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MONDO
Perché le proteste non sono tutte uguali: mobilitazione e lotta di classe in America Latina
Per intendere realmente cosa è in gioco nelle recenti proteste che hanno sconvolto il continente è fondamentale guardare alla composizione sociale delle rivolte in Ecuador, Cile e Bolivia
Negli ultimi due mesi parte dell’America Latina è stata travolta da un’ondata di proteste. Prima Ecuador, poi Cile e infine Bolivia hanno visto mobilitazioni sociali contro il governo su buona parte del loro territorio. Una gran parte delle analisi apparse nei media tradizionali mette sullo stesso piano la natura delle proteste nei tre paesi, raccogliendo le diverse richieste sotto un unico vago slogan di “uguaglianza e democrazia” e lasciando da parte le importanti differenze che esistono nei tre casi.
Questo contribuisce a generare confusione in un momento storico cruciale per l’America Latina dove, dopo più di un decennio di rivoluzione democratica e pace con giustizia sociale per gran parte del continente, un’onda controrivoluzionaria oligarchica e neoliberista si sta imponendo con forza, tornando a seminare violenza e povertà. È importante quindi fare luce sulle ragioni storiche delle differenti proteste e su quali settori sociali le hanno guidate, per non cadere nell’errore di credere che siano tutte espressioni della stessa “volontà popolare.”
Le origini del malcontento separano chiaramente il caso ecuadoriano e cileno da quello boliviano. Nei primi due casi l’aumento del costo della vita è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In Ecuador, le proteste sono state scatenate dalla decisione del governo di lanciare il cosiddetto paquetazo, un congiunto di riforme economiche imposte dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) come condizione al prestito accordato a febbraio di quest’anno. In particolare, il taglio dei sussidi a benzina e diesel ha fatto aumentare i prezzi rispettivamente del 30% e del 120% da un giorno all’altro. In maniera simile, in Cile tutto è iniziato con l’aumento del prezzo dei biglietti della metro di Santiago, che già costava circa il 14% di un salario minimo, circa il doppio della metro di New York. In Bolivia, al contrario, alcuni settori della popolazione sono scesi in piazza per denunciare presunti brogli nelle elezioni presidenziali del 20 ottobre, che hanno dato la vittoria a Evo Morales al primo turno per più di dieci punti di vantaggio sul contendente Carlos Mesa.
La lotta contro il modello economico neoliberista accomuna i casi di Ecuador e Cile. L’Ecuador sta vivendo un processo ri-neoliberalizzazione forzata dopo dieci anni d’investimenti pubblici e progresso socioeconomico sotto la guida di Rafael Correa e la sua Revolución Ciudadana. Il popolo ecuadoriano pensava di essersi ormai lasciato definitivamente alle spalle la ricetta neoliberista che li aveva portati alla disastrosa crisi finanziaria del 1999, soprattutto dopo aver eletto Lenin Moreno presidente nel 2017, votando per la continuità del progetto iniziato da Correa. Eppure, l’incredibile voltafaccia di Moreno ha riportato l’Ecuador al passato, con un nuovo accordo con il FMI, lo smantellamento dello stato sociale, e la persecuzione politica dei suoi vecchi alleati correisti per cercare di impedirne il ritorno.
Il Cile invece ha vissuto la sua neoliberalizzazione forzata a partire dall’11 settembre 1973, quando il colpo di stato al governo socialista di Salvador Allende insediò una dittatura militare che avrebbe implementato per prima il modello neoliberista in America Latina, usando il Cile come cavia da laboratorio. Da quel momento, nonostante il ritorno alla democrazia a cavallo tra ’80 e ’90, nessun partito politico ha avuto la forza o la volontà di cambiare un sistema economico oligarchico brutalmente esclusorio, basato sulla costituzione pinochetista del 1980 e del quale spesso si sbandierano i numeri macroeconomici glissando sull’immensa disuguaglianza, la mancanza di accesso a servizi basici e la condizione di povertà di vasti strati sociali.
