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La vita dei giovani kosovari oltre confine, tra vecchie guerre e nazioni ancora da scrivere

Tramite le vicende di uno di loro, “La masnada delle aquile” di Riccardo Roschetti racconta la vita di un gruppo di minori non accompagnati in una comunità del Friuli-Venezia Giulia

Fra tutti i paradossi che ci possono essere nell’avere una cittadinanza che di fatto ancora non esiste, e un’identità tanto forte quanto costantemente non riconosciuta e negata, c’è quella di emozionarsi fino ad avere le vertigini e sentire il bisogno di chiamare casa, per riannodare fili e sfogare emozioni, dopo aver guardato una partita di calcio fra due nazionali dove nessuna delle due è la propria.

Eppure è così per 18 ragazzi kosovari di una comunità per minori non accompagnati di Basoviza, comune di Trieste, nel Friuli-Venezia Giulia situato appena al di qua de la frontiera con la Slovenia e, quindi, con tutto quello che era la ex federazione Jugoslava. Ce li racconta, anche febbricitanti di emozione ed eccitati da decine di energy drink davanti gli schermi che mostrano il match tra la Svizzera e la Serbia, Riccardo Roschetti nel suo La masnada delle aquile.

Il libro è edito dalla casa editrice Infinito, specializzata in reportage giornalistici. Roschetti è nato nel 1987 a Pordenone, non lontano dai luoghi raccontati nel libro, è di formazione antropologo ed è educatore, insegnante di lettere e di italiano come lingua seconda. Dal 2015 a oggi ha lavorato in almeno quattro diverse strutture di accoglienza per minori non accompagnati, noti con l’acronimo Msna, del Friuli. L’autore collabora inoltre con l’università di Udine per un progetto di mappatura dell’immigrazione minorile kosovara nella sua regione.

Se è legittimo immaginare che la mappatura dei giovani migranti sia costituita per lo più da numeri e dati, nel suo testo Roschetti sembra voler comunque definire una geografia, sia delle sue esperienze personali sia della migrazione dei minori kosovari, partendo però dalle esperienze, le memorie e le emozioni, dalla nostalgia e il senso di profonda comunione con i propri compagni di viaggio fino alla rabbia e al disgusto.

Per farlo Roschetti sceglie la strada del romanzo e costruisce un narratore mettendo insieme pezzi e caratteristiche dei giovani kosovari conosciuti nelle sue esperienze nelle comunità.

L’autore sceglie quindi un nome preciso e una persona precisa, Erion, «per un’istintiva tensione […] che mi sembrava incarnasse tutte le qualità migliori – e non – di un adolescente kosovaro», come riporta lui stesso nell’epilogo del libro, ma nel suo sguardo, nelle sue impressioni e nelle sue parole fa confluire i punti di vista di altri coetanei conosciuti nelle comunità, tutti a confronto con quella fase della vita che precede di poco l’ingresso nella maggiore età e anche, per un migrante non accompagnato, in un diverso status per le leggi del Paese di approdo.

La vita di Erion dice molto del Kosovo di oggi e della sua storia. È nato a Malinsheve, un piccolo paesino rurale perso tra le montagne, dove a farla da padrone sono l’allevamento e l’attività agricola, in un Kosovo altrimenti «fondato sul commercio di droga e armi» e con uno Stato «mafioso e criminale», come osserva a un certo punto Erion. Malisheve è però allo stesso tempo una città povera di possibilità, non come la capitale Pristina dove «se ti dai da fare puoi anche pagarti gli studi, pagarti l’università e persino andar a vivere da solo».

Il percorso di Erion passa anche attraverso il viaggio per arrivare in Unione Europa lungo le rotte balcaniche.

Foto dall’archivio DINAMOpress

Le criticità e gli abusi che si verificano lungo questo percorso, complicato e segnato dalle attività dei trafficanti come nelle vicende raccontate da Erion, sono tornate di attualità sui media italiani lo scorso dicembre con l’incendio che ha distrutto il campo profughi di Lipa, in Bosnia-Erzegovina, e poi con le denunce contro la polizia croata per le presunte pesanti violazioni dei diritti umani ai danni dei migranti al confine.

