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Oltre l’onto-biologia. Sull’archeologia della persona di Paolo Godani

È da poco uscito “Il corpo e il cosmo. Per un’archeologia della persona” di Paolo Godani (Neri Pozza 2022). Al libro è stato dedicato un workshop durante l’ultima giornata della XV edizione della Summer School organizzata dal Cespec, sul tema Abitare: Il corpo, l’ambiente, il cosmo (Cuneo, 13-16 settembre 2022). Ne pubblichiamo qui una relazione

Dopo le sue monografie dedicate ai filosofi del Novecento (Il tramonto dell’essere, Ets 1999; Bergson e la filosofia, Ets 2008; Deleuze, Carocci2009), gli studi più recenti di Paolo Godani si sono dedicati alla cosiddetta “disputa degli individuali” (Senza padri, 2014 e La vita comune, 2016, entrambe DeriveApprodi), giungendo a una sistemazione in Traits (puf 2020). Il sottotitolo dell’edizione italiana (Ponte alle Grazie 2020) non lascia dubbi sulla tesi di fondo: gli individui, intesi come istanze uniche e irripetibili, non esistono, in quanto non vi sono che tratti semantici che si ripetono combinandosi.

Pur restando chiara l’attenzione estetica ed esplicito il portato politico del suo lavoro (L’informale, Ets 2005), il taglio teoretico della ricerca di Godani si è progressivamente accentuato, portando ad accoglierne con interesse ogni novità, specie se chi legge se ne discosta per premesse, metodo, bersagli polemici o conclusioni. Non è da meno il suo ultimo Il corpo e il cosmo. Per una archeologia della persona, ospitato nella collana “la quarta prosa” diretta da Giorgio Agamben (Neri Pozza 2022, 22€, pp. 205). In continuità con il già citato Tratti, l’obiettivo polemico qui è il concetto di “persona”, che, fosse solo per paronimia, risulta essere un’“incarnazione” — e vedremo in che termini — di quello d’“individuo”. Forte dei materiali della ricerca foucaultiana, il metodo si dichiara archeologico, in quanto il fine è individuare gli snodi storici che hanno portato all’insorgenza di questo dispositivo. Non si tratta di un’evoluzione lineare: anzi, l’origine che ne ha portato l’emergenza si ritrova in dinamiche irrelate. La morale del peccato, la natura di Cristo e della sua incarnazione, le scienze biologiche moderne e la concezione contemporanea della pulsione sono infatti espressioni storiche che rispondono a problemi distinti e autonomi. Ciononostante, l’una ha costituito lo strato semiotico su cui si sono embricate le successive.

La posizione di Godani si rivendica esplicitamente “metafisica”. Se non cogliamo male, lo spirito che la muove si oppone a tutte quelle posizioni novecentesche che hanno sancito la chiusura e l’ineluttabilità della metafisica, in un anelito di superamento. Al contrario per l’autore la metafisica è recuperabile, in quanto si tratta di una «certa attitudine» venuta meno proprio con l’insorgere di uno sguardo “personalistico”, antropologico (p. 7). Come la Premessa metodologica annuncia, «[c]’è metafisica tutte le volte che il corpo viene pensato come espressione del cosmo» (p. 7). Urge allora guardare alla «natura che di tutte le cose è causa immanente e di cui tutte le cose sono […] l’espressione» (p. 50). L’endiadi del titolo si fa chiara: il fine è poter ripensare l’identità del corpo e del cosmo e la piena partecipazione del primo al secondo. La “persona”, al contrario, non è che il ripiegamento del fuori del cosmo in un’interiorità supposta (cfr. p. 51). Il fuori è kosmos, mundus, ovvero «“ornamento”», non soltanto quindi ordine dell’universo, partenopeamente detto «bell’e buono», ma soprattutto «totalità delle cose che sono, ta panta, ovvero la natura, physis» (p. 50). È il motivo per il quale del «cosmo» nel libro se ne parla quasi sempre in termini di «trama». Forse la riduzione sinonimica dei vari paronimi indicati è segno di un’urgenza teoretica; evidenziando la forza maggiore della pars destruens del trattato rispetto alla construens, invita certo a ulteriori ricerche archeologiche— ma ci torneremo.

