cult

CULT

Mike Davis, in memoria di un militante politico

In ricordo di Mike Davis, “Prophet of the doom”, anticipatore di catastrofi come la Sars del 2005 o il cambiamento climatico quanto di processi di riscatto politico e sociale “aveva capito che occorre tempo e pazienza, che bisogna costruire organizzazione, seminare per raccogliere”

«Tuono a primavera

vedo l’oceano cambiare di colore»

Fukuda Chiyo-Ni

Nell’oscurità della transizione che le città attraversavano negli anni Ottanta, la Città di quarzo di Mike Davis, uscito nel 1990, si propose subito come un libro rivelatore, di quelli che segnano un’epoca e di colpo illuminano la situazione. Per noi una voce sorprendente, che arrivava da lontano e che spiegava molto di quanto stava accadendo.

La Città di quarzo era una sorta di controcanto all’ottimismo acritico che aveva accompagnato la rivoluzione urbana di quel decennio, segnato dalla crescita di grandi concentrazioni urbane al di fuori dei paesi sviluppati e dall’emergere di alcune metropoli dotate di poteri e di importanza diversa dal passato.

Los Angeles, una delle capitali mondiali, una città “globale” come avrebbe presto insegnato Saskia Sassen, in cui si accumulavano enormi ricchezze e si incrociavano tanti fili dell’economia, che attraeva migranti da tutto il pianeta, si mostrava con il suo volto distopico, come una città socialmente divisa, percorsa da tensioni difficilmente risolvibili, marchiata da una enorme violenza strutturale di fondo. Il libro a tratti pareva troppo carico, quasi eccessivo, a chi lo leggeva in Europa, persino a chi aveva una formazione militante. L’anno dopo, nel ’91, andai per lavoro a Los Angeles, ed ebbi modo di toccare con mano quanto Mike aveva descritto. Nella downtown, dove c’era il mio albergo, si sentiva sparare di notte. L’albergo era protetto da guardiani armati, non solo all’ingresso ma a ogni piano. Il giorno dopo il mio arrivo nel primo pomeriggio provai a fare una passeggiata. Il portiere mi chiese se intendevo uscire “naked”, cioè senza automobile e senza pistola, e mi spiegò che era pericoloso. Lo ignorai e mi avviai per la Broadway, che pullulava di negozietti miseri “tutto a un dollaro”. Mi si avvicinarono un paio di ragazzi, chiedendomi l’elemosina, tirai dritto, vidi che mi seguivano, al primo angolo scantonai e mi misi a correre, mi inseguirono, ma ero giovane e allenato, li distaccai e tornai in albergo, avevo avuto un piccolo assaggio personale della quotidianità della “Città di quarzo”.

Tensioni che sarebbero clamorosamente esplose nel 1992 con la “battaglia di Los Angeles” dopo l’assoluzione degli agenti di polizia responsabili del brutale pestaggio di Rodney King.

La globalizzazione mostrava il suo volto contraddittorio, la sua incapacità di redistribuire la ricchezza anche nel cuore delle capitali planetarie, la mancata integrazione di quelle componenti migranti che pure ne avevano costituito il “carburante”, faceva emergere una inedita frammentazione e compartimentazione della struttura urbana. Davis era stato capace di coglierne l’altra faccia, di comprendere nei processi di crescita economica il disegnarsi di un nuovo mondo di vincitori e vinti. Nel leggere il cumularsi delle contraddizioni interne alla metropoli egli aveva visto giusto, e non sarebbe stata l’unica volta nella sua vita.

Una delle sue caratteristiche è stata infatti la capacità di anticipazione, di intuire tendenze, modelli, di percepire traiettorie e sviluppo di fenomeni sociali, politici, ecologici. Una capacità di anticipazione che gli veniva non certo dalla sua incerta formazione accademica, ma da una osservazione militante, che si traduceva in pratica intellettuale di parte. “Prophet of the doom”, profeta del disastro, così venne spesso etichettato, e, nell’ultima intervista concessa poco prima della sua morte Mike lo dice molto chiaramente: «Sì, sono un catastrofista, ma lo intendo nei due modi: il primo, in assonanza con Walter Benjamin è la fiducia nell’improvviso concretizzarsi di opportunità che permettono di saltare in un diverso, quasi utopico futuro; certo però anche catastrofista nell’altro senso, nel prevedere il realizzarsi di eventi quali epidemie e disastri ambientali…oggi il cambiamento climatico».

