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Luca Carboni. Bologna è una regola

Nella canzone d’autore degli anni Ottanta un ruolo centrale ce l’ha avuto la scena musicale della città di Bologna e in particolare l’opera di Luca Carboni. Capace come pochi altri di usare un approccio demistificante e critico nei confronti del mito della vacanza estiva sulla riviera romagnola o del mito del maschio seduttore

La canzone d’autore al bivio

Alla fine degli anni settanta si verifica nella produzione cantautorale italiana un processo di biforcazione. La canzone d’autore, un prodotto culturale che si era compiutamente definito nel corso del decennio, pare trovarsi ad un punto di crisi, di ridefinizione del proprio profilo, e si indirizza lungo due linee divergenti, quasi fra loro antitetiche.

Una linea in cui l’attenzione alle tematiche politiche e sociali, che era stata la caratteristica saliente della stagione artistica del decennio precedente, passa in secondo piano, lasciando il posto ad atmosfere sganciate dalla storia, collocate in un tempo sospeso. La scrittura, caratterizzata da una forte carica simbolica e da uno stile ricercato ed ermetico, sconfina volentieri nel campo letterario (sul piano lessicale e tropologico); la musica, spesso contaminata da elementi etnici o folklorici, è caratterizzata da un grande eclettismo e sperimentalismo. È il percorso intrapreso negli anni ottanta da Fabrizio de André, ben rappresentato dal Disco dell’Indiano, da Angelo Branduardi, dal Lucio Battisti di Don Giovanni, da Ivano Fossati in Panama e dintorni, da Alan Sorrenti (da Figli delle stelle a Bonno Soku Bodai). Una linea che raggiunge i suoi vertici artistici nella colta canzone postmoderna di Franco Battiato e Paolo Conte.

Accanto a questa tendenza si sviluppa una seconda linea “intimista”, rivolta ad un pubblico più giovane, priva di impegno civile eppure a suo modo anticonformista e corrosiva. Pur non disponendo di una voce narrante “forte”, carica di valori etici e politici, come era stata quella della canzone di protesta degli anni settanta, questa nuova tendenza si mantiene comunque in rapporto dialogico con il presente, insistendo su tematiche di carattere più intimo e (forse solo in apparenza) privato: il rapporto fra i sessi, l’identità di genere, la liberazione del comportamento individuale dagli stereotipi sociali, il rapporto con il consumo di sostanze. È un cantautorato anti-mitologico, che preferisce al registro poetico quello colloquiale, alla significazione simbolica quella sintomatologica. Musicalmente si caratterizza per la contaminazione della musica d’autore con il rock, il pop e la cosiddetta musica “mainstream”.

Questa seconda corrente ha una collocazione geografica ben precisa: l’Emilia Romagna e il suo capoluogo, Bologna, la città culturalmente più giovane e viva dell’Italia degli anni ottanta. A questa seconda linea appartengono cantanti giovani, come Vasco Rossi, Gaetano Curreri, Luca Carboni, ma anche artisti più anziani come Lucio Dalla.

È bene precisare che nell’uno e nell’altro caso, ci troviamo di fronte ad una cultura musicale che registra, in modo sintomatico, la fine di un corso storico. La conclusione della stagione di fermento politico degli anni settanta comporta il declino della figura carismatica del cantautore, che si trova costretto a ridefinirsi, ad interagire con un nuovo pubblico e con un mutato contesto sociale.

