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ITALIA

La traiettoria internazionale del 41-bis: perché non è un problema solo italiano

In un momento in cui il 41-bis mostra delle crepe, il dibattito italiano ignora la dimensione internazionale dell’isolamento in carcere e la sua diffusione. Invece, la portata internazionale della misura è importante per capirla, e soprattutto superarla

Negli ultimi mesi, la vicenda di Alfredo Cospito ha aperto una crisi nella retorica giustizialista e securitaria che da sempre sostiene il 41-bis come una misura essenziale dell’ordinamento penitenziario. Nei suoi trent’anni di vita il 41-bis ha conosciuto un’ascesa irresistibile. Come è noto, venne introdotto come una misura temporanea ed eccezionale per poi essere via via normalizzato come regime differenziato dell’ordinamento penitenziario. Da allora, è uscito pressoché indenne dai giudizi tanto della Corte costituzionale quanto della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed è stato via via indurito, rendendo sempre meno credibile la tesi che lo vorrebbe come strumento puramente preventivo e non afflittivo.

La scelta di detenere Cospito in 41-bis era un passo ulteriore lungo questa traiettoria, segnando un nuovo precedente: mandare al 41-bis un anarchico.

Questa scelta è significativa perché conferma l’esistenza di una volontà di estendere la misura a movimenti politici conflittuali, come già avvenuto per i prigionieri delle BR-PCC, e perché estendere il 41-bis a un anarchico è un evidente forzatura, laddove un anarchico per ovvi motivi ideologici e politici non può rivestire quel ruolo dirigenziale e gerarchico che è richiesto per l’applicazione della norma.

Cospito non è un capo, e neppure appartiene a una “organizzazione” definita secondo i parametri normativi del 41-bis. La scelta di forzare la misura in tal senso testimonia il senso di invincibilità avvertito da governo, DAP, e magistratura. Ma quest’ultimo passo è stato fatale. Da un lato, con il suo sciopero Cospito ha chiarito che al 41-bis lui non ci rimarrà: a governo e magistratura rimane solo la scelta di come gestire il rifiuto, se revocare la misura o lasciare che muoia. In ogni caso, l’estensione del 41-bis agli anarchici per ora è fallita. Secondo, Cospito è riuscito dove altri non erano arrivati: aprire una crepa nella corazza del 41-bis, cambiare il modo in cui si parla di 41-bis in Italia. Comunque la si guardi, lo Stato ha già perso questa battaglia, e il problema ora è come gestirà la sconfitta.

Questo articolo si interroga su una dimensione essenziale di questa misura, ma assente nell’attuale dibattito e discussione sul 41bis: la sua diffusione internazionale. Ci si sta infatti limitando a una lettura nazionale, che ignora come la diffusione del carcere a “regimi differenziati” in Italia sia coerente con il processo di globalizzazione delle carceri degli ultimi 30/40 anni. In questo processo, l’isolamento come regime specifico non è un’esclusiva italiana. Questo non significa che le letture critiche maturate in Italia siano sbagliate. Le tesi che ragionano sul 41-bis come la normalizzazione di un’eccezione, o attraverso il paradigma del diritto penale del nemico, sono corrette e condivisibili. Piuttosto, si tratta di allargare lo sguardo per capire come le specifiche del caso italiano siano coerenti con movimenti su scala maggiore.

Questo è utile per due motivi, resi più urgenti dalla situazione attuale. Primo, la politica e la magistratura italiane presentano il 41-bis come una soluzione eccezionale a un problema italiano: in questo senso, legano la necessità della misura alle condizioni specifiche del paese. Questa tesi va in crisi se si evidenzia la scala internazionale del fenomeno: se la misura è giustificata dall’unicità della situazione italiana, come mai l’Italia la adotta sull’esempio di altri paesi? Secondo, se il 41-bis è vivo e vegeto, in altri paesi l’isolamento mostra crepe significative. Nel paese che più l’ha diffuso e normalizzato, gli Stati Uniti, è entrato in crisi. Dunque, l’Italia si trova più sola. L’esistenza di questa divergenza va capita e ripetuta, anche solo per colpire l’immaginario e indebolire la percezione che il 41-bis sia invincibile. Invece lo si può sconfiggere, e non bisogna cadere nella trappola di considerarne utopico il superamento.

