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La torbida logica aberrante di Deleuze

Contro il buon senso filosofico che lo vorrebbe rinchiudere nella dicotomia dell’immanenza del vitalismo gioioso o della distruttività del negativo, il pensiero di Gilles Deleuze riletto da “I movimenti aberranti” di David Lapoujade, da poco pubblicato da Mimesis, è un pensiero che segue una logica irrazionale di movimenti aberranti dove l’Essere si distribuisce in uno spazio aperto, illimitato, senza gerarchia di principio né ritaglio territoriale

Quella è la Cicatrice. Un’incrinatura.

Brulicante dei modi in cui le cose non erano e non sono ma potrebbero essere.

China Miéville, La città delle navi

 

Pur essendo tutt’altro che secondaria o accessoria, una caratteristica del pensiero deleuziano si è andata progressivamente invisibilizzando: l’importanza ontologica e politica assegnata dal filosofo francese alla potenza del negativo. Sepolta sotto strati di vitalismo gioioso e di immanenza monista a-cosmica, nonostante le passeggiate schizo e un’evidente tendenza alla deterritorializzazione delirante, la corrente distruttrice del pensiero di Deleuze, capace di sfigurare il mondo, con i suoi continenti, tribù, razze e specie, è stata occultata dagli occhi pudici e addomesticati dei suoi epigoni. Reciso prematuramente dal suo contesto storico, un secolo francese in cui i migliori filosofi seguivano, senza troppe remore, i miasmi del razionalismo omnicida sadiano o del proto-surrealismo acido del Conte di Lautréamont e i migliori letterati si davano come candida massima programmatica: «L’origine stessa dell’intero sistema letterario deve essere attaccata» (Pierre Guyotat, Cabinets, 1985), Deleuze sembra essere stato imbalsamato dai suoi stessi eredi, dopo essere caduto vittima di un parricidio da parte di un’orda di fratellini edipici che lo ha trasformato in un’immaginetta tanto esangue quanto miracolosa, dal momento che pare in grado di offrire loro la formula magica per poter affrontare in modo semplice problemi (sempre più) complessi.

Se i luoghi in cui Deleuze esprime la sua potenza negativa non sono pochi e neppure rappresentano qualcosa di posticcio, resta comunque difficile accogliere la visione diametralmente opposta a quella appena descritta, visione secondo cui il suo pensiero si ridurrebbe, solo ed esclusivamente, alla componente distruttiva. Pur avendo avuto il merito di scoprire il lato in ombra che percorre l’opera del filosofo francese, un’interpretazione di questo tenore (come è il caso di Dark Deleuze di Andrew Culp) rischia, infatti, di trasformarlo in un’icona demoniaca altrettanto poco attraente dell’immaginetta della versione che va per la maggiore.

 

Ecco il punto: non intendiamo sostenere che il pensiero di Deleuze sia solo affermazione o solo negazione; intendiamo sostenere che in Deleuze affermazione e negazione si co-implicano, si perplicano vicendevolmente, sono aggrovigliate in modo inestricabile, si materializzano assieme attraverso la stessa distanza che le separa.

 

Consideriamo, per esempio, il saggio che, a buon diritto, può essere ritenuto il primo esemplare adulto del suo anti/sistema, il primo innesto compiuto della sua filosofia nel ventre della Terra, Nietzsche e la filosofia. Nel primo capitolo (capitolo, peraltro, dedicato alla tragedia, intesa, non a caso, come sinonimo di gioia), Deleuze sostiene, senza mezzi termini, l’incandescente necessità metodologica della distruzione (e non della più timida e morigerata decostruzione) per potere dare corpo a un pensiero e a una politica affermativi: «La critica non è re-azione del ri-sentimento, bensì l’espressione attiva di un modo attivo di esistere: attacco e non vendetta, aggressività naturale di un modo di essere, malvagità divina senza la quale non si potrebbe immaginare la perfezione». E il mostro policefalo Nietzsche-Deleuze si attende molto «da questa concezione della genealogia»: «una nuova organizzazione delle scienze, una nuova organizzazione della filosofia, una determinazione di valori per il futuro» (Nietzsche e la filosofia, Einaudi 2002, pp. 5-6). Contro ogni sublimazione e pacificazione dell’atto traumatico e sconvolgente del pensare e dell’impegno a trasformare il mondo, e lontano dall’irenismo anemico dei suoi epigoni, Deleuze propone una filosofia in grado di demolire l’esistente al fine di poterlo ripopolare con nuove creature concettuali, percettive e affettive. La filosofia per Deleuze è una serie di vibranti colpi di martello assestati contro le strutture ossificate e oppressive di un mondo-katechon che, con la sua “benevola violenza paternalista”, frena l’a-venire affermativo di un popolo che ancora non esiste, ma che proprio le sue potenti martellate vanno a istituire après coup.