Bologna è una regola: la scuola bolognese

È su questo sfondo che fa il suo esordio discografico nel 1984 Luca Carboni, giovane autore (ancor prima che cantante) bolognese, scoperto e coltivato dall’intuito artistico di Lucio Dalla. Una bicicletta gialla e la fine del comunismo: così si intitola il primo capitolo di Autoritratto, una sorta di racconto autobiografico per immagini pubblicato dal musicista nel 2004. Nulla meglio di questa immagine raffigura la collocazione del nuovo cantautorato di cui Carboni si fa interprete. La cultura degli anni ottanta non conosce ancora la fine del comunismo come esperienza politica, ma sperimenta la crisi del comunismo come stagione culturale, come egemonia di un discorso politico forte; il diradarsi di lotte e conquiste sindacali e sociali che avevano occupato in modo centrale lo spazio pubblico negli anni del boom economico; l’emergere della nuova ideologia “neoliberista”, la depoliticizzazione dei riti e dei linguaggi giovanili e l’irrompere di una stagione di reflusso e disimpegno, sentita però con un certo disagio: “c’è una sfiga nella mia generazione” diceva Carboni in un’intervista del 1988, “anche se vissuta con molta ironia, ovvero quella di essere arrivati tardi su tutto, ma di aver egualmente avvertito tutto”. Non c’è nelle canzoni di Carboni una giovane generazione che vuole rompere con il passato e rivendicare la propria carica innovativa e rivoluzionaria, ma una generazione che vive un senso di perdita e di smarrimento, non solo esistenziale, ma storico e politico, e che ascolta il passato che svanisce, come si ascoltano “vecchi discorsi”, come si ascolta il rumore degli Autobus di notte:

Sono locomotive su binari morti,

da tempo non si vedon più.

Sono le vecchie idee, anche quelle forti,

nessuno ormai le usa.

(Gli autobus di notte)

Il percorso intrapreso da Carboni si svolge su un piano di osservazione della realtà intimo e quotidiano, ma non deve essere semplicisticamente frainteso come un rifugio nel privato, nell’intimismo, nell’introspezione autoreferenziale. Carboni, e con lui Vasco, Dalla ecc., sono esempi di una modalità di rappresentazione efficace di una generazione e delle sue contraddizioni, dei mutamenti nei rapporti di genere, nell’uso del tempo libero ecc. (nel decennio successivo, come ho cercato di mostrare altrove, accade qualcosa di simile).

Luca Carboni, come scriveva un giornalista di Repubblica nel 1985,

è un diretto discendente della scuola bolognese di oggi, più precisamente con un tocco di Vasco Rossi nell’impostazione della voce, sforzata e roca al punto giusto, e un’impronta musicale e sonora influenzata nettamente da Lucio Dalla, alla cui corte Carboni è stato scoperto e allevato.

Sul versante musicale, se Vasco aveva rotto gli schemi della canzone d’autore con una sorprendente contaminazione del linguaggio del rock con quello cantautorale, Carboni arriva a spingersi oltre, come spiega una recensione del suo disco musicalmente più maturo, Carboni, del 1992: 

La sofisticata produzione di Mauro Malavasi, da anni protagonista dietro le quinte di molto materiale della scuola bolognese, conferisce al tutto un’aria di sognante e delicata leggerezza, e soprattutto una sobria modernità di suoni, con ritmi dance e minimalismi in stile house, che ci sembrano un sapiente superamento dei vecchi cliché rocchettari o folk che imperversano nel mondo della canzone d’ autore.

Il pubblico di Carboni è sin dagli esordi un pubblico giovane e spesso le sue canzoni assumono il tono di un racconto collettivo, generazionale, dove la voce narrante è un “noi”, non un “io”, come accade in Giovani disponibili, title track del suo primo album, o nel brano Ci stiamo sbagliando. Niente giovanilismo a buon mercato, niente culto dell’eterna giovinezza. I “ragazzi” di Carboni camminano “coi piedi di piombo  / (…) sotto cento chili di cielo”. Non somigliano a quelli della TV, con le motociclette nuove e i capelli al vento: “Giovani capelli al vento / ma quale vento dentro al bar”; non si sentono figli delle stelle e nemmeno di sua maestà il denaro:

Noi no, noi che non siamo le stelle,

nemmeno le donne, nemmeno quelle.

(…)

Noi noi ladri di mille lire,

cercando il modo

per non morire,

per non pagare le tasse,

per far passare la notte.