Il nuovo carcere dei regimi differenziati

In ciò che segue si analizzeranno alcuni aspetti del sistema carcerario statunitense, laddove gli Stati Uniti sono il paese che più di tutti ha sviluppato e diffuso l’isolamento come regime carcerario. Questo non significa adottare una visione semplicistica, in cui gli USA decidono e gli altri eseguono. Il punto però è che la convergenza intorno all’isolamento non avviene in un confronto tra pari. È invece un processo di diffusione in cui, seppure nessuno sia semplice recettore passivo, alcuni paesi hanno un ruolo egemone. Il paese più egemone sono proprio gli Stati Uniti, che anticipano gli altri su una serie di questioni cruciali.

Ciò che si diffonde internazionalmente tra gli anni ’80 e ’90 non è semplicemente l’isolamento, ma un modello di carcere specifico. Per comodità, ci riferiremo a questo carcere con il termine italiano associatogli: carcere dei regimi differenziati. Si tratta di un modello di carcere orientato a separare e classificare la popolazione detenuta, così da distribuirla in carceri o sezioni dove il regime sia coerente con le specificità, incluso il grado di pericolosità, rappresentato dalla classe di detenuti a cui si rivolge. È il modello diffuso nella maggior parte dei paesi occidentali, ma non solo. Pure in America Latina, dagli anni ’90 si assiste all’affermazione dei regimi differenziati, che sono diventati dominanti in diversi paesi, su tutti Messico e Colombia.

Se assistiamo a una globalizzazione delle carceri, si badi, non è per via di una cospirazione. Il carcere si omogeneizza in un contesto di globalizzazione più ampio, che porta diversi paesi ad affrontare problemi simili.

Nello specifico, tra gli anni ’60 e ’70 sia gli USA che l’Italia, ma anche Regno Unito e Germania, affrontano il problema della politicizzazione dei detenuti e il trasferimento della lotta e violenza politica dentro i penitenziari.

Questa diffusione internazionale precede quella della repressione, e i prigionieri ne sono consapevoli. Un caso su tutti è quello dei Nuclei Armati Proletari (NAP) in Italia, il primo movimento comunista focalizzato sulla questione carceri. Non è un caso che una delle esperienze che precedono e si fonderanno nei NAP sia il Collettivo George Jackson, che prende il nome di un militante delle Pantere Nere dall’importanza centrale per la diffusione dell’isolamento nel sistema carcerario della California.

George Jackson è una figura dai caratteri ormai mitici, completamente dimenticata nell’opinione pubblica statunitense ma ricordata con devozione dentro le “gang” afroamericane nelle carceri californiane e con terrore dal Dipartimento Penitenziario (DOC) dello stesso stato. A lui si deve in gran parte il trasferimento del movimento delle Pantere Nere dentro le carceri negli anni ‘60, che coincide con l’innalzamento di uno scontro tra detenuti neri e guardie che mette in crisi l’autorità di queste ultime. Il passaggio traumatico sta nel salto in cui le guardie, prima circondate da un’assoluta immunità dalla violenza, cominciano a essere colpite secondo una strategia in cui a ogni violenza e provocazione si risponde nella stessa misura.

Questo fenomeno nasce in California ma si diffonderà in altri stati, e pure nel circuito delle carceri federali. I dipartimenti penitenziari reagiscono incrementando repressione e violenza, e cercando alleanze con gruppi di detenuti bianchi di cui poi perderanno eventualmente il controllo. Anche dopo la sconfitta dei movimenti neri, le “gang” sopravvivono nel contesto carcerario e continueranno a usare la violenza per gestire rapporti tra detenuti e tra questi ultimi e l’autorità. Tra gli anni ’70 e ’80, la violenza di entrambe le parti trasforma le carceri statunitensi in mattatoi. Il sistema va definitivamente in crisi con l’esplosione dell’“incarcerazione di massa” tra gli anni ’80 e ’90, in cui gli USA costruiscono il più grande sistema carcerario del mondo, con una popolazione carceraria che in un ventennio arriva a sfiorare i due milioni.

L’incremento della popolazione peggiora la violenza, rafforza le gang fuori e dentro il carcere e incoraggia soluzioni estreme per permettere il controllo di un sistema pronto a esplodere.

Pelican Bay

L’isolamento, o “solitary confinement”, è un’idea che nasce nel dipartimento penitenziario della California, lo stato con il più alto numero di detenuti, e il pioniere di un nuovo regime che da lì a poco si diffonderà in tutto il paese. Nel 1989, il DOC californiano fa il salto costruendo una nuova prigione di massima sicurezza in un’area rurale a 700km nord di San Francisco, la prigione di Pelican Bay. È una strategia già adottata dall’Italia con “le speciali”, o dal Regno Unito con il carcere “Maze” o “H-Blocks” presso Belfast. Ma Pelican Bay è anche molto di più: una struttura architettonica tesa ad annichilire il detenuto e a rendere assolutamente impossibile qualsiasi forma di rivolta. E non è pensata come soluzione temporanea o eccezionale. L’obiettivo è normalizzare queste carceri così da ristrutturare l’intero sistema penitenziario all’insegna della differenziazione dei regimi.

