approfondimenti

ROMA

Narrazioni vaccinali

Prima dose del vaccino Astrazeneca: un viaggio da Torpignattara verso l’hub di stazione Termini in una città in zona rossa. Infetta, stanca e povera

Torpignattara brulica di gente, o almeno più di quanta te ne aspetteresti in zona rossa. È nuvoloso e c’è una cappa che pesa sopra questa città malata. Prendo il trenino, non lo uso da settimane forse mesi, non è sicuro prendere i mezzi pubblici – dicono – che poi a Roma i mezzi pubblici fanno schifo e, se li prendi, o sei povero o appena arrivato in città.

Il trenino è sempre una babele di gente di tutti i colori e forme, accanto mi si siedono in tre che stanno chiaramente vendendo e comprando qualcosa «che li farà fleshare una cifra». Un po’ li invidio, io non ce l’ho la testa così libera per poter viaggiare nei mondi sommersi della mente. Scendono al Pigneto, verso un mondo fantastico e un ripiglio lento e doloroso.

A Porta Maggiore non c’è traffico e nessun mercatino ai lati delle strade. Solo il rumore di ferraglia del trenino direzione Termini. Arriviamo. Scendiamo. È tutto chiuso. Le piante del Mercato Centrale, posto fichetto dove una birra costava 8 euro e una pizza 12, sono tutte bruciate. Tentativo fallito, per il momento, di gentrification della stazione. In giro solo senza tetto, poveracci, tossici, vagabondi e alcolisti, i dimenticati del mondo, quelli che non guardi negli occhi per paura di perderti nella tristezza dei loro sguardi. La cappa della città mi pesa addosso. Io cammino e sudo sotto la mascherina.

 

Tutti quelli che incrocio indossano una o due mascherine. La malattia di questa società è emersa in superficie, e si vede, ma stentiamo a comprenderla. La stazione è sporca. Non so bene se la mascherina la indosso più per la pandemia o per non sentire la puzza di piscio che divampa in tutti gli angoli.

 

Ricevo i soliti commenti non richiesti, ma mi sento forte dietro i miei anfibi, la giacca di pelle e le cuffie con la musica. Anche se poi mi guardo allo specchio e penso che questi pantaloni mi fanno il culo grosso. In questo vuoto, vado dritta verso piazza dei Cinquecento. Autobus bordeaux e grigi sono parcheggiati in attesa di partire, insieme a qualche taxi. Arrivo ai grandi tendoni della Croce Rossa, una degli hub vaccinali della città di Roma. Piazza vuota, tendone bianco, sembra una scena ai confini della realtà.

Oggi mi vaccino. Sono personale docente, precaria, lavoro nella scuola pubblica, in una privata, e per un’università online e sogno le vacanze di Pasqua. Entro nel parcheggio, c’è una Porsche e un uomo che guarda fisso nel suo vuoto appoggiato a un muretto, dentro la macchina una donna bellissima, con diversi braccialetti d’oro che tintinnano. Al proprietario del macchinone in mocassini blu senza calzini mancano dieci centesimi per pagare il pedaggio. Nella scena mi sarei immaginata più l’altro uomo a chiedere gli spiccetti, non lui. I casi della vita. Oggi sarebbe stato il compleanno di mia madre, morta cinque anni fa di cancro metastatico. Io ho messo una sua collanina che sbrilluccica così penso che mi accompagni.

Invece vado da sola, cerco l’entrata di questi tendoni. Domando. La trovo. All’entrata tre uomini della Croce Rossa mi chiedono il cognome e mettono una croce su una lista. Entro, una donna sempre della Croce Rossa mi prende la temperatura. Un’altra mi accompagna alla postazione per compilare i moduli. Tutti salutano, sorridono e ringraziano. Il medico della postazione mi fa diverse domande su malattie e vaccini e poi mi chiede «vuole avere figli?». Bella domanda – gli vorrei rispondere. Ho trentasette anni, sono single e l’ultimo anno l’ho passato centellinando la possibilità di incontrare amiche e famiglia. Davvero una bella domanda. Scandita al ritmo di orologio biologico. Il giovane medico mi guarda tra mascherina e occhiali da vista, cercando di non farli appannare respirando e mi spiega che sarebbe meglio non rimanere incinta nei prossimi quattro o cinque mesi. Controbatto che sarebbe bello programmare in questo modo la propria vita: ma il mondo in pandemia è imprevedibile. Ride, io pure. Dopo giorni, forse.

Mi indirizzano verso l’altra ala del tendone, tutti sorridono, tutti sono gentilissimi, c’è anche una volontaria con la divisa come nei vecchi film di guerra, con una croce rossa gigante cucita sulla camicia blu, la gonna lunga, e un fazzoletto in testa. Arrivo da una medica con gli occhi dolci, mi siedo, mi scopro il braccio sinistro, togliendo la maglietta, ma coprendo il seno. È una settimana che non mettevo maglietta e jeans, ho anche un body di pizzo blu, non l’avevo mai messo, mi sembrava una buona occasione per provarlo. Scelte assurde nel mondo pandemico. Guardo l’ago, ho un po’ di timore, nemmeno mi ricordo l’ultima volta che ho fatto una puntura. «Lei sviene ai prelievi?» – mi ha chiesto il giovane medico, incontrato nella precedente postazione. «No, non svengo mai». Io soffro in silenzio. Sempre. Mi hanno insegnato così. Non si preoccupi, avrei voluto rispondere, è tema centrale nella mia terapia al momento. Respiro, chiudo gli occhi, sento il batuffolo di cotone bagnato sul braccio e poi un pizzico. Come direbbe l’infermiera disegnata da Zero Calcare, «è solo un pizzico». Sento il liquido che entra dentro il mio corpo.