(Ci stiamo sbagliando)

Da Vasco Rossi, Carboni prende senza dubbio un nuovo modo di utilizzare il linguaggio, che appare diretto, colloquiale, apparentemente trascurato. Molte canzoni sembrano iniziare nel mezzo di un discorso da bar:

Trentaseiesimo

del secondo tempo

si stava già perdendo

tre a zero…

(Simmu gente ca nun sà)

Questa scrittura è frutto in realtà di un attento lavoro di lima. Carboni confessa di avere avuto un grande maestro in Lucio Dalla:

facevamo un gioco, lui e io: ogni volta che usciva un brano nuovo a Sanremo, o alla radio, provavamo ad analizzarlo, riscriverlo, migliorarlo. Giocando con Lucio ho imparato come dare forza alle parole su una musica, quando togliere, quando aggiungere (…) Metto una notevole attenzione al linguaggio delle canzoni. Credo che la caratteristica principale sia quella di parlare senza badare alle esigenze letterarie della canzone d’autore. Se questi testi funzionano, credo sia perché i ragazzi avvertono che l’ansia di fondo che io esprimo è in sintonia con la loro, scoprono che è possibile esorcizzarla con ironia e ottimismo“.

La novità di questo linguaggio non si ferma alla dimensione puramente lessicale. L’elemento più distintivo di questi cantautori risiede nel loro speciale modo d’uso del linguaggio del “mito” (nel senso che Roland Barthes dava a questo termine), un modo d’uso in cui si instaura un rapporto “obliquo” rispetto alle configurazioni del discorso e della soggettività del periodo storico in cui essi si esprimono. Si vede all’opera nelle canzoni di Carboni questa tendenza demistificante, nei confronti del mito della vacanza estiva in Riviera o del mito del maschio seduttore. Basta ricordare due delle sue canzoni più famose, per vedere come gli elementi costitutivi del “mito” vengano smontati: in Mare, mare il simbolo per eccellenza della libertà, cioè la moto lanciata nella notte per raggiungere il mare (una moto che da subito confessa di essere una metafora usurata, “usata ma tenuta bene”), si trasforma nel mezzo che porta il protagonista a contatto con la propria solitudine; in Fisico bestiale la forza fisica, la virilità maschile, acquista progressivamente un significato altro rispetto alle sue attribuzioni canoniche.

Dolce Vita Rimini Auf Wiedersehen

Fra i cantautori della scuola bolognese, Carboni è quello più legato alla sua città e al suo territorio: Bologna e la riviera romagnola sono lo sfondo, se non addirittura il tema, di molte delle sue canzoni (come La mia città o la recente Bologna è una regola). Il capoluogo emiliano e la riviera nella geografia di Carboni non sanno stare l’uno senza l’altra. Si va al mare per fuggire dalla città, dalla sua estate insostenibile o dal suo grigiore invernale; ma si va al mare anche per fuggire dalla propria condizione sociale e dai ritmi del lavoro, perché “al mare è un altro tempo / perché al mare è un po’ più lento”. Così in Mercoledì il protagonista fantastica di andare al mare in un giorno lavorativo:

Via da questa città,

scappa con me mercoledì.

Voglio andare al mare,

voglio andarci sì, in un giorno feriale.

Sulla spiaggia a navigare

con il sole dentro a me.

Voglio andare al mare

a non far niente no, no, no, no…

(Mercoledì)

Quando il mare come luogo fisico risulta irraggiungibile, resta a evocarlo la semiologia della spiaggia: abbronzatura e occhiali da sole mostrano, in città, il loro valore puramente segnico.

Perdo la testa, perdo la testa

per un paio di occhiali da sole.

Uhm… perdo la testa

per gli occhiali da sole.

Un’altra lampada al viso,

per non accorgersi più dell’inverno,

per non sparire nel grigio

alle fermate del tram.

(Solarium)

Forse nelle canzoni di Carboni il mare è sempre un luogo irraggiungibile: smette di essere uno spazio reale per diventare un “discorso”, la cui sintassi viene smontata e ricomposta per metterne in risalto la natura mitologica.