Una volta rimosso lo stucco del perbenismo anestetizzante post-deleuziano, non è difficile riconoscere, in tutta la produzione di Deleuze e in ciascun suo tratto (omnes et singulatim), i fremiti della potenza negativa/affermativa che spezza la presunta placidità dello scorrere del presente. Un nichilismo attivo attraversa, infatti, tutte le epoche/strati/pieghe della sua produzione, incurante della forma che questa di volta in volta assume e degli aiutanti/intercessori (da Guattari a Parnet, da Spinoza a Bergson, da Kafka a Melville, da Straub e Huillet ad Artaud) con cui Deleuze si è andato intessendo – o, come amava dire, che ha assaltato alle spalle – per produrre unioni mostruose e matrimoni contronatura.

A partire da Differenza e ripetizione, in cui afferma programmaticamente: «Ciò che è primo nel pensiero, è l’effrazione, la violenza, il nemico, e nulla presuppone la filosofia, tutto muove da una misosofia. Non si può contare sul pensiero per instillarvi la necessità relativa di ciò che pensa, ma viceversa sulla contingenza di un incontro con ciò che costringe a pensare» (Il Mulino 1971, p. 227). Il pensiero, cioè, è costrizione che si materializza e si fa produttiva in un’atmosfera di inimicizia anti-dialettica – fredda e crudele.

E lo stesso vale per Logica del senso che, con il passo weird ed eerie regolato dalla sintesi disgiuntiva, fa coincidere il pensare con la creazione di paradossi che aprono vuoti dentro il tessuto della realtà che, in tal modo, esce da uno stato di quiete post mortem. E via di questo passo, attraverso L’anti-Edipo, segnato dal prorompente “anti” che campeggia fin dal titolo, per arrivare a Mille piani, attraversato da una linea inorganica e psichedelica che fa proliferare i vettori inumani che lo innervano (le velocità cognitive di Michaux, le marionette d’ametista di Kleist, i fantasmatici dispotismi orientali, le marce infinite delle macchine da guerra ecc.) e che si concretizzano nel divenire animale come divenire impercettibile, figura non/rappresentativa e non/metaforica della necessità di destituire l’esistente per poter dare spazio a «una vita […] neutra», impersonale e transpersonale, dell’ultimo suo saggio pubblicato nel 1995, l’anno della morte.

E, ancora, vale un discorso analogo per la disgiunzione incolmabile tra sonoro e visivo nel cinema, per le pieghe e le pieghe delle pieghe della materia, per i corpi senza organi, i cervelli senza corpo, le smorfie, le grida, i deserti, i verdeggiare e gli arrossire, i si muore, le lingue minori, i nomadi, gli animali demoniaci, il «versante oscuro e segreto» dell’evento (Che cos’è la filosofia?, Einaudi 1996, p.153). Tanto che, se dovessimo suggerire una formula per questo protratto e sistematico flirt di Deleuze con ciò che destabilizza fino al cedimento rigenerativo il buon senso filosofico e il buon senso comune, dovremmo ricorrere a un altro concetto “negativo/attivo” che il filosofo francese ha ampiamente esplorato: il Fuori, l’estimo per ricorrere a un’invenzione verbale di Lacan, che è irrimediabilmente esterno in quanto già-dentro e intimamente interno in quanto sempre-fuori, quella piega dei dispositivi e delle pratiche di soggettivazione che corrono lungo linee di alienazione produttiva che Deleuze rintraccia in particolar modo nell’ultima fase della riflessione dell’amico Foucault.