Non da ultimo poi, il mese scorso, il Tribunale di Roma ha definito illegittimi i respingimenti ordinati nel 2020 dal ministero degli Interni al confine tra Italia e Slovenia, la stessa frontiera che Erion attraversa nascosto nel bagagliaio di una macchina, dal quale fuoriesce una volta giunto a Trieste per poter «ricominciare e respirare non solo aria, ma nuova vita». Una nuova fase in Italia che un numero sempre maggiore di minori kosovari decide di intraprendere.

Nell’introduzione Roschetti definisce la migrazione dei giovani provenienti dal Paese «un fenomeno in crescita che non da segni di interruzione». Stando ai dati del report mensile sul tema pubblicato dal ministero del Lavoro, a dicembre 2020 gli Msna kosovari in Italia erano 163, circa il 2,3 per cento del totale.

L’anno di nascita del protagonista, il 1999, rappresenta poi una tappa fondamentale per il Kosovo e per i suoi abitanti. L’ultimo anno dello scorso millennio segna infatti la fine del conflitto con la Serbia cominciato nel 1998, subito dopo le altre guerre “fratricide” che avevano segnato il dissolversi della federazione jugoslava. Il termine delle ostilità viene accelerato anche dai bombardamenti della Nato su Belgrado e in un certo modo suggellato dall’ingresso nel Paese in pianta stabile della forza militare internazionale sempre a guida Nato nota come Forza per il mantenimento della pace in Kosovo (Kfor), ancora oggi presente nel Paese con circa 3400 unità, di cui molte italiane.

Foto dall’archivio DINAMOpress

Sono numerosi gli episodi del conflitto raccontati nel libro. A narrarli sono ovviamente ragazzi che non li hanno vissuti in prima persona e che eppure, afferma Roschetti, decidono di tramandare l’epica collettiva della guerra con una forza e un ardore che sorprende. Il culmine di questa condivisione di un destino collettivo come popolo e come nazione si tocca nel momento in cui, il 7 marzo, gli inquilini kosovari della comunità di Basoviza ricordano l’anniversario della morte del grand Comandant dell’Esercito di liberazione del Kosovo (noto con la sigla albanese Ushtria Çlirimtare e Kosovës e quindi l’acronimo Uck), Adem Jashari, trucidato nella sua abitazione nella città di Prezak dalle forze armate serbe insieme a tutta la sua famiglia nel 1998.

I ragazzi vengono descritti mentre si stringono in cerchio e, anche in assenza della «tavola carica di baklava e altri dolci e bibite gassate e i racconti di guerra dei più anziani» che sono solito accompagnare il rito in patria, cominciano a raccontare le violente ultime ore che portarono alla fine di Jahsari, eroe nazionale per albanesi e kosovari e terrorista per i serbi. L’episodio è permeato da un’atmosfera che sfiora la compartecipazione mistica, sia tra i partecipanti di questa liturgia nazionalista sia con le vicende raccontate e gli eroi che le animano, al punto che, non appena finiscono le parole del racconto e torna il silenzio, i ragazzi vengono immortalati da Roschetti mentre alzano il volume delle casse e ricominciano «a ballare senza dire una parola, leggeri come dervisci che volano verso Allah».

Intensità simile viene raggiunta solo davanti alla partita della Svizzera piena di campioni di origini kosovara, come Xherdan Shaqiri e Taulant Xhaka, che apre questo articolo.

Il messaggio che contiene questo passaggio è importante e riesce con efficacia a dare faccia e voce alle identità “liquide” come quelle del Kosovo, che ancora non possono forgiarsi in uno Stato che sia accettato da tutta la comunità internazionale (a oggi sono 96 i Paesi che riconoscono il Kosovo, tra i quali l’Italia, mentre all’appello mancano ancora, tra gli altri, la Serbia, ovviamente, l’alleato Russia, ma anche la Spagna, e la Cina) e che dispone di un passaporto che, come dice Erion, «è il più inutile della storia, non serve per viaggiare e devi negare di averlo».