Rimini, Riccione, Cattolica ecc. a partire dagli anni settanta sono i luoghi per eccellenza dell’evasione estiva, del riposo dall’anno di lavoro ma anche – sempre di più – del divertimento serale, di una vita notturna libera e trasgressiva, ambita dai giovani di tutta Italia. Da meta turistica privilegiata della classe operaia del Nord, da semplice località di mare che risponde all’esigenza materiale di interruzione del lavoro, la Riviera diventa lo scenario dove si materializza l’immaginario estivo degli italiani: una cornice simbolica di riscatto e benessere collettivo, che sottintende l’unità armonica del corpo sociale e maschera la sua articolazione in classi distinte. Naturalmente Rimini, Riccione ecc. restano prevalentemente mete di turismo popolare, meta di quei turisti che in Rimini di Pier Vittorio Tondelli leggono la Pagina dell’Adriatico: “un pubblico popolare, il cosiddetto pubblico famigliare, quello, tanto per fare un esempio, della vacanza tutto compreso in pensione (…) quello con la “moglie in vacanza” e il capofamiglia che fa la spola, ogni week-end”. La rappresentazione dell’esperienza della vacanza in Romagna però cambia volto, pur restando invariata la composizione sociale dei turisti. La riviera romagnola, sempre secondo Tondelli, è un luogo pervaso dal linguaggio del desiderio e dell’evasione: “ovunque suoni, musiche, luci, insegne sofisticatissime (…) scritte, slogan, figurazioni grafiche, labbra che sorridevano spargendo bollicine frizzanti, che succhiavano cannucce, gelati, bibite”. Insomma, Rimini diventa un campo semantico mitologico: “non è il Sunset Boulevard (…) l’importante è farlo però credere”.

Nel turismo italiano si verifica un processo di distinzione per certi versi simile a quello che si verifica nella canzone. I luoghi turistici organizzati secondo una rappresentazione dell’autenticità si rivolgono principalmente alla piccola e media borghesia, che cerca magia ed esotismo, oppure radici, tradizioni, folklore: un turismo che offra un’esperienza di forte protagonismo identitario. La riviera romagnola è invece il luogo per eccellenza del turismo di massa, del turismo di evasione, strutturato da un codice complementare al precedente. Se il primo genere di turismo si fonda sulla ricerca dell’individuale, del non-riproducibile, del “naturale”, dell’“autentico”, il turismo riminese è ricostruzione artificiale dell’elemento naturale (la piscina accanto al mare), replica massiva del lusso (gli alberghi, le stelle, le insegne che si susseguono a catena sul lungomare), rito collettivo (la corsa lungo la spiaggia, la vita notturna nelle discoteche). Una divertente rappresentazione di queste due distinte forme dell’offerta turistica, si trova in Rimini Ouagadougou di Lu Colombo:

Proprio io che son sopravvissuta a tristi tropici,

da turista mi ritrovo persa di un amore italiano.

Casa mia.

E proprio io, che ho masticato cento lingue esotiche,

spiccico sì e no sciocchezze innamorate sull’Adriatico.

Colpa tua.

(…)

E proprio io che son vissuta a maracuja e paprika,

guarda qua: granita al cocco, fritto misto, menù turistico.

La canzone è costruita sul confronto fra due identità, quella della viaggiatrice cosmopolita e quella del turismo massificato, che la protagonista si trova inaspettatamente a sperimentare, contro la sua vocazione per un viaggiare ricercato e avventuroso.

Il mutato paesaggio della Riviera genera sul versante culturale reazioni multiformi e contrastanti. E’ curioso osservare come il cinema, la letteratura e la canzone registrino con grande attenzione questo fenomeno, osservandolo da angolature prospettiche diverse. Basti pensare, appunto, alla Rimini di Pier Vittorio Tondelli o alle fotografie di Luigi Ghirri, che ritraggono le spiagge vuote, i luna park spenti, e così riportano gli oggetti al loro stato di puri significanti.

Anche il mondo della canzone, da sempre attratto dal mare e dalle spiagge, non manca di posare lo sguardo sulla Riviera romagnola. Il primo brano che viene in mente a tutti è forse la divertentissima Rimini Splash Down dei Righeira (colonna sonora del film Rimini, Rimini), probabilmente l’icona più famosa del mito riminese, che dipinge con geniale surrealismo l’atmosfera onirica di erotismo a cui è omai associata la città:

Eldorado, spiagge di birra,

abbronzati al suono dei juke-box,

sussurrando “Rimini auf Wiedersehen”.

(…)

Nei tuoi occhi mille scintille,

Tutta notte ballo insieme a te,

sussurrando “Rimini auf Wiedersehen”.