 

A questo punto, però, ci si para di fronte una serie di domande ineludibili: come accettare la sfida di questo pensiero e rendere interminabili i ritornelli di Deleuze? Come è possibile continuare a filosofare con il martello insieme a un popolo e a una comunità che ancora non esistono pur essendo già-qui? Come inscrivere nell’esistenza e nella politica i bordi oscuri di un pensiero incalzantemente desiderante? O, in altre parole, come è possibile divenire eredi del pensiero di Deleuze?

 

Tralasciando lo stato agonizzante in cui versa la critica deleuziana á la page, spesso indistinguibile dal pensiero liberal più “creativo” ed edulcorato, le risposte potrebbero nominare molte autrici e molti autori che, dopo e attraverso Deleuze, hanno stravolto il presente per poterlo interpretare e individuare, tra le sue faglie, possibili linee di fuga intensiva: la storia non-lineare e l’archeologia dell’intelligenza preterumana dell’inorganico di Manuel De Landa; la guerriglia sonora di Steve Goodman (in arte Kode9) con la sua Hyperdub; il futurismo storiografico di straordinaria potenza di Anna Greenspan e Sadie Plant; l’assalto feroce troppo precocemente soffocato di Nick Land; l’entomologia speculativa di Christian Kerslake; la ricostruzione filologica di Jon Roffe…

A nostro avviso, però, un’attenzione particolare va accordata a un volume, recentemente pubblicato in italiano a cura di Claudio D’Aurizio per i tipi di Mimesis come prima uscita di una collana emblematicamente intitolata Le dehors, volume che costituisce una vera e propria eccezione nella bibliografia secondaria deleuziana, un bagliore raro che spezza il deprimente grigiore accademico. Stiamo parlando di I movimenti aberranti di David Lapoujade, allievo e raffinato conoscitore di Deleuze. I motivi per cui il saggio di Lapoujade rappresenta una pietra miliare dell’esegesi deleuziana sono almeno due.

Il primo: la prosa. Se molti testi accademici o para-accademici su Deleuze si abbandonano alla sterilità dei tecnicismi oppure a snobismi stilistici da torre d’avorio, il saggio di Lapoujade mantiene una musicalità impareggiabile (che la traduzione italiana è riuscita a restituire con grande perizia). La complessità concettuale dell’enunciato non ammutolisce mai la bellezza dell’enunciazione, il godimento significante che emana dal fraseggio dell’autore. Anche nei passaggi più impervi il libro non abdica mai alla volontà di ammaliare chi legge, di districare il discorso senza banalizzalo, di immergerci in uno stato di meraviglia e spaesamento, di accompagnarci dentro la Wunderkammer in cui sono collezionate le parole e le cose – entrambe favolose – dello sciamano Deleuze.

Il secondo: l’intenso sforzo teorico. Persuaso, come noi, che quel campo di forze che è il pensiero di Deleuze sia attraversato (anche) dalla potenza negativa, Lapaoujade si impegna a diagrammarne l’(il)logica strutturale. «Bisogna disfarsi dell’idea secondo cui Deleuze non avrebbe fatto altro che cantare l’affermazione gioiosa delle forze della vita» (p. 28). «Il suo pensiero non è una filosofia dell’evento, né una filosofia dell’immanenza, né tantomeno un’ontologia dei flussi o del virtuale» (p. 15). «Perché ciò che attira Deleuze è soprattutto la logica […]. Deleuze è innanzitutto un logico e tutti i suoi libri sono delle “logiche”» (p. 17). Attenzione, però, «logico non vuol dire razionale», anzi per Deleuze «un movimento è tanto più logico quanto più sfugge a ogni razionalità» (p. 19). In breve, «il vitalismo di Deleuze è più torbido, più indeciso di quanto non si dica solitamente» (p. 27).

 

A partire da qui l’erede – per contagio, non per filiazione – cerca di disegnare una mappa multi-planare della “torbida logica” deleuziana che infesta il reale e il pensiero, di tracciare una mappa guidata dalla domanda “quid juris?” – quale logica presiede al concatenamento dei concetti che fanno la filosofia deleuziana? Perché, pur nella perversione del disegno, si può andare solo da qui a lì, se si intende davvero seguire i passi di Deleuze? Insomma, che cosà può un corpus (il)logico?

