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La risata di Joker

Il film di Todd Phillips sul più grande villain della saga di Batman sta facendo parlare il mondo, perché ha toccato qualcosa di traumatico del nostro immaginario: dietro la risata di Joker c’è l’esplosione folle e delirante di uno scarto, che la civiltà politica non riesce più a tenere a bada

In una prospettiva psicoanalitica, il Joker di Todd Phillips è la storia di un sintomo. Parlare di “storia di un sintomo”, tuttavia, potrebbe sembrare impreciso, perché in psicoanalisi un sintomo è qualcosa che piuttosto “buca” una storia, si ripete sempre uguale a se stesso, non passa, non si dissolve nella storia. Per questo Lacan chiamava sintomo «ciò che viene dal reale». Il sintomo è qualcosa che torna sempre allo stesso posto, mentre una storia, con le sue molteplici variazioni, punti di vista, personaggi e scene, sarebbe da ascrivere a quel versante dell’esperienza che definiamo “soggetto”, ovvero l’interpretazione del reale, il senso, i continui riposizionamenti e le continue soggettivazioni di ciò che accade.

Se questo è vero, allora il film di Phillips è un’operazione particolarmente riuscita, perché tutto ciò che riguarda la storia, l’intreccio narrativo, il senso delle vicende e dei traumi, ruota attorno a un “punto di reale”, a qualcosa di sintomatico che, per un verso, produce interrogazioni soggettive sul senso, sul perché, sull’origine e la causa delle sue manifestazioni, ma, per un altro verso, resta muto, si ripete uguale a se stesso, è immobile, non si dissolve nel senso. Come l’inconscio, chiaro a tutti e oscuro a ciascuno, questo oggetto compare qua e là nella vita di Arthur Fleck destando disagio, sgomento, perplessità sia in Arthur sia negli astanti.

 

 

Si tratta della risata. Non si può non fare attenzione alla natura sintomatica di questa risata scatenata, una risata sganciata dal senso, fuori tempo, erratica, randagia. È un autentico “evento di corpo”, una manifestazione fuori controllo, dirompente, che piega lo spazio del legame sociale alla sua folle necessità, spezza le relazioni di comprensione, buca la trama del senso. Questa risata cerca di integrarsi nel senso – per cui si dipanano le linee di un determinismo psico-sociologico, con i significanti infantili, le scene traumatiche, ecc. –, ma al contempo non c’è riassorbimento possibile di questo evento di corpo, ci sono solo usi, riposizionamenti soggettivi. Tutto il film sarebbe allora riassumibile nel transito del soggetto-Arthur da una posizione difensiva rispetto alla risata, quando la nega e la relega nell’ambito del disturbo neurologico, a una posizione affermativa, tale per cui il nuovo Arthur, ora Joker, abbraccia e sposa la sua risata de-lirante, fuori solco, non imbrigliata in alcun legame sociale. Gli ultimi minuti del film ci svelano, peraltro, che non è poi del tutto opposta al legame sociale, questa risata supposta folle, il che costituisce forse il vero motivo di scandalo.

Nel film c’è una ripartizione molto forte: da una parte abbiamo la risata di Arthur, dall’altra la risata di tutti. Quella di Arthur è “fuori”: fuori senso, fuori norma, fuori tempo rispetto ai tempi comici. Quella di tutti è invece ben localizzata, normata, omologata. Quando tutti ridono, Arthur è attonito; quando Arthur ride, tutti restano attoniti.

 

 

Perché si ride? Non possiamo fare a meno di notare che intendiamo il perché della risata di tutti, della risata del senso comune, ma non il perché di quella di Arthur. Dal lato “tutti”, per esempio nella scena del talk show, il pubblico ride di qualcuno o qualcosa che è ai margini del discorso sociale, di qualcuno o qualcosa che non ce la fa, che zoppica, che ci prova ma non ci arriva, il cui stesso provarci ha in sé il segno inequivocabile dell’impossibilità. Questo tipo di risata (che non esaurisce tutta la gamma dell’esperienza dell’ilarità) porta con sé un enorme carico di violenza. La sorte di Arthur Fleck è di esser preso in questa dinamica in quanto oggetto-scarto, oggetto del godimento della risata degli astanti. Rosicchiato e sputato dalla risata-godimento dell’Altro.

Dal lato Arthur invece, lo abbiamo detto, vediamo il passaggio dalla risata come disturbo, la risata come tic, alla risata in quanto trionfo. Il passaggio da Arthur a Joker non è altro che il riposizionamento soggettivo nei confronti di questo oggetto fuori-senso, la risata, che è dapprima negato, giustificato, poi invece crudelmente affermato.

 

 

In primo piano nella vicenda, la risata è un oggetto “ambocettore”, che in qualche modo fa da collante tra due parti, un soggetto supposto attivo che ride di un oggetto supposto passivo. Freud ha scritto due testi molto interessanti sui motivi del ridere: Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio del 1905, L’umorismo, breve articolo del 1927. Ma ciò che il film mette in scena non ha nulla a che fare con l’umorismo di cui parla Freud. L’umorismo è il ridere della nostra condizione di impotenza, della nostra caducità, e se dico “nostra” è per marcare che il soggetto dell’umorismo proferisce la sua battuta inscrivendosi nell’insieme preso di mira e di cui si ride. Per Freud l’umorismo è il versante comico del Super-io. Ciò che è in gioco nella vicenda di Joker è invece tutt’altra dimensione, quella dell’ironia. L’ironia è molto meno morbida dell’umorismo, più tagliente, sfocia nell’aggressività e prende di mira l’altro in quanto inesistente. L’ironia è, nelle parole di Jacques-Alain Miller, «un’arma infernale che arriva alla radice di ogni relazione sociale». Cosa dice l’ironia, si chiede Miller? «Dice che l’Altro non esiste, che il legame sociale è in fondo una truffa, che non c’è discorso che non sia del sembiante».[1] Nel film di Phillips noi vediamo all’opera questa dimensione del ridere, potentemente violenta e aggressiva. Arthur Fleck la subisce passivamente, Joker la restituisce attivamente. Saremmo però in errore a pensare che quella del Joker sia una risata di liberazione. Tutt’altro che libera, questa risata è condannata a un lavoro perpetuo: disfare il legame sociale, minare l’etica, aggredire il patto simbolico.

 

 

Senza dubbio, il film ha avuto impatto traumatico. Che se ne parli ovunque, che ognuno sia spinto a dirne qualcosa, ne è la prova.

La grande potenza dell’operazione di Phillips consiste, infine, nel mettere in scena una enorme questione di natura politica, i rapporti tra civiltà e scarti, attraverso un’esperienza concepita dai più come innocente, istintiva, naturale: perché si ride? Di chi, di cosa si ride? Il film interroga, al suo cuore, il meccanismo di produzione di uno scarto e l’esplosione folle e deflagrante del rifiuto. La nostra attualità triplica la risonanza del messaggio. La questione assillante del XXI secolo – l’ecologia politica ce lo dice da decenni – è in fondo quella di cui il film si propone come antifona: le fognature saltano, la merda risale, il posto degli scarti non è più assicurato. Lo scarto vive di nuova vita e pullula nello spazio disinfettato della civiltà.

 

[1] J.A. Miller, Clinica ironica (1988), in I paradigmi del godimento, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 2001.