallimento, il tradimento, l’inappropriatezza…

Il nostro mondo è out of joint, e rifiuta tuttavia di rispettare le altre storture, anzi le ha perseguite in passato e tutt’ora le persegue, se non riesce a leggerle e inserirle in un discorso di spendibilità. E noi, che siamo stortə e nel torto, davvero dovremmo riparare questo cosmo scaleno? Ancora Benjamin: la risata che coinvolge la massa nel movie theater, quando guarda Topolino, quando Topolino le insegna che si può vivere vedendo rubato il proprio braccio, senza il proprio corpo, la risata/prodotto, prodotta dall’opera massificata che sopravvive alla cultura, ha qualcosa di tecnologico e naturale assieme, assieme umano e animale, e tanto – ma tanto! – di barbarie. E va bene così. Smettiamo allora di esorcizzare la perversità e la negatività, che pure ci attanagliano (Halberstam sulla scorta di Lee Edelman ed Heather Love), per promuovere una versione progressista del queer. Del queer vincente, come il piccolo Davide davanti al gigante Golia, come la vittima immolata – e per questo vittoriosa – davanti all’onnipervasivo e soffocante oppressore. Qui, in questa dissestata giuntura, si sviluppa il capitolo L’assassino che è in me è l’assassino che è in te. Omosessualità e fascismo, e possiamo ricordare, con quel Derrida che raccontava di spettri, e di Marx e di Amleto, che «l’esorcismo efficace dà l’impressione di constatare la morte solo per mettere a morte», e che l’unico modo che si ha per dare è quello fallace e già fallito; della figura che ha rinunciato a fare la morale, e che rimane di traverso, e rimane, sinceramente e stupidamente, sola scena e apparenza. O ancora, animata immagine: «Forse sempre, chi dà l’esempio è ineguale all’esempio che dà, anche se fa di tutto per seguirlo per primo […], dando quel che non ha, e addirittura quello che non è». Reclama allora Halberstam, non oscuriamo il lato oscuro della Storia, quelle storie che hanno visto i soggetti marginalizzati partecipi dello stesso sistema che li marginalizzava. Davanti a quel monolite che sembra la classe dominante, davanti al discorso egemone, non si può che contrapporre, contrappuntare lo spirito di scissione da intendersi nel senso più letterale possibile, come immagine. Ecco il taglio del braccio, il taglio del corpo, «la scomparsa non-suicidiaria del soggetto […] quando rifiuta la padronanza maschile» (p. 244). Come sottolinea Gianfranco Rebucini in Cannibalismo queer, qualsivoglia rivendicazione, richiesta, parola dellə subalternə non può che essere frammentaria e contraddittoria, disgregata ed episodica, perché giocata in un mondo ostile. Animiamo, allora, per episodi, come fa Halberstam, questa frammentazione e questa contraddittorietà, questa perversione, a partire dalla computer-generated imagery (CGI), inizialmente ignorata dalle grandi case di produzione e dunque sapere sviluppato sotterraneamente, che ha permesso di animare quella moltitudine che non è reduplicazione dello stesso, che non è mai un noi: siamo io, e te, e l’automobile, e il cappello di paglia, e la tecnica, e la natura, e la naturcultura, e ancora, da capo (o da coda?)…, che non si armonizza mai in moto centripeto. Fino a Mickey Mouse e oltre, laddove si palesa la possibilità della rinuncia all’autoconservazione e alla sicurezza, la rinuncia al «desiderio di successo e realizzazione» (p. 297), per inseguire ciò che «la “perversione” ci offre»: «la promessa “del fallimento come modo di vita” […], sta solamente a noi decidere se mantenere fede a questa promessa, in un modo che ci porta a compiere una deviazione» (pp. 297-298). Promessa fatta, e già disattesa, già deviata – la filosofia politica lo insegna fin dai suoi albori: non fidarti dell’animale, che non può dar la sua parola, perché parole non possiede. Se la parola, se il verso, non genera contratto – ce lo siamo egualmente dettə l’unə con l’altrə –, questo, sicuramente, è già qualcosa, o forse è tutto, è contatto. Ci parleremo allora, da figure buffe, non rette, contorte, come Odradek. E rideremo, come ride Odradek – come può ridere chi è senza polmoni. E basterà così, perché, come con Odradek, «con questo, il colloquio finisce». Ma almeno, intanto, l’avrò detto a te.