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Nuovi partigiani e ragazzi della via Pal

Il libro di Jessica Matteo, “Parole pubbliche e memorie private, sull’antifascismo militante romano negli anni Settanta”, fra tempo vissuto e tempo ricordato.

Chi si occupa degli anni Settanta del Novecento italiano ha registrato, nell’ultimo quindicennio almeno, una crescente attenzione da parte degli storici per il periodo in questione, ricostruito ormai da una molteplicità di punti di vista e prospettive. Imbattersi in un volume fresco e attento che approfondisce la questione da un’angolatura originale è, per questo motivo, al contempo stimolante e non scontato.

Parole pubbliche e memorie private. L’antifascismo militante a Roma negli anni Settanta di Jessica Matteo (Polis SA, 2020) restituisce al lettore un’esperienza peculiare dell’Italia di quegli anni, dall’osservatorio privilegiato costituito dalla città di Roma. Un’esperienza, quella dell’antifascismo militante, che è parte integrante del vissuto di tanti e tante militanti che confluiscono nell’alveo della sinistra rivoluzionaria. La congerie di gruppi, organizzazioni, collettivi presentatasi a partire dalla fine del decennio precedente sulla scena della politica italiana considera, infatti, la contrapposizione ai neofascisti (definizione nella quale far rientrare, con qualche approssimazione, militanti del Msi come delle organizzazioni sorte alla sua destra) un momento ineludibile della propria attività, per varie ragioni che l’autrice contribuisce a chiarire ed enucleare. Questioni di agibilità politica, di autodifesa, di legittimità della propria azione rivoluzionaria pongono la tematica dell’antifascismo ai primi posti nell’agenda quotidiana dei militanti di estrema sinistra, che vivono e attraversano gli stessi territori vissuti e attraversati dagli esponenti della controparte politica, e a essi li contendono.

Proprio la dimensione territoriale è una delle specificità su cui insiste maggiormente il volume, attento a individuare nelle strade, nei quartieri, nei nodi pulsanti della vita cittadina (scuole, università, luoghi di lavoro) i terreni di contesa dello scontro politico che si consuma in quegli anni, malgrado la valenza più generale e nazionale del tema dell’antifascismo (si pensi alla strage di piazza Fontana e alla cosiddetta strategia della tensione). In riferimento alla “madre di tutte le stragi” e alla “perdita dell’innocenza” a essa connessa l’autrice distingue giustamente fra elaborazione ex post e vissuto dell’epoca, nel tracciare la linea che porta all’adozione di pratiche violente – fino all’esito estremo della lotta armata – da parte della sinistra rivoluzionaria.

Porre la ‘strage di Stato’ come causa dell’antifascismo militante è, quindi, un’elaborazione maturata successivamente agli anni Settanta. La lotta dei militanti antifascisti aveva come obiettivo la difesa del territorio, quello dove si svolgeva la vita sociale e la lotta politica, così come chiariscono sia le interviste che «Lotta Continua»; al contrario, la strage imponeva uno scontro che non è quello con i neofascisti della città (p. 155).

Fonti orali e Lotta continua

La crasi fra tempo vissuto e tempo ricordato attraversa tutto il volume, che utilizza con perizia gli strumenti metodologici della storia orale. La tipologia delle fonti adoperate informa di sé la struttura stessa del libro, che si suddivide in tre capitoli dedicati, rispettivamente, all’analisi della fonte scritta scelta come “traccia” (il quotidiano «Lotta continua»: le parole pubbliche), a quella delle interviste orali (a militanti della sinistra rivoluzionaria romana dell’epoca: le memorie private) e al dialogo fra queste due istanze. L’ultimo capitolo, in particolare, è quello in cui Matteo fornisce il contributo più originale: per mezzo dell’incrocio fra le due fonti riesce, infatti, a far risaltare aporie, contraddizioni, opacità che restituiscono spessore interpretativo all’oggetto trattato. L’andirivieni fra le pagine del quotidiano e le memorie dei protagonisti raccolte a più di quaranta anni di distanza vivacizza la narrazione, consentendo al lettore di addentrarsi fra le pieghe della ricostruzione storica e all’autrice di sciogliere i nodi tematici indicati nell’introduzione:

[…] mi domando se l’antifascismo militante non abbia una sua specificità. Da qui, quale valore veniva attribuito a tale lotta negli anni Settanta? Quanta parte ha avuto nella vita dei militanti della sinistra extraparlamentare? Quale significato gli viene oggi attribuito da quegli stessi militanti? Attraverso questo studio si tenterà di rispondere a queste domande, ponendo al centro dell’attenzione l’antifascismo militante, a prescindere dallo studio della lotta armata (p. 21).