I mille dibattiti inutili sui vaccini di questi giorni divampano nella mia testa. Apro gli occhi. «È solo un pizzico». Ricevo un foglio, e passo nella terza parte del tendone. Devo stare un quarto d’ora in osservazione. Una volontaria della Croce Rossa mi chiama per nome. Avranno mutuato questa politica dalle aziende americane, tipo Starbucks, dove usano il nome per farti sentire in un luogo familiare e protetto. Tutti sempre gentilissimi. E io che sono cresciuta facendo i vaccini all’Asl di Acilia con i vetri rotti e i pavimenti sporchi e nessuno che ti salutava o parlava. Mi rispiegano che mi potrebbe fare male il braccio e potrei avere della febbre. Poi passo all’ultimo tavolo verso l’uscita e ricevo il foglio di avvenuta vaccinazione. Dietro il tavolo c’è il disegno che il fumettista Milo Manara ha regalato alla Croce Rossa. E una volontaria commenta «tutte belle e alte ‘ste donne della Croce Rossa nei disegni, fossero mai come noi». E ha ragione. Anche se Manara un po’ mi piace. Mi tengo la mia incoerenza ed esco.

 

Sono di nuovo a piazza dei Cinquecento, tra le strade infette. Lascio il tendone da guerra dietro le spalle, ma l’atmosfera rimane postatomica. Cammino verso la Feltrinelli di piazza della Repubblica, osservo le rovine delle Terme di Diocleziano sulla mia destra nascoste dietro le grate, simbolo di una città che ci hanno negato.

 

E i tanti uomini che dormono per terra, sopraffatti dalle loro storie e dalle loro sofferenze, abbandonati su quei muretti tra cartoni di carta e di vino. Sulla sinistra, osservo la stele dedicata alla battaglia di Dogali, che celebra uno dei tanti massacri del colonialismo italiano. Storia dimenticata, che nessuno vuole ascoltare. Di fronte a me, in piazza della Repubblica, gli alberghi di lusso sono vuoti, qualche persona è di fronte la chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri per un funerale di qualche persona importante. Tutti vestiti di ipocrita eleganza. Roma è vuota, sporca, puzza. Un po’ come questa società che abbiamo costruito.

Entro nella libreria e un bimbo sorride perché gli hanno comprato i lego. Spendo 80 euro per due libri per il concorso di scuola pubblica, leggo qualche domanda, e penso che non lo passerò mai. Insicura, come sempre. Prendo anche un quaderno, dove scrivere le mie narrazioni poetiche, le uniche piccole gioie nascoste di questo ultimo anno. Ho appena finito un corso di scrittura creativa, tutto online, chiaramente, e un quaderno con fogli di carta vera me lo merito. I libri pesano e mi fa male il braccio. La mascherina mi toglie il respiro, pago, esco.

Torno al trenino direzioni Laziali, con i vagoni del dopoguerra, pago il biglietto con la carta di credito, direttamente ai tornelli, manco fossimo a Londra. Forse avrei dovuto saltare, e non pagare, perché il servizio offerto non si merita nemmeno 30 centesimi. Prof.ssa di diritto ed economia non paga il biglietto dei mezzi pubblici. Scandalo. Io che sogno di insegnare alle mie studentesse e studenti la necessità della disobbedienza alle leggi ingiuste. Anche se in questo periodo non si capisce nemmeno più bene quali siano le leggi ingiuste: le zone rosse, le chiusure alternate, la dad, il vaccino obbligatorio?

Eppure l’ingiustizia di questa società taglia l’aria come i fogli di carta sulle dita, ferite silenziose, ma dolorose, di cui però nessuno si lamenta, anche se lasciano il segno. Non metterò le mie foto con l’ago nel braccio, né indosserò la spilletta “io mi vaccino” della Regione Lazio. Non intavolerò altre ridondanti discussioni su Big Pharma.

 

Ingiusto è non avere i vaccini per tutti. Ingiusto è come trattiamo questo pianeta, ora malato, come molti di noi. Ingiusto è che ci siano ancora così tanti uomini e donne che dormono per strada. E tutte le volte che attraverso la stazione Termini mi chiedo come si possa non sentire queste ingiustizie appiccicate addosso sulla pelle. Forse la faccio troppo semplice, o forse è una questione di epidermide troppo sensibile.

 

Il vaccino è fatto, la seconda dose è a giugno, quando il mio contratto sarà già scaduto e la scuola chiusa. Torno a casa, col braccio dolorante. Ho una buona scusa per non allenarmi. Anche se avrei voluto. E invece mi tocca stare ancora a riposo. A casa.

 

Immagine di copertina di Heung Soon da PixBay.

Foto nel testo dell’autrice