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La solitudine di The Chair

La nuova serie Netflix racconta il mondo isolato di un campus nordamericano dal punto di vista di una direttrice di dipartimento. Una rappresentazione che si concentra sul tema dell’isolamento, mancando parzialmente la posta in palio

Sin dalla prima sequenza di The Chair, sono gli oggetti a parlare ancor più dei personaggi e a denunciarne una doppia, ironica verità. Quando Ji-Yoon, appena nominata Chair, cioè direttrice del dipartimento d’inglese a Pembroke, entra per la prima volta nel suo ufficio, trova ad attenderla sulla scrivania un regalo, una targa che la definisce come “Fucker in charge of you fucking fucks” – la donna la legge ammirata e divertita e, dopo averla posata sulla scrivania. prende posto su quella poltrona che costituisce la metonimia del suo stesso incarico e, appena prova a rilassarsi, finisce a terra perché non si è resa conto della precaria stabilità di quella stessa chair. In questa breve comica sequenza, è racchiuso lo spirito che guida la serie Netflix di Amanda Peet e Annie Julie Wyman, osannata da pubblico e critica e criticata a gran voce da molti accademici del Nord America che non si sono rispecchiati nell’universo diegetico di The Chair.

Per amor di quei principi critici che richiedono che si dichiari immediatamente la propria subject position dirò subito che sono io stesso un accademico formato nel Nord America e che da molti anni ricopro la stessa carica della protagonista della serie: sono infatti Chair di un dipartimento per sua natura contiguo a quello d’Inglese: Letterature Comparate. E poiché la mia ricerca in Screen Studies è da sempre legata allo studio dell’interpellazione del testo visivo, e della sua capacità di engagement empatico, è facile immaginare quanto questa serie mi chiami in causa personalmente e professionalmente a più livelli.

Diciamolo subito: Peet e Wyman sono ben lontane dal produrre la critica mordente del milieu accademico anglofono offerto a fine ventesimo secolo dai romanzi di David Lodge, Malcolm Bradbury e Carolyn Heilbrun, che con lo pseudonimo di Amanda Cross ci ha dato un’intera serie di detective novels ambientate nel mondo delle università americane. Nell’universo diegetico di Pembroke, che si vuole specchio della società americana post-Black Lives Matter, a mancare non è la diversità che si fa tokenismo, per adottare una terminologia cara alla società americana, ma la pluralità.

Mi spiego meglio. Sia Ji-Yoon che la collega Yaz non sono solo le uniche donne di colore del dipartimento d’inglese: nell’intero universo diegetico di Pembroke, infatti, non compaiono che colleghi bianchi. E il loro isolamento equivale a quello del loro dipartimento, poiché nei sei episodi non vengono mai mostrati colleghi di altre discipline, così come ai tanti studenti undergraduates (il corrispondente dei triennalisti italiani) è contrapposta una sola graduate student (dottoranda), ancor più sola perché di colore.

Si parlava di tokenismo, cioé di generalizzazioni a campione che permettono che una sola persona possa esser ritenuta sufficiente a rappresentare un’intera categoria. Per lo stesso principio, c’è un solo Dean (preside di facoltà) che racchiude in sé tutte le insidie del potere amministrativo che non conosce rispetto per la missione educativa del mondo accademico che dirige, facendosi guidare esclusivamente da motivazioni economiche. Se partiamo da questo presupposto, dunque, è inevitabile che l’elemento che prevale su tutti sia la solitudine.

È sola Ji-Yoon sia sul fronte accademico (come dice una nota espressione americana, It’s lonely at the top) che su quello personale, che la vede single mother in perenne conflitto con una figlia adottiva, unico rappresentante Latinx nella serie, che le rimprovera costantemente lo sradicamento forzato dalla cultura natale.

Altrettanto sola è la giovane collega afro-americana Yaz, non solo per etnia e fascia d’età, ma perché è ancora una volta l’unica rappresentante di quel precariato che precede l’inquadramento definitivo nella carriera accademica: Yaz è infatti in tenure track, periodo di prova lungo in media sei anni, durante i quali tanti giovani accademici americani si sentono estremamente vulnerabili. Yaz tuttavia è anche la sola, all’interno del dipartimento, a saper attrarre gli studenti ,probabilmente perché è l’unica a condividerne linguaggio e interessi e a capire che per sviluppare un seguito fra la popolazione studentesca non vanno solo aggiornati i programmi di studio, ma vanno ripensate le stesse modalità di presentazione del materiale secondo l’ottica del make it sexy. È sola Yaz anche per mobilità: è infatti l’unica a cui viene offerta la possibilità di lasciare Pembroke per un ateneo ancora più prestigioso.

Ma la solitudine di Ji-Yoon e Yaz è anche la solitudine dei loro colleghi più anziani, sia del vedovo inconsolabile di mezz’età che scatena il putiferio in campus dopo aver ironicamente evocato il nazismo in classe, sia dei colleghi prossimi al pensionamento, imprigionati in comportamenti idiosincratici che li definiscono come dinosauri la cui solitudine è essenzialmente rappresentata dalla sopravvenuta incapacità di comunicare coi propri studenti.

Chiamata dal Dean a spingere i colleghi senior al pensionamento, Ji-Yoon è sola perché non ha colleghi con cui consultarsi e da cui trarre supporto e consiglio. Ed è qui che The Chair incappa in un noto stereotipo sulle comunità accademiche, quello dell’isolamento.

Infatti nessun dipartimento, neanche quello d’inglese che è tradizionalmente il più grande in tutti gli atenei americani, vive nel più assoluto isolamento: nel dar così estremo peso alla solitudine di Ji-Yoon, la serie Netflix dimentica che anche lei, come ogni accademico, è parte di una comunità che si estende ben oltre i limiti disciplinari e che il principio fondamentale della shared governance fa sì che i rapporti di potere e i network entro cui questi si stabiliscono esorbitano dall’organigramma verticale rappresentato da personaggi-token come il Dean, il Chair, il collega senior e quella junior.

Se così tanti accademici hanno reagito sui social media allo spaccato offerto da The Chair, è anche e soprattutto perché si è persa l’occasione di mostrare quanto possa esser vibrante il senso di comunità che spesso si vive all’interno di un campus e quanto questa comunità possa fungere da rete supporto nell’affrontare difficoltà professionali e personali di ogni genere.

E a meno di un anno dalla fine di quella presidenza Trump, che aveva accusato gli accademici di vivere isolati in una bolla, e mentre i dibattiti sulla gestione della pandemia e sulla possibile abrogazione del diritto all’aborto si intrecciano agli strascichi di proteste seguite all’assassinio di George Floyd, mai come ora si sente il dovere di ricordare quanto sia pericoloso ritrarre una comunità di intellettuali solo attraverso la sua solitudine e attraverso quei comportamenti idiosincratici che la determinano