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Raccontare il presente dei musei coloniali

Oggi giovedì 10 giugno alle ore 18.30 nel giardino di Villa Romana a Firenze, Giulia Grechi presenta Decolonizzare il museo, in dialogo con Beatrice Falcucci. Un libro che analizza criticamente il colonialismo implicito delle tante esposizioni “etnografiche” sparse per il vecchio continente

I musei occidentali sono in gran fermento: il 29 dicembre 2020 l’artista nigeriano Emeka Ogboh ha affisso oltre duecento poster nella città di Dresda, al fine di ricordare ai tedeschi la presenza nei loro musei di oggetti acquisiti a seguito del saccheggio del palazzo reale del Benin nel 1897. Di questi, ben 550 reperti sono oggi parte delle collezioni che andranno a costituire il patrimonio del nuovo Humboldt Forum di Berlino.

L’Humboldt Forum, la cui inaugurazione è prevista per l’autunno 2021, presenterà in un nuovo spazio espositivo le collezioni etnografiche dell’Ethnologische Museum e del Museum für Asiatische Kunst in Berlin. Nonostante il museo non sia ancora aperto, in molti temono un’eccessiva estetizzazione e una scarsa contestualizzazione coloniale delle collezioni ospitate, anche in ragione del contesto architettonico del palazzo, che celebra la monarchia prussiana e la missione civilizzatrice del cristianesimo. Il palazzo è infatti sormontato da un globo crucigero, simbolo del potere imperiale e del dominio globale del cristianesimo, il globo è a sua volta accompagnato da un’iscrizione che chiede a tutti i viventi di inginocchiarsi davanti a Gesù.

Un movimento di lavoratori nel settore culturale, The Coalition of Cultural Workers against the Humboldt Forum (Ccwah), da mesi si sta muovendo per mettere in evidenza tutte le criticità del progetto.

Una vicenda, del resto, che ricorda quella delle collezioni dell’ex museo coloniale di Roma, che saranno anch’esse riallestite entro il 2021 (secondo quanto comunicato nella conferenza stampa dello scorso febbraio) nel nuovo Museo Italo-Africano “Ilaria Alpi”. Il nuovo museo sarà ospitato all’interno del Museo delle Civiltà (MuCiv), già casa del Museo preistorico etnografico “Luigi Pigorini” e del Museo nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci”, presso il quartiere Eur di Roma: una zona della capitale che con le sue testimonianze architettoniche (molti edifici vennero costruiti in preparazione per l’Esposizione del 1942) richiama con forza il passato coloniale e fascista del paese.

Sebbene queste tematiche abbiano raggiunto con forza le cronache e il grande pubblico in seguito alle proteste del movimento Black Lives Matter dell’estate 2020, la discussione intorno alle collezioni e allestimenti “coloniali” dei musei di buona parte del mondo procede ormai da decenni. Ne parla Giulia Grechi, professoressa di antropologia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e curatrice del collettivo “Routes Agency”, nel libro Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati uscito per la collana “Eterotopie” di Mimesis.

In Italia, nota Grechi, non si parla ancora abbastanza di restituzioni e, soprattutto nei musei etnografici (oggi spesso ribattezzati, non senza una certa ipocrisia, “delle culture” o “delle civiltà”), lo spazio dedicato alla contestualizzazione coloniale delle collezioni è assai scarso.

Decolonizzare il museo si presenta dunque come un “diario di viaggio” dell’autrice che, sulla traccia di classici come Museum, Anthropology and Imperial Exchange di Amiria Henare nel quale l’autrice documenta un vero e proprio “road trip” alla scoperta dei musei neozelandesi, ci porta in visita a mostre temporanee, festival e musei da Venezia a Bogotá.

L’autrice propone esempi pratici di alcuni progetti artistici, tra cui quelli da lei stessa curati, evidenziandone la capacità di coinvolgere vari attori e le potenzialità “decoloniali” delle pratiche che essi propongono. Grechi presenta così, con il suo punto di vista duplice, di antropologa dell’arte e di curatrice, diversi allestimenti e performance artistiche, provenienti dai più disparati contesti («una colonialità estesa, espansa, allo stesso tempo eclatante e millimetrica», p.19), raccontandone le buone pratiche, le problematicità e le opportunità.

Il viaggio nel quale l’autrice ci accompagna con le sue analisi parte dal “Museo della Normalità Europea”, installazione artistica realizzata nel 2008 per Manifesta 7, la biennale europea di arte contemporanea, da Maria Thereza Alves e Jimmie Durham. L’installazione intende capovolgere il concetto europeo di museo come “luogo dello straordinario”, mettendo in mostra la quotidianità del continente e allo stesso tempo vivisezionandola con piglio etnografico, in un’ironica operazione di inversione.

Ad esempio, nel video Tchám Krai Kytõm Pandã Grét (Male Display Among European Populations), una delle molte opere in esposizione, Alves gioca con l’approccio indagatore con il quale gli europei guardano “all’altro” creando una falsa indagine antropologica sul perché gli uomini europei si tocchino i genitali in pubblico.