L’obiettivo principale è quello di restituire dignità di studio al fenomeno dell’antifascismo militante, “sganciandolo” da quello della lotta armata, sul quale si concentrano buona parte delle ricostruzioni del periodo. Un sicuro pregio del volume è infatti quello di sottrarre il decennio Settanta dall’interpretazione sub specie violentiae che lo relega alla categoria di «anni di piombo». Non perché la contesa dello spazio pubblico con la controparte politica non faccia ricorso anche a repertori d’azione violenti (che nelle dinamiche analizzate risultano anzi prevalenti); quanto perché l’antifascismo militante è collocato all’interno del più ampio regime discorsivo e militante della sinistra rivoluzionaria dell’epoca, con i suoi meccanismi di legittimazione coevi e posteriori. 

La violenza

Il tema della legittimazione dell’utilizzo della forza, financo armata, nei confronti dei “neri” è un altro degli assi portanti del volume, che anche sotto questo aspetto si inscrive in un’ormai corposa messe storiografica. Da questo punto di vista il dialogo fra la fonte scritta e quelle orali mostra tutta la sua potenzialità: laddove «Lotta continua» insiste nel richiamo alla guerra partigiana e alle punte raggiunte dal conflitto antifascista nel dopoguerra, le interviste orali dei militanti restituiscono un quadro più complesso. La propria lotta è sì vista in un’ottica di continuità con la Resistenza – tradita dal mancato repulisti dei fascisti all’interno delle strutture statali, dal fallito esito rivoluzionario, dal progressivo abbandono delle istanze più radicali da parte dei partiti più rappresentativi della sinistra di classe, Pci in primis –, ma il tempo trascorso e il mutato contesto politico-sociale muovono a ripensamenti del proprio agire. Così, all’autorappresentazione di sé come «nuovi partigiani» si sovrappone quella di «ragazzi della via Pal», protagonisti di una «guerra fra bande», con uno sguardo non esente da critiche riguardo il proprio vissuto e i troppi morti che quello scontro ha lasciato sul selciato. Come racconta uno dei militanti intervistati:

«È vero, il clima storico era diverso, perché i fascisti venivano, rompevano il cazzo, c’avevano la stessa funzione che c’hanno adesso rispetto all’occupazione delle case, […] cercavano la provocazione, però noi abboccavamo con tutte le scarpe. […] Allora non molto, ma adesso […] mi sento dire che eravamo tipo i ragazzi della Via Pal, quindi, immersi in un contesto stupido, non ci rendevamo conto che la vita era altrove, insomma […] facevamo il gioco di qualchedun’altro. […] Quella specie di piaga dell’antifascismo militante avesse degenerato dai ragazzi della Via Pal agli indiani cowboy, sembra che siamo nel Far West vero, a pistolettate» (pp. 113-114). 

Non si tratta certo dell’unica lente con cui i fatti dell’epoca vengono riletti, ché altri intervistati ricomprendono a pieno titolo le proprie azioni all’interno di un percorso militante in sé coerente e consapevole. La capacità di mostrare simili smagliature fra tempo vissuto e ricordato costituisce, tuttavia, un indiscutibile merito del volume, ricercato e rivendicato dall’autrice stessa. Una carenza è invece evidente nel ricorso a «Lotta continua» quale unica fonte scritta, sia per quel che riguarda la ricostruzione delle vicende del periodo, sia rispetto al dialogo con le interviste orali. Matteo giustifica la scelta con il «seguito avuto dall’organizzazione nella sinistra radicale e giovanile e [con la] struttura del giornale, che dal 1972 da quindicinale diventa quotidiano, uno dei pochi di quell’area politica ad avere una cadenza così regolare» (p. 23). La sinistra rivoluzionaria esprimeva però almeno altri due quotidiani («il manifesto» e «Il Quotidiano dei lavoratori»); inoltre, il mancato confronto con altri organi non permette di cogliere le differenze anche profonde fra un’organizzazione e l’altra, che invece attraversano vistosamente le posizioni dei militanti intervistati, appartenenti a Lotta continua, autonomia operaia e Potere operaio. Lo strabismo fra tempo vissuto di una parte sola e tempo ricordato di una pluralità di attori produce a volte uno schiacciamento nell’analisi di omertà, reticenze, discrepanze, che tuttavia non inficia lo scopo del volume, di valorizzare lo studio dell’antifascismo militante quale «nuova lente per guardare al decennio, per darne una lettura oltre il piombo» (p. 202).

in copertina, murales dedicato al militante di Lotta Continua Francesco Lorusso (immagine Wikimedia Commons)