Per sintetizzare, sono tre le caratteristiche che rendono Pelican Bay pioniere del processo di diffusione internazionale che qui ci interessa. Primo, Pelican Bay è pensata, costruita e gestita autonomamente dal DOC: il parlamento californiano si limitò ad approvare il suo budget. Questo implica che il nuovo carcere si forma su un monopolio pressoché assoluto del potere amministrativo, riducendo al minimo gli interventi legislativi o giudiziari. È “l’amministrativizzazione” del carcere, che è fenomeno pure italiano, e centrale nello sviluppo e gestione del 41-bis e dei circuiti di Alta Sicurezza.

Secondo, le nuove carceri sono collocate in aree rurali tese a incrementarne l’isolamento.
Terzo, e soprattutto, dal solitary confinement si esce solo in un modo: attraverso il “debriefing”, dicono le autorità, o “snitching” come lo chiamano i detenuti. In italiano, “collaborare”. Il detenuto in regime di solitary non potrà uscire finché non farà il nome di un altro presunto membro di una gang. Quando succede, il delatore viene trasferito nella sezione dei detenuti sotto protezione, e il prigioniero di cui ha fatto il nome prenderà il suo posto. La spinta per collaborare la dà il regime di solitary: 23 ore in cella singola, 1 ora d’aria al giorno, da soli, in un corridoio in cemento. A Pelican Bay, come nel carcere di Bancali, a Sassari, tutto rigorosamente sottoterra.

Le affinità col 41-bis sono evidenti. In entrambi i casi si tratta di una strategia tesa a spezzare legami dentro e fuori dal carcere, ma pure e soprattutto il tentativo di piegare l’individuo e portarlo alla delazione attraverso un regime afflittivo estremo: di fatto, una tortura.

Che sia una tortura appare innegabile a chiunque abbia occhi, persino al legislatore italiano che nello scrivere la legge contro la tortura del 2017 ha visto bene di sottolineare che la norma «non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti».
Negli Stati Uniti poi il regime è diventato così popolare da permetterne uno sviluppo impressionante, oltre il suo obbiettivo. Si stima che siano 80.000 i detenuti statunitensi in isolamento.

Questa breve disamina non vuole e non può essere comprensiva: è invece funzionale a far emergere continuità che evidenzino la portata internazionale del fenomeno.
Il solitary è nato contro la violenza politica e i movimenti sociali ed è cresciuto dopo la loro sconfitta per via dell’assenza di una forza capace di arrestarlo. In questa crescita, è divenuto parte integrante del nuovo carcere. Ma un’altra continuità è la crisi in cui sta entrando, in primo luogo negli Stati Uniti. Da un lato, la pratica è stata oggetto di critiche da posizioni umanitarie che hanno reso popolari le strategie tese a ridurla e idealmente superarla. Dall’altra c’è la lotta dei detenuti, e anche qui Pelican Bay è pioniere.

Nel 2013 i detenuti di Pelican Bay hanno iniziato uno sciopero della fame collettivo, a cui hanno aderito migliaia di prigionieri in diverse carceri in solidarietà. Lo sciopero si è interrotto con una negoziazione che ha irrobustito il controllo giudiziario sul processo di ingresso e uscita dall’isolamento (qui un video della testimonianza dei detenuti ispiratori della protesta). Una goccia nell’oceano certo, ma da una prospettiva storica il solitary ha terminato la sua crescita e iniziato una parabola discendente.

In Italia, le circostanze attuali e lo scontro intorno alla detenzione di Alfredo Cospito potrebbero segnalare la stessa traiettoria. Sembra essersi aperta una crepa in un’armatura che fino a ieri pareva infrangibile e si stanno aprendo spazi per parlare di 41-bis in senso critico, senza l’isteria securitaria e giustizialista che ne hanno caratterizzato l’ascesa.

Ora si tratta di aprire questa crepa sempre di più, e di pensare al superamento del 41-bis come un obiettivo reale e possibile per il futuro più prossimo.

Immagine di copertina da Openverse di Clarita82, Asinara