L’ingresso dell’Adriatico nell’immaginario della canzone d’autore risale però a qualche anno prima, con il brano di Fabrizio De André Rimini contenuto nell’omonimo album del 1978. La Rimini di De André (e di Massimo Bubola, coautore del testo) è avvolta in una fitta coltre di rimandi simbolici (Colombo, i pirati, l’Harry’s Bar, il porto di New York), attraverso cui De Andrè trasfigura la vita dei giovani in riviera, su cui il cantante posa uno sguardo cupo e disincantato. De André offre una narrazione drammatica della vita amorosa di “Rimini d’estate”: fra “i gelati e le bandiere” si consuma l’avventura amorosa (a dire il vero piuttosto stereotipata) fra Teresa, “figlia del droghiere”, e un affascinante bagnino, una storia che – quasi punendo la libertà sessuale della protagonista – si conclude in tragedia. Teresa resta incinta e sceglie di (o è indotta a) abortire. È una figura femminile rappresentata come vittima, dentro una visione tetra dell’amore estivo, visto come raggiro maschile ai danni di una povera ragazza. La promiscuità sessuale della vita giovanile riminese è giudicata da un punto di vista piuttosto conservatore, come riconosce del resto anche De André in un’intervista sull’album Rimini: “diciamo che questo è un disco fatto da piccolo-borghesi per piccolo-borghesi, anche se non è che io voglia coinvolgere in questa definizione Massimo Bubola che è troppo giovane per poterlo considerare inserito in questa classe o interclasse. Invece io da piccolo-borghese quale sono, mi è sembrato che (…) avesse tutti gli ingredienti per poter piacere alla classe piccolo-borghese”.[1]

Se De André è incline a un certo paternalismo gesuitico nei confronti della vita amorosa delle spiagge, la voce narrante delle canzoni di Carboni si colloca in una diversa prospettiva, più interna ed empatica rispetto al mondo che descrive. In Mare, mare il protagonista arriva in Riviera da Bologna, come uno straniero solitario, un po’ come il Paolo Conte di Una giornata al mare arriva nelle località di mare della Liguria. Carboni gioca abilmente con l’immaginario romantico evocato dalle città della Riviera: le spiagge affollate dalle ragazze, le notti estive con le loro promesse di avventura, un uomo che parte per un viaggio notturno in motocicletta per cercare una donna, che non troverà. L’epilogo della canzone è indimenticabile:

Ma son finito qui sul molo

a parlare all’infinito,

le ragazze che sghignazzano

e mi fan sentire solo.

Ma cosa son venuto a fare?

Ho già un sonno da morire.

Va beh, cameriere un altro caffè

per piacere

(Mare, mare)

Carboni ridisegna lo spazio ideologico occupato dalle sognanti estati di Rimini e Riccione e con ironia mette a nudo il fallimento esistenziale dei suoi protagonisti, le loro ferite, la loro solitudine. In Lungomare invece il cantante si colloca in una zona di silenzio, la sera a bordo spiaggia, guardando la vita svolgersi altrove “oltre le case” dove ci sono i neon, le pubblicità, i grafemi del mito balneare. La riviera guardata con lo sguardo malinconico di un pescatore.

Vile Maschio, dove vai?

Negli anni settanta e ottanta il processo di emancipazione femminile subisce un’importante accelerazione, sia sul piano materiale che su quello simbolico, e anche la canzone si affranca (anche se con fatica) dalle attribuzioni culturali dominanti relative al femminile e al maschile.

La cultura musicale degli anni settanta a dire il vero è ancora legata, in gran parte, alle vecchie categorie del maschio seduttore e della donna oggetto di contemplazione o di conquista. Basti pensare al grande successo dei Pooh Tanta voglia di lei, dove un uomo che “si sente sessualmente indispensabile alle donne che lo frequentano”, per usare l’epigrammatica definizione di Licia Bagini, rimbalza dal letto dell’amante a quello della moglie, attratto da un atavico istinto termodinamico (“chi ti scalderà?”); o alla Canzone del Sole di Battisti: al costituirsi di una libera e adulta soggettività femminile, la reazione maschile è di sgomento e di turbamento (“mi stai facendo paura”). La femminilità stilnovistica, “chiara e trasparente”, si rivela all’attonito protagonista un misterioso “mare nero”. Insomma, quello dell’Italia anni Settanta, per le donne, è ancora un paesaggio musicale che canta un amore di matrice asburgica: da Trieste in su.