In Bolivia, invece, è stato proprio Evo Morales ad archiviare una delle esperienze neoliberiste più fallimentari del continente, che ha causato proteste massive represse nel sangue, come nella cosiddetta “guerra del gas” dell’ottobre 2003 contro l’esportazione di gas a prezzo irrisorio. Dall’inizio del suo mandato nel 2006, la Bolivia ha vissuto un periodo di stabilità e progresso sociale ed economico senza precedenti anche grazie alla nazionalizzazione di settori strategici dell’economia, come gli idrocarburi. Quello che è stato imputato a Morales dai suoi oppositori è di non voler lasciare la presidenza. Dopo aver perso di poco un referendum costituzionale nel febbraio del 2016 per permettere una seconda rielezione presidenziale consecutiva, Morales ha ottenuto il beneplacito della corte costituzionale alla ricandidatura come diritto umano di qualsiasi cittadino. A esso si aggiungono le accuse di brogli (a oggi non ancora dimostrate) da parte dell’opposizione la sera stessa della giornata elettorale, avallate poi dall’Organizzazione degli Stati Americani, organo guidato e finanziato per il 60% dal governo degli Stati Uniti.
La narrativa dei brogli ha aizzato la classe media urbana tradizionale, la vera base sociale delle proteste anti-Evo, che si è mobilitata con blocchi stradali e marce per chiedere il rispetto del proprio voto e la conclusione della “dittatura” di Morales. L’opposizione di questo settore sociale si era mantenuta in larga parte passiva – con alcune eccezioni come il referendum del 2016 – durante i tredici anni di governo di Morales e del suo Movimiento Al Socialismo (MAS). Questa apatia si spiega con il fatto che la classe media urbana, pur non essendo mai stata al centro dal progetto masista incentrato sulla ridistribuzione verso gli strati più umili della popolazione, ha comunque tratto vantaggio dalla grande crescita economica e dalla spinta modernizzatrice del Paese. Nel corso degli anni, tuttavia, questi strati sociali hanno accumulato un considerevole risentimento nei confronti di alcuni dei maggiori beneficiari delle politiche del MAS, ossia l’emergente classe media indigena e contadina, che viene vista dalla propria controparte urbana come una possibile minaccia al loro benessere.
Dall’avere il monopolio dell’accesso a incarichi pubblici, borse di studio, opportunità di lavoro in generale, i ceti media urbani bianchi e mestizo si sono ritrovati a dover competere con un settore sociale che hanno sempre considerato come inferiore. È proprio in questa cornice che vanno letti il riemergere dell’odio razziale di origine coloniale e il forte rigurgito reazionario che sono stati incanalati magistralmente dalla destra golpista. Nelle recenti parole del vicepresidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia Álvaro García Linera, «il fascismo non è solo espressione di una rivoluzione fallita ma, anche paradossalmente in società postcoloniali, il successo di una democratizzazione materiale raggiunta».
Le manifestazioni in Ecuador e Cile, al contrario, si sono basate su un’alleanza interclasse più ampia, il cui nucleo risiede nelle classi popolari. Questo è vero soprattutto per il Cile, dove il malessere dopo quasi cinquanta anni di neoliberismo si è diffuso alla maggior parte degli strati sociali. Alle iniziali azioni di “evasione di massa” della metro di Santiago organizzate da collettivi studenteschi si sono presto unite le rivendicazioni di vari settori sociali contro le speculazioni dei fondi di pensione, i salari bassi e l’accesso limitato a salute e educazione, fino a raggruppare marce di oltre 1 milione di persone. In Ecuador, le proteste sono iniziate con i blocchi stradali dei trasportisti per poi espandersi a gruppi studenteschi e ai movimenti indigeni – i principali attori della resistenza alle riforme economiche nei dodici giorni di manifestazioni. Anche qui, la classe media urbana è scesa in piazza per unirsi alle proteste, spaventata dalla brutalità della repressione perpetrata dallo stato.
Ed è proprio il differente comportamento di polizia e militari a costituire un fattore chiave per far luce sul differente carattere delle proteste. In Cile ed Ecuador l’apparato repressivo si è attivato con tutta la sua forza per soffocare nel sangue la contestazione contro il modello economico e per cercare di blindare le presidenze di Moreno e Piñera, rispettivamente. In entrambi i casi, l’oligarchia locale (e internazionale) avrebbe tutto da perdere con le eventuali dimissioni dei due presidenti: in Cile, la caduta di Piñera potrebbe voler dire la fine del neoliberismo in Cile con una nuova assemblea costituente; in Ecuador, l’uscita di scena di Moreno porterebbe a immediate elezioni, con le forze di sinistra nettamente favorite nei sondaggi e la conseguente fine del progetto di ri-neoliberalizzazione. Non sorprende quindi che la repressione, con misure come il coprifuoco che non si vedevano dai tempi delle dittature, abbia prodotto varie decine di morti, sparizioni, stupri e migliaia di feriti e detenzioni – di cui la maggiore parte illegali.