La narrazione prosegue con vari esempi, tra cui quello del Musée d’ethnographie Neuchâtel (Men) dove tra il marzo 2002 e il marzo 2003 è stata allestita la mostra temporanea “Le musée cannibale”, curata da Jacques Hainard, Marc-Olivier Gonseth e Nicolas Yazgi. L’allestimento sottolineava criticamente il desiderio di «nutrirsi cannibalmente» degli altri, sottointeso nella creazione e sviluppo dei musei di etnografia nei secoli passati. L’installazione chiamata “Chambre froide” mostrava degli oggetti della collezione esposti in un freezer, chiusi in sacchetti di plastica per alimenti congelati: il richiamo alla funzione del museo che eterna le popolazioni ritratte in un presente etnografico senza passato o futuro, è ben chiaro.

La narrazione si sposta poi in Sud America, dove forse non ci si aspetterebbe che l’occhio dell’autrice andasse a indagare. Analizzando l’allestimento del Museo del Oro di Bogotá (proprietà del Banco de la Republica Colombiana) l’autrice evidenzia come l’impianto di museo “coloniale europeo” viva ben oltre i confini geografici e politici dell’Europa: se l’antico regno degli «autentici indigeni colombiani» viene presentato come un luogo incantato tra natura, oro e foglie di coca, in tutto l’allestimento non si fa menzione degli schiavi africani che proprio quell’oro contribuirono a portare alla luce con il loro lavoro coatto.

Infine, il volume si conclude con un’ampia sezione dedicata al lavoro svolto presso il MuCiv di Roma dal 2012 al 2019, curato da Grechi stessa attraverso il collettivo “Routes Agency”. Qui l’autrice si addentra negli aspetti più delicati del lavoro di analisi di pratiche artistiche, presentando il lavoro svolto da numerosi artisti sugli oggetti e le memorie dell’ex Museo Coloniale.

È innegabile come recentemente (si pensi ad esempio al noto report Sarr-Savoy del 2018, commissionato dal presidente Macron e ricordato più volte dall’autrice) si sia sviluppata una nuova attenzione verso gli oggetti in esposizione e le loro biografie e con essa i musei si siano trovati a dover considerare questioni spinose.

Ad esempio il problema degli acquisti e delle acquisizioni da zone che si trovano o trovavano in uno stato di guerra, oggetti ottenuti nel corso di uno scambio commerciale “non equo” oltre che, ovviamente, dei reperti frutto di furti e rimozioni senza consenso.

La richiesta di trasparenza rispetto alle modalità di acquisizione ha fatto sì che molti musei abbiano rilasciato dichiarazioni in merito, spesso esponendo sul proprio sito internet una sezione a riguardo, con le proprie politiche. Se per quanto riguarda paesi come Francia, Olanda e Germania molto è in movimento per quanto riguarda le collezioni di etnografia extra-europea, anche in Italia il dibattito ha ormai coinvolto ampi strati della società rispetto al passato. A gennaio 2021 il Museo di Antropologia ed Etnografia di Torino ha ricevuto la richiesta da parte della Repubblica Domenicana di restituzione dell’“idolo Zemi”.

Acquistato a Santo Domingo dall’ammiraglio e console genovese Giovan Battista Cambiaso a metà Ottocento, lo Zemi (che contiene al suo interno un cranio deformato, secondo l’usanza taino) giunse in Italia tra la fine dell’Ottocento e il 1903; venne poi donato nel 1928 al museo torinese dall’avvocato Cesare Buscaglia. Se in questo caso a livello giuridico la situazione appare chiara, ben diversa è la questione etica, che resta aperta.

Si manifesta dunque per i musei, sempre più chiaramente, la necessità di pensare e agire “caso per caso”, considerando con attenzione la storia degli oggetti e dei reperti presi in esame. Un aspetto con il quale, sempre di più, curatori, museologi ed antropologi si trovano a dover fare i conti, trovandosi esposti all’analisi e alla critica, da parte tanto della comunità scientifica, quanto della società civile, come mai prima d’ora.

Decolonizzare il museo si inserisce dunque nell’acceso dibattito intorno all’utilità di pratiche artistiche nel “visibilizzare” e aumentare la consapevolezza del pubblico di musei e mostre rispetto a temi come il colonialismo e le sue permanenze (materiali e non solo) nelle società occidentali contemporanee, i movimenti migratori, il ruolo nella società post-coloniale delle seconde e terze generazioni.

Il volume avrebbe giovato, tuttavia, di una riflessione più ampia sulla leggibilità di tali iniziative ispirate a “decolonizzare il museo”, ad esempio per quanto riguarda le iniziative artistiche presentate proprio nel contesto del museo romano, in parte realizzate su una tensione, forse non adeguatamente riconosciuta, tra “Storia” e “storie familiari”. Un problema nient’affatto secondario, se si pensa, ad esempio, alla famosa vicenda della mostra “Into the Heart of Africa” che si tenne nel 1989 al Royal Ontario Museum di Toronto e venne totalmente travisata dal pubblico nei suoi scopi.