Gli anni Ottanta segnano da questo punto di vista un momento di discontinuità. Questa cesura non è visibile solo nelle canzoni dove la soggettività femminile si racconta in modo del tutto nuovo, di cui esistono esempi straordinari, come il capolavoro del 1979 di Gianna Nannini, America, o Non sono una signora di Loredana Bertè, del 1982; ma si manifesta anche nelle modalità di costituzione del soggetto maschile e nell’erosione delle sue strutture tradizionali.

Quello che negli anni settanta era un implacabile seduttore, frastornato al limite da qualche senso di colpa, negli anni ottanta diventa un soggetto insicuro, autoironico, contraddittorio, emotivamente fragile. Questa tendenza non appartiene a tutta la produzione testuale della canzone Italiana: non dimentichiamo che è del 1981 quell’intramontabile capolavoro di bruttezza che è Teorema di Marco Ferradini. Questo percorso riguarda in realtà una ristretta frazione della canzone d’autore, che ha il suo centro di irradiazione proprio nella “scuola bolognese”. Disperato Erotico stomp di Lucio Dalla rappresenta in questo senso una rivoluzione copernicana in cui l’uomo, da ineffabile fecondatore nonché punto archimedeo della sessualità umana, si trova improvvisamente in un universo decentrato in cui pare destinato a dare il proprio sesso “al gabinetto”.

Vista da questa angolatura, l’opera di Carboni appare ricca di spunti interessanti. Amando le donne,  una delle tracce del suo album d’esordio, inizia con il sax di Domenico Sputo (alias Lucio Dalla) che introduce l’ascoltatore in un’atmosfera sognante ed eterea, ampliata ulteriormente dagli effetti “spaziali” che plasmano il suono della chitarra. La strofa, a discapito del titolo, non parla delle donne, ma racconta piuttosto la mitologia del seduttore, intento nella costruzione di un “piano perfetto”:

Amando le donne

C’è chi va piano nell’amore

Per dimostrare l’affetto

Magari rimane senza parole

Amando le donne

Ci si va incontro con un piano perfetto

Per dimostrare chi sei

O per finirci dritto dritto nel letto

Ancora più interessante è la bellissima Giovani disponibili. L’aspetto inedito di questo brano è che il maschio seduttore da “soggetto”, diventa “oggetto” della canzone. Carboni con abilità cinematografica sposta la macchina da presa sul backstage della seduzione maschile, denudata con ironia:

intanto Figaro ci taglia i capelli

e ci consiglia tagli corti

e la ginnastica correttiva

per non crescere storti

in mano guide alla seduzione

profumi sempre più forti

(…)

giovani disponibili

leccati come caramelle

tu ci scherzi ma se guardi bene

vedi che sono più di mille

hanno il coraggio di ondeggiare il sedere

come fossero loro le stelle

E andiamo avanti così,

colpiti da un “come va?”,

da un Dio che ci frega

la tranquillità

(Giovani disponibili)

Vieni a vivere con me, un brano del 1987, è la proiezione immaginaria di una vita di coppia, in cui finalmente il ruolo antropologico e sociale della donna cessa di essere quello di preparare il caffè la mattina (come nell’agghiacciante Sereno è di Drupi): qui troviamo la compagna del protagonista intenta a suonare Bach al pianoforte, mentre lui si riserva la prosastica funzione di spalmare la maionese su un panino (e successivamente, con improvvisa iniziativa gastronomico-erotica, sul collo di lei). Il rapporto di coppia è raccontato in modo atipico anche nella memorabile prima strofa di Ma che amore incredibile dove la frase da rotocalco introduce una storia d’amore che subito si colora di nero:

Ma che amore incredibile

Due anime, due anime nere

Quei capelli caduti, che schifo

Proprio dentro al bicchiere

Sono quelli di mia madre che vedi

Vedi, non smette di bere

(Ma che amore incredibile)