 

Sostenendo la forza esercitata da una filosofia che non solo abbraccia, ma che rende i suoi limiti, le sue ombre, il suo zizzagare, il suo balbettare, parte integrale del proprio incedere, Lapoujade prova a rendere giustizia – facendola finita con il giudizio – alla complessità della riflessione di Deleuze. Il saggio si mette così sulle sue tracce, partendo dalla distruzione/ricostruzione del fondamento, per condurci, tramite l’incessante ripetersi del “quid juris?”, fino a ridosso della soglia etico-politica regolata dal “quid vitae?”. Non potendo seguire passo dopo passo le trame che uniscono indissolubilmente ontologia e politica in Deleuze e che Lapoujade ricostruisce con impareggiabile sapienza, in questa sede ci limiteremo a delineare il punto da cui parte l’inseguimento: la questione del fondamento (o della Terra). In questa presunta origine – presunta perché già densa di differenze e ripetizioni – Deleuze mostra più che altrove la natura anfibia che rende così affascinanti le sue movenze concettuali. Il filosofo francese non si limita, infatti, a sostenere «la dissipazione di ogni fondamento», per poi mettersi come tanti (Heidegger in primis) a «risalire al di là di ogni fondamento razionale, in direzione del “senza-fondo”» (p. 39) al fine di «approdare a un fondamento ultimo o ulteriore» (p. 41). Il movimento di Deleuze è, ontologicamente ed etimologicamente, perverso poiché intende «portare in superficie il senza-fondo che gronda sotto il fondamento» al fine di rendere possibile «la produzione di nuove superfici» (p. 41).

Va notato, tuttavia, che «il fondamento non fornisce una terra al pensiero senza determinare simultaneamente il principio secondo cui tale terra deve distribuirsi» (p. 36). Pertanto, come sostiene Lapoujade, il filosofo deve farsi «“geografo” della ragione», deve saper «spostare i limiti» e questo «significa instaurare un nuovo diritto, decidere su una nuova ripartizione del legittimo e dell’illegittimo» (p. 299). O meglio ancora: trasformare il limite da «muro separatore» a «membrana» o «filtro» (p. 303) che non cessa di rimanere in contatto con il Fuori e le sue «popolazioni dell’inconoscibile, del non-senso, dell’indicibile, dell’invivibile, del sub-rappresentativo» (p. 300).

Per trasformare il limite, Lapoujade afferma il primato di due movimenti che percorrono da cima a fondo l’opera di Deleuze: quelli aberranti che comportano una deviazione dalla norma, dalla normalità e dalla legge e – ammesso che si possano dividere con questa nettezza – quelli della fedeltà (nietzschiana) alla Terra, intesa non come fondamento identitario, aspetto questo quanto mai in voga nell’attuale panorama politico nazionale e internazionale, ma appunto come superficiale fondo senza-fondo, produttivo al di là di ogni riterritorializzazione reazionaria. Un ritorno a una Terra che non è mai terraferma, bensì vertiginosa ondulazione di superfici d’acqua, di sabbia, di erba, di steppa.

 