Una criticità ben evidenziata anche dalle ultime vicende che hanno visto coinvolti musei coloniali come l’Africa Museum di Tervuren: in Belgio le proteste della primavera-estate 2020 hanno colpito soprattutto i monumenti dedicati a Leopoldo II, sovrano dello Stato Libero del Congo dal 1885 al 1908, periodo durante il quale circa dieci milioni di congolesi morirono a causa dello spietato colonialismo predatorio promosso dal re. In tale occasione furono danneggiati o imbrattati statue e busti disseminati in tutto il paese (a Ghent, Anversa, Halle e Ekeren, dove la statua dedicata al sovrano è stata abbattuta).

A Bruxelles alcuni manifestanti con una bandiera del Congo si sono arrampicati su un monumento equestre dedicato al Re, urlando “riparazioni”, altrove la parola è stata scritta sul piedistallo di alcune statue. Il 10 giugno un monumento che raffigura Leopoldo II, posto nel parco di Tervuren dove si trova l’Africa Museum (ex Congo Museum), è stato danneggiato e il busto del Re cosparso di vernice rossa.

Tuttavia, la statua non è un’espressione artistica modernista, come altre poste intorno al Museo, bensì un’opera di critica al colonialismo belga commissionata nel 1997, per i cento anni dall’Esposizione di Tervuren del 1897 da cui nacque successivamente il Museo.

L’opera dell’artista Tom Frantzen dal titolo The Congo, I presume? allude alla celebre frase di Stanley al momento dell’incontro con Livingstone e si qualifica, secondo Frantzen, come l’unico insieme di statue anticolonialista di tutto il Belgio.

È già stato notato come il concetto di “contact zone”, e di museo come tale, sviluppato negli anni Novanta da Mary Louise Pratt e James Clifford, riveli insite criticità se applicato a programmi “inclusivi” di curatele, eventi, esposizioni artistiche che coinvolgano le comunità diasporiche e/o indigene promossi dai musei (post)coloniali, rivelando come questi sovente nascondano un approccio asimmetrico, paternalistico e, ancora una volta, (neo)coloniale. Un ottimo esempio in questo senso è stata la mostra Ex Africa al Museo Civico Archeologico di Bologna dal 29 marzo all’8 settembre 2019 a cura del celebre storico dell’arte africana Ezio Bassani (morto prima della sua inaugurazione) e Gigi Pezzoli.

Impressionante per la qualità e quantità delle opere in mostra, criticabile per la scarsa contestualizzazione della storia degli oggetti e di come essi siano giunti nei musei e nelle collezioni private che oggi li ospitano, la mostra prevedeva la presenza, a chiusura del percorso dedicato ai “capolavori africani”, descritti come «semplicemente arte», un focus sull’«arte africana contemporanea». In tale sezione trovavano posto opere di artisti africani prodotte dagli anni Cinquanta al 2018: molte di queste si rapportano con il tema del riciclo di rifiuti (spesso bottiglie e tappi di plastica, a volte addirittura armi), insistendo su una visione dell’Africa, ancora una volta, pauperizzata. Alla sezione “contemporanea” della mostra, su 359 pagine di catalogo, sono dedicate le ultime 18.

Rispetto al successo (almeno apparente) di allestimenti, esposizioni temporanee e coinvolgimenti di artisti della diaspora africana e non solo, Sumaya Kassim, co-curatrice di #ThePastIsNow, un’esibizione temporanea dal dicembre 2017 al giugno 2018 che guardava in modo critico alle collezioni del Birmingham Museum e della Art Gallery, ha infatti messo in discussione il proprio lavoro.

Kassim si è infatti chiesta se il museo abbia effettivamente riconosciuto le proprie problematicità decidendo di affrontarle in modo costruttivo: «non voglio che la decolonizzazione diventi parte della narrativa nazionale britannica come una bella curiosità senza sostanza – o, peggio, che la decolonialità venga rivendicata come l’ennesimo grande risultato britannico: le ferrovie, due guerre mondiali, una coppa del mondo e la decolonizzazione».

Già nel 2013 Claire Bishop, autrice di Museologia Radicale, si domandava se l’arte contemporanea fosse effettivamente proiettata all’avvenire e non semplicemente espressione di nostalgia, riflettendo sul problema della sua temporalità. A tal proposito risulta spontaneo pensare a un orizzonte più ampio per la questione museale, in collegamento con i problemi di eredità politiche nella società italiana ed europea contemporanea: dal programma di respingimenti di migranti in mare, alla questione dei “cittadini senza cittadinanza”. Sicuramente, le sfide che il museo, che Giulia Grechi definisce «istituzione storica di matrice europea [che] costruisce il suo oggetto proprio attraverso l’atto del mostrare» (p.19), si trova globalmente ad affrontare sono numerose e complesse e meritano tutta la nostra attenzione.

Oggi giovedì 10 giugno alle ore 18.30 nel giardino di Villa Romana a Firenze, Giulia Grechi presenta Decolonizzare il museo, in dialogo con Beatrice Falcucci.

Immagine di copertina dalla pagina Facebook di CCWAHF