Alcuni brani di Carboni sembrano dei veri e propri attacchi frontali alla maschilità tradizionale e ai suoi attributi patriarcali (virilità, potere, astuzia, ecc.), senza che questa venga rappresentata all’interno di un rapporto di coppia. L’aspetto interessante non è qui la costruzione di una narrazione diversa dal solito del mondo femminile. Ciò che emerge è piuttosto che il maschio virile ed eterosessuale smette di essere un dato naturale e spontaneo a cui gli individui di sesso maschile non possono sottrarsi, per diventare una figura storica transitoria, a cui iniziano a contrapporsi immaginari di tipo diverso. In questa luce interpretiamo il brano Il Punto (nell’album Mondo, 1994)

Così tu fai molto più affari di me

E così tu sei molto più ricco di me

Più potente, più invidiato, più concentrato, più migliore

Ma fratello attento sai Il Punto qual è

è che sei padrone solamente di te

Ma fratello ascolta sto parlando con te

Non mi dire che questo è l’importante… e che è una gara

(…)

Lo so che sei molto più alto di me

Più smaliziato… più virile

Lo so che sai molte più cose di me

Lo so che sei tante più cose di me

Sei più potente, più invidiato, più concentrato, più laureato

(Il punto)

“Non è una gara”, così si chiude la canzone. Come a esortare gli uomini a non competere dentro una sfida frustrante costruita attorno a falsi miti. Leggiamo in questa chiave anche il pezzo più famoso di Carboni:

Ci vuole un fisico speciale

Per fare quello che ti pare

Perché di solito a nessuno

Vai bene così come sei

Tu che cercavi comprensione, sai, comprensione, sai

Ti trovi lì in competizione, sai, competizione, sai

Ci vuole un fisico bestiale

Per resistere agli urti della vita

Ma quel che leggi sul giornale

No no, e certe volte anche alla sfiga

Oh, ci vuole un fisico bestiale, sai, speciale, sai

Anche per bere e per fumare, sai, fumare, sai

(Ci vuole un fisico bestiale)

Ci vuole un fisico bestiale esce nel 1992, è una canzone di grandissimo successo, che a nostro parere corona l’operazione decostruttiva della virilità maschile condotta da Carboni e dal gruppo di cantautori a cui l’abbiamo accostato.

Ma gli stereotipi sono duri a morire e non sempre il percorso di liberazione dagli schemi costituiti si instrada su percorsi lineari e progressivi. La stagione di protagonismo della scuola bolognese è destinata a concludersi e forse il 1992, anno periodizzante per la recente storia italiana, lo è anche sul versante musicale. La canzone d’autore, sia nei suoi rappresentanti più eminenti che nelle nuove leve, fa fatica ad accettare la nuova configurazione sociale dei rapporti di genere, assumendo posizioni via via più conservatrici.

Sempre nel 1992 spopola Essere donna oggi, un brano di Elio e le storie tese in cui la parodia assume toni grevi e misogini: esibendo con orgoglio una granitica identità maschile (“ti sei accorta che io sono un ometto”) la canzone sbeffeggia la pretesa femminile di essere: “protagonista del tuo tempo, protagonista della tua sessualità”.

Nello stesso anno esce Voglio una donna di Roberto Vecchioni. L’intenzione del brano (come quello di Elio del resto) è probabilmente una critica alla “falsa emancipazione” femminile: “Quando cantavo Voglio una donna con la gonna molti non capivano che si trattava di una provocazione. Il senso di quella canzone era nel finale in cui dicevo che una donna deve rimanere tale e non scimmiottare i maschi”. Ma la linea di confine è sottile e il risultato sembra più che altro una brutta parodia, dove processi progressivi come l’ascesa sociale delle donne, la possibilità di accesso al mondo del lavoro, la possibilità di svincolarsi dalla funzione materna e dagli stereotipi di genere vengono derisi e dipinti come forme di devianza rispetto ad un’idealtipica femminilità da preservare dai terribili tempi moderni.


[1] Intervista di Roberto Manfredi a Fabrizio de André, 2 maggio 1978, Questo non è un mestiere serio, inedito pubblicato su VINILE.