I movimenti aberranti incarnano – in senso soggettivo e oggettivo – la rivoluzione copernicana operata dal pensiero di Deleuze. Lapoujade sostiene, infatti, che l’interminabile vitalità di Deleuze deriva proprio dall’aver dato, per la prima volta nella storia del canone occidentale, così tanta potenza, intensità e forza ai movimenti aberranti – ontologici, storici, sociali, politici, etici, psichici, e così via –, a ciò che devia dal perimetro di ciò che è standard, di quanto è naturalizzato ex lege come normale. Ecco il concatenamento che fila dritto sulle latitudini e le longitudini della “superficie-Deleuze”: «Ciò che interessa Deleuze sono i movimenti aberranti» (p. 15), tanto che la sua filosofia «si presenta come una logica irrazionale dei movimenti aberranti» (p. 19), «un’enciclopedia dei movimenti aberranti» (p. 303), e «i movimenti aberranti costituiscono la più alta potenza dell’esistere» (p. 19), in quanto «ci strappano da noi stessi» (p. 28) fino a farci correre il rischio di tenere più all’impersonale che al personale della nostra vita, impersonale che ci «consente di raggiungere, di vedere, di creare, di sentire. La vita non vale più che alla sua punta estrema» (pp. 28-29). Per Lapoujade, insomma, l’aberrante è irriducibile a una sorta di pietismo ontologico e assiologico che vorrebbe restituire dignità al bizzarro e allo strano, a ciò che è sempre stato escluso dal pensiero luminoso e a norma della filosofia occidentale. Al contrario, i movimenti aberranti trasportano cosmo(il)logicamente verso un rigoroso disincanto dell’Essere, alla sua deantropizzazione per riterritorializzarlo (o deterritorializzarlo?) su un’in/sensatezza sensibile e con/sensuale. Per la “marca-Deleuze”, «l’Essere si distribuisce in uno spazio aperto, illimitato, senza gerarchia di principio né ritaglio territoriale. […] È la marcatura stessa dei movimenti aberranti: saltare come un demone al di là dei limiti che il giudizio assegna agli esseri» (ivi, p. 68). Il caosmo di Deleuze è in/umano e neutro ma non neutrale, è creazione di mostri finalmente affrancati da ogni ragionevolezza, ma non da ogni logica. «Il senza-fondo dell’Essere è incoerente, irrazionale, aberrante: è non-senso. Perciò c’è bisogno di una nuova logica del senso che possa dire il senso di questo non-senso» (p. 128).

È per questa ragione – e così veniamo al secondo movimento che Lapoujade rintraccia in Deleuze – che è richiesta una rinnovata fedeltà alla Terra. Il lavoro geografico di ridistribuzione della Terra, infatti, non può che essere aggrovigliato con una nuova visione di ciò che i corpi possono. Per Lapoujade e per Deleuze, pensare e agire sono azioni isomorfe, e tanto più il pensiero si fa estremo, tanto più siamo chiamati a rispondere con un’etica/politica parimenti eccessiva. Non a caso, Lapoujade, citando Critica e clinica, riconosce che «non basta voler ritornare a “un ‘pregiudicativo’ che sia al tempo stesso fondamento e orizzonte”, sulle terre pacifiche dell’originario; bisogna andare più lontano, risalire più in alto, verso un “anti-giudicativo, inteso allo stesso modo di Anticristo: non tanto un fondamento quanto un crollo, uno smottamento di terreno, una perdita d’orizzonte”» (p. 64). Davanti a questo esseremoto – per usare un termine di Timothy Morton – siamo chiamati a cambiare la nostra vita. Tenendo ben presente che, una volta assunta la prospettiva di Deleuze, è possibile rendere poroso il limite solo favorendo i flussi del «rivolgimento» ed evitando le secche del «rovescio» e dello «sconvolgimento»: trasformare il mondo non è «passare dall’altro lato» («rovesciare il platonismo»), ma «far comunicare ciò ch’è disparato» concatenarsi nel «non-rapporto che i disparati comunicano […] grazie al limite che li divide» («rivolgere gli imperialismi») (pp. 303-304).

Per non restare inermi di fronte alla crudeltà dell’esistente dobbiamo spogliarci delle ragioni chiare e distinte e lasciarci interpellare dal Fuori che è dentro la Terra, dalle sue fauci che si spalancano sotto di noi per far delirare il continente dell’umano. Il che «non significa abbandonare la terra occupata dagli uomini, ma, al contrario, strappare la terra agli uomini» e comprendere che «nello stesso tempo in cui la terra si svuota, si ripopola diversamente, con tutto ciò che c’è di non umano nell’uomo e fuori dell’uomo» (p. 286). Ciò che potrà correre lungo questo svuotamento/ripopolamento non è definibile a priori tranne che nella più potente (ed esaltante) delle singolarità della “fisica-Deleuze”: «Non viviamo in un mondo dove ogni azione politica è impossibile, viviamo in un mondo dove l’impossibile è la condizione di ogni azione, di ogni creazione di possibili» (p. 265). E «il punto di trasmutazione che ci libera dal nichilismo passivo» «è quando l’impossibile diviene l’intollerabile», quando ciò che «offende le potenze della vita», «le solleva» (p. 281). Con buona pace di apocalittici e integrati.