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Riscoprire l’internazionalismo. Il grime del 2020

Il grime nasce a Londra nei primi anni duemila nell’alveo dell’hardcore-continuum. Negli ultimi anni si è fuso con altri generi ed istanze – black, queer e migranti – che ne hanno espanso le parentele e allargato gli spunti musicali e gli intenti politici a livello globale

Nato a Londra agli inizi del nuovo millennio, il grime muove i suoi passi dallo stesso humus culturale che in precedenza aveva dato i natali a drum’n’bass e UK-garage: rientra dunque in quel filone che i critici spesso definiscono hardcore-continuum. Prendendo in prestito le parole di Simon Reynolds, tra i massimi teorici del concetto: «un continuum di cultura musicale emerso dalla scena rave britannica, un filone specifico di musica dance localizzato principalmente a Londra, ma con avamposti nelle Midlands, a Bristol e in varie città del nord con una grossa fetta di popolazione di colore». Il produttore e mc Wiley (vero nome Richard Cowie Jnr), nativo di Londra ma con radici tra i Caraibi e l’Uganda, può essere indicato come l’ideatore del grime: nel 2001 ha iniziato a scrivere canzoni che parlavano della sua vita di tutti i giorni, sommando essenziali e glaciali linee di synth con frequenti interruzioni e bassi profondissimi. In Wot Do U Call It, singolo del 2004, Wiley ripercorre i primi giorni del genere e le polemiche all’interno della scena hardcore londinese. Non ne rinnega l’appartenenza, ma sottolinea, con la spacconeria tipica dell’hip-hop americano, l’assoluta novità della sua creatura. La canzone definisce esteticamente il grime, ma tale termine non appare mai nel testo. Arrivato fino a oggi, certo attraversando alti e bassi, con un’insospettabile longevità, il genere si è rivelato la trasformazione culturale più dirompente dell’industria musicale britannica dai tempi del punk. La sua forza comunicativa va oltre infatti le rime dei suoi mc. Sono i ritmi, i bassi, le atmosfere a definire una costante tendenza all’innovazione, la continua preferenza per le soluzioni meno scontate e soprattutto una strettissima «relazione con il reale, codificato di volta in volta come street-knowledge, lato oscuro o la Gran Bretagna tardo capitalista/post-socialista». Un aspetto che è emerso prepotente anche nell’inedita estate post-lockdown di questo 2020.

La pandemia è stata infatti un’occasione per tutti i governi, dal più democratico a quelli meno rispettosi dello stato di diritto e delle conquiste sociali, di attuare nuove strategie di controllo e marginalizzazione. L’emergenza sanitaria globale causata dal coronavirus ha accelerato processi di esclusione, dal capitale, dall’accesso alle cure e al welfare, che erano già in corso. Eppure, proprio nel periodo estivo, sono arrivati dal Regno Unito, da sempre avanguardia delle politiche più individualiste ed esclusiviste del neo-liberismo, una coppia di dischi capaci di riflettere con profondità e attenzione rara sulle condizioni ingiuste affrontate dai segmenti meno abbienti e proporre, almeno idealmente, delle soluzioni. O meglio, una sola, semplice soluzione: fare comunità, creare legami, siano essi vicini o lontani. Stiamo parlando delle release firmate da Gaika ed East Man. Il primo mc e il secondo invece producer, sono due degli artisti più rappresentativi e politicizzati della nuova generazione grime.

I ritmi della black-music, da sempre musica della diaspora (africana e non solo), negli ultimi anni si sono rivelati i più capaci di raccogliere le istanze politiche e sociali dei soggetti subalterni: soprattutto nell’attuale contesto storico, in cui le voci di tali soggetti, siano essi i migranti, le minoranze etniche o le comunità queer, si sono fatte sempre più assordanti e urgenti. Il grime inglese, complici radici che affondano nel substrato black-atlantic, rappresenta la punta di diamante di questa tendenza, andando nel tempo contaminandosi non a caso con influenze in arrivo dall’Africa (il gqom sudafricano) e dal Sud America (il reggaeton). Già dopo il rogo della Greenfall Tower, «artisti come Stormzy, AJ Tracey, and Novelist hanno dato voce alla frustrazione condivisa da molti nei confronti del governo conservatore dell’Inghilterra», mentre nel 2017 alcuni veterani della scena avevano ideato l’iniziativa #grime4corbyn, per incoraggiare i giovani a sostenere Jeremy Corbyn, il candidato del Partito Laburista a Primo Ministro.

Le release di luglio di East Man e Gaika si inseriscono in questo solco già tracciato e confermano la formidabile ricettività e la valenza sociale del genere, ma ampliando gli orizzonti al di fuori di Londra compiono anche un formidabile passo avanti ideologico.