In ogni caso, l’intento è di «mostrar[e] l’eterogenesi» del concetto di “persona”, di come alla sua «connotazione teologico-metafisica» si associ un’«esperienza» assolutamente irrelata, in cui il «corpo» è l’«abisso» in cui «affondano progressivamente tutti i tratti e tutte le potenze che un’esperienza del mondo non cristiana percepisce come esteriori» (p. 21). Si spiega pertanto il rovesciamento paradossale proposto dall’autore: certo che «il corpo sia una delle poste in gioco del presente» (p. 42), lo scopo è capirne la matrice storiografica di valorizzazione. Riassumendo, gli snodi critici dell’archeologia proposta si riscontrano nel passaggio Tertulliano-Agostino (Prima parte) e in Xavier Bichat (Seconda parte). Nei primi, infatti, la «concupiscientia carnis tende sempre più a manifestarsi come il sintomo di una congenita predisposizione al male da parte di un corpo carnale segnato dal peccato» (p. 39), quando invece ancora per il pelagiano Giuliano di Eclano (n. 385 c. — m. 455 c.) il male, ovvero «il dolore, la concupiscenza e la morte […] non potevano essere addebitati […] al peccato del primo uomo, ma dovevano essere considerati come fenomeni del tutto naturali». Per lui, infatti, la «natura umana è da «considerare perfettamente innocente» (pp. 55-56). Il passaggio dall’esterno all’interno della carne si può riscontrare nell’evoluzione del concetto di pneuma (pp. 53 ss.): da una concezione «“cosmobiologica”», per dirla con Gérard Verbeke, nella quale il soffio del singolo era parte integrante di quello universale, si giunge a una in cui i due non hanno più relazione alcuna. Viene a rompersi così l’«univocità del pneuma»: Tertulliano dividerà allora lo spiritus divino dal flatus umano, Agostino lo pneuma dello Spirito dall’umano pnoè (p. 54). È attraverso queste categorie che Godani propone di rileggere i Soffi de Il Bafometto di Pierre Klossowski nell’Intermezzo che fa da diaframma alle due parti del libro (pp. 97-103). Come in un giallo in cui da scoprire non è l’assassino o il movente, bensì il cadavere, il capitolo “sgalambrico” La morte del sole, non ha dubbi: seguendo le orme di Peter Brown, «la vittima più illustre del conflitto di Agostino con Giuliano non sono stati “né il sesso né il corpo: [ma] il cosmo”» (p. 56). Ma l’omicidio è duplice: l’«altra vittima» è «la stessa filosofia» che, da riflessione sulla totalità dell’essere, si è rivolta all’interiorità dell’umano (pp. 56-7). Sarà infine con Tertulliano che, per osteggiare le eresie gnostiche, si asserirà che «il farsi uomo di Cristo» è stato una vera «incarnazione» e non una mera apparenza. Qui il corpo diventa tempio del Signore e cardine della salvezza (p. 61 e cap. 5). Con l’incarnazione, la «vita dell’uomo è interamente raccolta nell’intimità del suo corpo carnale» (p. 61). Si tratta di un movimento storico che riarticola completamente i valori categoriali: prima, la morte è ancora il contraddittorio della vita (l’epicureo “quando c’è lei, noi non ci siamo”); successivamente ne è il contrario, diventando «ciò che definisce la stessa essenza interiore di ogni interiore» (p. 59).

La seconda parte, dedicata all’età moderna e contemporanea, prende avvio proprio da questo snodo. Contrariamente ad altre storiografie tradizionali, il punto di rottura della modernità non è tanto da individuare in René Descartes, quanto in Bichat (cfr. p. 108). La modernità è, seguendo Foucault, l’«età di Bichat» (p. 141). Nota infatti è la definizione di “vita” della prima pagina delle Recherches physiologiques: essa è l’«insieme delle funzioni che resistono alla morte» (p. 158 e cfr. p. 126), che rima ed estende l’incarnazione del male di Tertulliano e Agostino. Con Bichat il «ripiegamento cristiano sul corpo di carne si concatena ormai con la concezione biologica della vita» (p. 114). Sebbene «il primo trova nella seconda un suo componente», nonostante entrambi «emergono separandosi da e lottando contro contesti e logiche che non li prevedevano» (p. 115), si pone l’analogia per la quale la «carne sta al cosmo antico come l’organismo sta alla natura dell’âge classique» (p. 115). L’univocità dell’essere (pp. 111-2) si rompe in vista dell’emergere delle forme nuove degli esseri viventi, ideologia moderna che l’autore definisce, in risonanza con la critica all’onto-teologia di Heidegger, «onto-biologia» (p. 124 e cfr. p. 126). In Bichat si incontra inoltre un’ulteriore divisione, tra la vita organica (vegetale) e quella animale, l’una posseduta dall’individuo interiormente, l’altra esteriormente. Su questa separazione si innesterà il dibattito ottocentesco sui caratteri, in cui si individua un’istanza ultima e irriducibile cui ricondurre la matrice del comportamento del singolo, così da poter sottoporre questo a giudizio morale (cap. 9). Qui si trova la base per il concetto di pulsione che giunge fino a Sigmund Freud e alla psicoanalisi (cap. 12).