La differenza sull’esito dello scontro nei due Paesi è stata determinata dal fatto che in Ecuador – dove le proteste si sono placate – un gruppo organizzato come la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE) abbia assunto il comando delle manifestazioni e lo abbia poi usato per accrescere il suo capitale politico-elettorale in cambio di una vittoria di Pirro (il momentaneo ripristino dei sussidi al carburante). In Cile, al contrario, la decentralizzazione e generalizzazione delle proteste ha impedito che venissero capitalizzate da un singolo movimento politico-sociale. L’obiettivo finale rimane la rinuncia di Piñera e una nuova costituente.
Il caso boliviano, ancora una volta, mostra dinamiche differenti. Fino a quando Morales era presidente, i militari sono rimasti nelle caserme e la polizia si è limitata a proteggere il comitato elettorale centrale, preso d’assalto dai manifestanti nelle notti immediatamente successive alle elezioni. Alla classe media urbana è stato permesso di manifestare, bloccare strade e persino aggredire oppositori in tutta libertà: le forze dell’apparato repressivo sono rimaste pressoché inattive fino all’ammutinamento della polizia nei giorni precedenti al colpo di stato. Questo è avvenuto in concomitanza con la radicalizzazione e l’aumento della violenza per le strade, con il rogo delle case di rappresentati del governo del MAS e il sequestro delle loro famiglie per costringerli a rinunciare al proprio incarico. In quel momento, i capi delle forze armate hanno “suggerito” a Morales di rinunciare – una differenza certo non trascurabile rispetto i casi di Cile ed Ecuador.
La dinamica del confronto tra stato e piazza è poi cambiata repentinamente dopo la caduta del governo di Morales. Le classi medie e alte, che hanno fornito la piattaforma di legittimazione popolare per il colpo di stato, hanno ora sgomberato le strade. Al suo posto, si sono attivati i settori rurali, classi popolari e movimenti sociali vicini al governo destituito, che chiedono rispetto per il loro voto e per i simboli indigeni oltraggiati dalle forze golpiste. Le immense mobilitazioni sono in questi giorni represse nel sangue dalle stesse forze militari e di polizia che qualche giorno fa, con Morales ancora alla presidenza, giuravano che mai avrebbero usato le loro armi contro il popolo. Il governo de facto di Jeanine Áñez ha addirittura firmato un decreto per liberarli di qualsiasi responsabilità penale durante la repressione. I morti sono già più di venticinque, gli arresti superano il migliaio e, conoscendo lo storico potere di mobilitazione dei settori popolari in Bolivia, il livello dello scontro è con tutta probabilità destinato a salire.
Il ritorno delle forze reazionarie al centro della politica latinoamericana ha determinato l’inizio di un periodo storico di grande instabilità nel continente. I settori conservatori cercano di tornare al potere utilizzando tutti i mezzi disponibili: la vittoria elettorale (Argentina), la persecuzione giudiziaria (Brasile), il tradimento del mandato (Ecuador), il colpo di stato vecchio stile (Bolivia e Venezuela). In tutti questi casi la mobilitazione della classe media urbana, in alleanza con ceti più bassi o più alti a loro affini, ha sempre giocato un ruolo, aizzata da mezzi di comunicazione che diffondono un discorso depoliticizzante anti-sinistra e anti-corruzione, spesso mentendo apertamente. In questo contesto, la prospettiva liberale dominante, che tende a confondere tutti i casi di mobilitazione anti-governo riflettendo la fantasia di un mondo con interessi di classe in armonia tra di loro, diventa funzionale all’avanzata conservatrice. Per questo è importante non abbandonare l’analisi di classe per capire chi scende in piazza, di quali interessi si fa portavoce, e con quali obiettivi agisce.