Gaika, distintosi anche come opinionista politico della rivista Dazed, ha pubblicato ai primi di luglio Seguridad, sotto l’egida dell’etichetta messicana NAAFI: ogni brano del disco ospita così un membro della label e collettivo di Città del Messico, evidenziando una convergenza che va oltre le distanze fisiche. Gaika e i componenti di NAAFI danno vita a un connubio eccezionale. Digital-cumbia e atmosfere post-punk, dancehall gotica e inevitabili influenze dub convergono in Seguridad, mentre i temi da sempre centrali nella poetica di Gaika (il razzismo istituzionale nella società britannica, la brutalità della polizia, l’ossessione per gli apparati di controllo delle città e le politiche di austerità che riducono costantemente i servizi pubblici) vengono mediati da un romanticismo che è lontano dall’edonismo di tanta elettronica e black-music mainstream. Gaika, nel brano Iron Cut, scandisce chiaramente “hard from we born, it’s the London way” insieme celebrazione della e accusa alla città che ha dato i natali all’artista e al grime tutto. Le parole che Lee Barron ha dedicato al potenziale etnografico del genere grime non sono mai risuonate così chiare e allo stesso tempo valide a latitudini diverse. Gaika canta Londra certo, ma i ghetti, i sobborghi, i margini (e le necessità e le lotte di chi occupa tali spazi) sono gli stessi anche a Città del Messico e in qualsiasi altra megalopoli: «è una musica che descrive in modo potente e coerente una realtà urbana hardcore di quartieri, progetti abitativi e aree di estremo ghettocentrismo».

Meno immaginifico e romantico è invece l’approccio di East Man, all’anagrafe Anthoney Hart. Per il suo secondo disco, Prole Art Threat, sceglie come titolo un verso dello storico gruppo post-punk inglese The Wire: «un riflesso sulla creatività della classe lavoratrice e su come l’establishment ci marginalizza e (forse a livello inconscio) ci interpreta come una minaccia». Spinto da questa riflessione, il producer londinese (attivo anche con lo pseudonimo Basic Rhythm) chiama a raccolta una schiera di mc emergenti, tutti concittadini tranne il brasiliano Fernando Kep. Alcuni di essi erano presenti già nell’esordio di due anni fa, Red, White & Zero, che poteva vantare anche un’introduzione firmata dal teorico dei cultural-studies Paul Gillroy. Rispetto al 2018 la vita nella capitale inglese si è fatta ancora più difficile per i giovani delle periferie, spesso non bianchi, e per il proletariato tutto, ma, nonostante questa presa di coscienza, East Man e i suoi collaboratori rifiutano ogni disfattismo e scoramento. Con le sue produzioni grime futuristiche ed essenziali, dai BPM sempre elevati e i bassi che sembrano spuntare fuori dal nulla, East Man costruisce barricate e definisce uno spazio ancora incontaminato e malleabile, lontano da qualsiasi infiltrazione o ingerenza dall’alto. Una zona autonoma in cui i suoi collaboratori possano esprimersi liberamente. «Il grime è emerso dall’underground delle radio pirata londinesi», scriveva Simon Reynolds ed East Man, citando le parole della ricercatrice Carla Meyer, «opera lungo i margini dello spazio urbano e allo stesso tempo apre nuove traiettorie sonore che varcano le delimitazioni delle metropoli moderne, in cui sono spesso confinate in termini di etnia». Inizialmente, infatti, il grime era una faccenda tutta londinese, come sottolinea sempre Reynolds: «il grime è geograficamente concentrato. […] il suo cuore è costituito da poche miglia quadrate in quella parte di East London non servita dalla metropolitana. In verità, è una scena “provinciale”*, ossessionata dal senso del luogo». Ma quando il brasiliano Fernando Kep prende il microfono in Ouroboros le sue rime velocissime e la sua intonazione unica risultano perfettamente inserite nel contesto. Come le radio pirata dei sobborghi londinesi di cui il grime è progenie diretta, la musica di East Man «crea spazialità alternative e immaginarie». Sacche di resistenza globalmente diffuse. «Inizialmente non c’erano grandi speranze che queste canzoni, che suonavano come crudi momenti di catarsi, sarebbero mai uscite fuori dai loro quartieri di origine», notava giustamente lo scrittore e saggista americano Hua Hsu, ma questi club esistono e si sono moltiplicati lungo innumerevoli traiettorie (ripercorrendo anche la tratta atlantica in senso contrario). Da Londra fino a Messico e Brasile (nei casi analizzati), gli artisti grime hanno saputo costruire legami e generare parentele artistiche e ideologiche e ideologiche nel segno di un internazionalismo solidale e antagonista.