Come già accennato, nel Bichat del libro vi è la lettura di Foucault, di cui Godani rimarca il carattere profondamente heideggeriano, evidente specie nelle pagine conclusive di Nascita della clinica. Al riguardo, ricordando come, negli scritti preparatori di Essere e tempo, Heidegger equipari l’esserci alla “vita” (pp. 128-9), relazione che surrettiziamente giunge al post-strutturalismo francese, è possibile correlare, su base storica e teoretica, biopolitica e ontologia (cfr. p. 113). Ci sembra di ritrovare la vera posta in gioco del libro proprio nel capitolo 8, che propone l’alternativa “vivere o essere” come paradigma. Qui, infatti, la vita viene mostrata come specifica categoria in cui si articola l’ente (che non è l’Essere). Da una parte, è vero che la biopolitica foucaultiana mostra un suo limite nel momento in cui, rimarcando la contingenza del concetto di vita, il suo insorgere recente e la sua connotazione politica, non mostra un punto di rottura oltre il quale andare – d’altronde, prospetticamente, l’analisi foucaultiana è interna allo stesso episteme biopolitico. Dall’altra, però, il fine di Foucault (e qui si ritrova la maggiore distanza dalla biopolitica à la Agamben) non intende certo oltrepassare l’orizzonte di riferimento: le analisi delle insorgenze storiche e della non necessità di determinati passaggi ha come fine l’apertura di campi di possibilità, di spazi per contro-pratiche, non certo a una forma di rifiuto che assume clamori cosmici. Dimenticare Foucault è un gesto patafisico. Un Heidegger più tardo, quale quello di Identità e differenza (1957), porterebbe a pensare più la piega, il legame, che permette l’articolazione dei piani ontico e ontologico, che a uno gnosticismo che rifiuta l’ente sempre e comunque, fosse pure quello “vivo”. In fondo, qualora la categoria di “vita” dovesse perdere la sua connotazione politica, questa sarà certo assunta da una nuova. Il movimento delle due parti del libro, per quanto si ribadisca la loro irrelazione, si innesta in una storiografia che risulta secolarizzante. Al contrario, solo mostrando il carattere autonomo e autolegittimante della modernità è possibile scorgere altre possibilità dal rifiuto rivolto a un passato pre-istorico (una ripresa biopolitica di Hans Blumenberg in Italia manca).

Perplessità simili si nutrono sulle pagine conclusive de Il corpo e il cosmo. Qui, infatti, la “pulsione di morte” freudiana sembra indicare un resto di essere, non riducibile al mero vivere, nella sua “tendenza all’inorganico”, in cui si rilegge la “beatitudine” di Spinoza (p. 171). Ma nel Todestrieb l’inorganico non assume, invece del valore sintetico di ‘essere’, quello di un nuovo sostituto alla morte, comunque un’ennesima categoria ontica? Un’ultima considerazione sulla «catastrofe ecologica» cui accenna il Poscritto (p. 183). L’ecologia contemporanea ha ricalibrato il ruolo dell’umano nei confronti del pianeta. Per quanto la destituzione della presunta sostanzialità dell’individuo vada perpetuata e mantenuta, il rifiuto di qualsiasi pratica, sciogliendo la singolarità nella sostanza gaudente dell’Essere-cosmo, può facilmente rivoltarsi in un laissez-faire. Qui forse marchiamo troppo il contrasto che, retroattivamente (cfr. pp. 182 e 185), l’ombra di Emanuele Severino, nel suo rifiuto della temporalità e di qualsiasi divenire trasformativo, proietta su tutta la ricerca. Pertanto, lo scavo archeologico deve proseguire, se non essere esteso a tutto l’essere.