E infatti, all’epoca deriso e messo in ridicolo, Mike Davis fu anche il primo a presagire il Covid-19, nel suo libro sulla “epidemia dei polli”, la Sars del 2005, che rimane oggi una lettura impressionante per la capacità di intuire quanto sarebbe accaduto oltre un decennio dopo, di intravedere le conseguenze negative che la pandemia avrebbe avuto sulle città, il collasso dei sistemi sanitari urbani e il prezzo che avrebbero pagato poveri e periferie.

Altrettanto importante e profetico il libro sul moltiplicarsi degli slums del 2006, in cui lo sguardo veniva puntato sul proliferare delle bidonvilles a livello mondiale e sull’affermarsi di un modello di abitare misero e autocostruito quale componente ineludibile del celebrato “millennio urbano”.

Certo era difficile classificarlo e digerirlo sotto il profilo accademico, in realtà non era né sociologo, né politologo, né urbanista, né geografo: la produzione di Mike Davis abbraccia una grande varietà di temi e incrocia in maniera fertile saperi disciplinari tra loro lontani, che vanno dalla sociologia quantitativa alla storia del colonialismo (Olocausti vittoriani), alla fantascienza, passando per  l’analisi dei movimenti migratori e delle lotte dei migranti, fino all’Ecologia della paura,  per chiudere con le riflessioni su Marx (Old Gods) nel 2018.

Leggendo i suoi libri si ha a volte l’impressione di avere a che fare con uno di quegli autodidatti di talento, che riescono a mettere insieme in maniera significante materiali eterogenei, individuando connessioni che ad altri sfuggono. Nei suoi lavori si mescolano letture e osservazioni dirette, conoscenze pratiche e saperi alti e c’è anche molto umorismo, spesso amaro. Un autodidatta curioso e intelligente, guidato da una personale etica, che voleva essere prima di tutto un militante politico: fin da giovane aveva fatto parte prima del Partito Comunista americano (regalò la sua vecchia automobile ad Angela Davis che era senza), poi membro di varie organizzazioni politiche socialiste. Spesso faceva dello spirito sulla propria scarsa capacità di agitatore, ma era chiaro che l’azione politica era quello che gli stava realmente a cuore.

Da ragazzo aveva lavorato in un macello, poi aveva fatto il camionista e la guida turistica. Piccoli dettagli biografici che ci parlano della sua conoscenza pratica del mondo del lavoro, delle questioni sindacali, della consapevolezza dell’importanza dei trasporti e della logistica, o della sua conoscenza millimetrica del territorio losangelegno. L’impegno politico concreto era una parte fondamentale della sua vita e mi stupì, in una breve intervista che gli facemmo con Luca Queirolo Palmas una quindicina di anni fa, la sua conoscenza dettagliata del mondo dell’attivismo politico e delle organizzazioni sindacali da una parte e dall’altra della frontiera tra Messico e Stati Uniti.

Ricordo anche un’altra intervista in cui Mike spiegava come molti concepiscano la lotta politica come una sorta di epopea fatta di grandi discorsi e di leader carismatici, mentre nella sua esperienza concreta di attivismo politico e sindacale aveva capito che occorre tempo e pazienza, che bisogna costruire organizzazione, seminare per raccogliere. Tanto del suo lavoro teorico nasce proprio da questa prossimità strettissima con la militanza.

Era un uomo sensibile, dopo il riot di Los Angeles non volle pubblicare molti dei materiali che aveva raccolto, in particolare quelli che riguardavano persone che conosceva bene, scrisse: «non ho mai trovato il coraggio sufficiente per saccheggiare le vite altrui per i miei scopi narrativi, né per arrogarmi il diritto di raccontare le loro storie […] il progetto era troppo straziante, dal punto di vista emozionale». Sono questi i tratti che ce lo fanno sentire estremamente vicino, e, al di là dell’importanza del suo lascito intellettuale, ce lo fanno sentire a pieno titolo e fino in fondo uno dei nostri…

Mike Davis è morto nel suo letto, dopo avere volontariamente interrotto le cure ma, come ha detto con la consueta ironia nella ultima intervista, è su di una barricata che gli sarebbe piaciuto morire.

Tutte le immagini Wikimedia commons