Questo episodio fa luce anche sugli immaginari delle diaspore, che sempre di più si riconoscono in persone che ce “l’hanno fatta” nei Paesi di arrivo, proprio come Shaqiri e Xhaka, «due aquile shiqptari che, per un attimo, la durata di una partita di calcio, hanno riscritto la storia del nostro Paese», dice Erion, ma anche come la cantante britannica Dua Lipa, nata da genitori kosovari trasferiti in Inghilterra, che i giovani della comunità di Basoviza ascoltano con le cuffiette.

Significativo è poi il linguaggio impiegato da Roschetti, che ha utilizzato un italiano gergale intervallato spesso da espressioni in albanese.

La scelta linguistica rientra chiaramente nel contesto di una narrazione in prima persona dei ragazzi che ha molte qualità, prima fra tutte quella di dare da vigore al racconto e di renderlo credibile. Restano forse irrisolti però, nell’identificazione con il narratore, i nodi e le conflittualità del rapporto minore-operatore delle comunità, che sono una costante delle strutture e che si percepiscono solo marginalmente nei giudizi mai particolarmente positivi che i giovani riservano a personale del centro di Basoviza durante il racconto.

Foto da WikiCommons

Il libro di Roschetti è intenso e riporta con particolare attenzione il bagaglio emotivo dei ragazzi, quasi come se avesse risposto al bisogno dell’autore di dare voce a un mondo emotivo percepito come centrale ma spesso taciuto con i coetanei e anche con gli educatori. In mezzo, forse in maniera un po’ ambigua, fanno capolino anche i “classici” stereotipi sui giovani di origine balcanica, dalla propensione alla violenza a una visione ancora molto patriarcale della donna e anzi su alcuni, anche i più scomodi, si indugia in modo particolare.

Tanto che a un certo punto Erion si rivolge a un ipotetico Matteo Salvini, assecondando una delle sue accuse più comuni ai migranti e confermando che sì, «è proprio così: veniamo qui per farci curare gratis». Non è chiaro se Roschetti voglia forzare i luoghi comuni sui giovani balcanici fino a svelarne una presunta inconsistenza, o riporti semplicemente stralci di conversazioni reali senza però curarsi di mettere in luce le loro implicazioni politiche.

Anche l’aderenza al mito della nazione kosovara e a quello della guerra contro i “nemici” serbi non sembra traballare mai nei giovani della comunità di Basoviza. Il Kosovo di oggi sembra invece più indeciso e complesso.

Le elezioni parlamentari che si sono tenute il mese scorso, a soli tre giorni dal 13esimo anniversario dell’indipendenza che si è celebrato il 17 febbraio, hanno visto la vittoria del partito nazionalista di sinistra per l’autodeterminazione, il Vetevendosje! (Lvv) dell’ex premier Albin Kurti, che si è presentato in alleanza con la attuale presidente ad interim del Paese, Vjosa Osmani, indipendente. Il voto, il sesto in dodici anni, è stato descritto da molti analisti come un’espressione di rifiuto dell’élite bellica, rappresentata dall’ex presidente e ed ex dirigente dell’Uck, Hashim Thaçi, incriminato a giugno per crimini di guerra durante il conflitto con la Serbia dal tribunale speciale per il Kosovo a L’Aia, nei Paesi Bassi.

In realtà però, per Kurti, le mediazioni sotto egida dell’Unione Europea iniziate con Belgrado nel 2013 non sembrano essere una priorità e sono state solo un aspetto marginale della sua campagna elettorale. Il futuro del Kosovo post-bellico sembra ancora molto incerto quindi, come osserva nell’introduzione anche Roschetti.

Resta ancora da scrivere quindi, viene da pensare, la sorte dell’hora, il serpente «padrone della vita e della morte di chi ci abita», che «bisogna rispettare e non uccidere mai», protagonista di una vecchia storia albanese che Erion definisce all’inizio del romanzo «una metafora della storia del Kosovo», ucciso «da un nemico esterno, forse i serbi, o dai noi stessi».

Foto di copertina di Vegim Zhitija da Flickr