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La qualità della danza di Andrés Iniesta e Don Chisciotte

Nel suo nuovo libro “Andrés Iniesta, Come una danza” Gianni Montieri ci racconta di un calciatore che attraverso la bellezza cerca di rimettere a posto il caos del mondo

Le avventure calcistiche di Andrés Iniesta, avrebbe potuto chiamarsi il libro. E il riferimento alla leggerezza di Wes Anderson nelle sue Avventure acquatiche di Steve Zissou è voluto e dovuto: sia al protagonista del romanzo, spesso sorpreso a danzare in campo con il pallone tra i piedi, sia alla bravura dell’autore, che come al suo solito volteggia in punta di penna.

Queste avventure cominciano una quarantina di anni fa al bar Luján di Fuentealbilla, vicino ad Albacete, dove «il pallone sembra telecomandato, rimbalza, gioca di sponda tra la gamba di un tavolo e lo schienale di una sedia di legno». Dove a manovrarlo con il piede destro, e poi con il sinistro, e poi di nuovo con il destro, in un gesto poetico che sarà poi la sua cifra, è un bambino che un giorno con la maglia del Barcellona e della Spagna vincerà tutto, ma proprio tutto. E lo farà con una levità che è di pochi.

Nel descrivere il gioco di Andrés, il suo tecnico e mentore Pep Guardiola sceglie infatti questa metafora: «Lui fa un po’ come i grandi toreri, aspetta fino alla fine, fino all’ultimo istante.

Salta l’avversario quando questi non se l’aspetta più, quando ha intravisto la possibilità di portargli via il pallone. Aspetta, aspetta, aspetta e poi se ne va. Nessuno ha capito come, ma è passato». Come se Andrés fosse sempre in surplace, in un levare grazioso che l’autore chiama «tempo sospeso». Leggero.

Quella leggerezza che sceglie come cifra l’autore, Gianni Montieri, per il suo bellissimo Andrés Iniesta, Come una danza (66thand2nd, 2021, pp. 192). Poeta, scrittore, animatore del Festival dei matti, sembra quasi che Montieri voglia scorgere quella stessa adesione al mondo anche in Andrés quando scrive: «la bellezza, ciò che è meno afferrabile, che meno di ogni cosa è classificabile, diventa perciò, su un campo di calcio, strumento per mettere le cose a posto». Raccontandoci di un calciatore che attraverso la bellezza cerca di rimettere a posto il caos del mondo. Come fanno i matti.

Non a caso, il bar Luján in cui Andrés è nato e cresciuto e dove ha imparato a telecomandare il pallone con il destro, poi con il sinistro e poi di nuovo con il destro, si trova in provincia di Albacete, nel cuore de La Mancha: lì dove Don Chisciotte dichiarava guerra ai mulini a vento della ragione in nome del possibile, lì dove un matto ha cercato di riparare il mondo attraverso la bellezza dei suoi inutili gesti.

Perché inutile è anche il calcio, diciamocelo, e ridicolo ogni tentativo di prenderlo sul serio. Come la vita.

«Un taglio in profondità, un’apertura verso un compagno libero, un tiro inatteso, un movimento che apre possibilità che prima non c’erano», questo fa Andrés in un lungo racconto che parte nella storica cantera del Barça, cui approda ancora bambino, e attraverso partite più o meno note, più o meno importanti, arriva sul tetto del mondo per poi precipitare, risalire e infine scomparire dall’altra parte del mondo.

A Kōbe, in Giappone, da dove ci arrivano gli ultimi dispacci scritti in prima persona da quella voce narrante occulta che ritma la prosa e dove Andrés chiude la carriera con la maglia del Vissel. In attesa magari di rivederlo su una panchina, o di ritrovarlo a giocare a scopa al bar Luján, mentre un altro bambino, lì o da qualsiasi altra parte, telecomanda un pallone con grazia e poesia.

«Dentro questa accelerazione di gioco si inserisce Iniesta che fa tutto con tale calma da sembrare che l’azione non sia una soltanto ma due e che qualcuno le abbia sovrapposte in fase di montaggio», scrive Montieri a proposito del gioco di Andrés e sembra che parli del suo libro.

E forse lo fa. La croqueta che ha reso Andrés immortale in campo, ovvero quel passarsi il pallone dal piede desto al sinistro e poi di nuovo al destro, è infatti la stessa croqueta che emerge nel testo tra l’io narrante dell’autore e del protagonista, che spesso si confondono con grazia e si sovrappongono con stile in fase di montaggio, attraversando una vita e i mille nomi che la compongono.

Anna Ortiz, José Antonio Iniesta, María Luján e Maribel Iniesta, ovvero la famiglia. Sandro Penna, Wilsawa Szymborska, Nanni Balestrini, Anne Carson, Anna Toscano e Roberto Bolaño, ovvero i poeti. Leo Messi, Pep Guardiola, Xavi, Cesc Fàbregas, Carles Puyol e Diego Armando Maradona, i calciatori, sono i nomi di questa danza leggera. E se un nome non lo avete ancora letto è perché merita un discorso a parte.

È Dani Jarque, l’amico di Andrés, il calciatore dell’Espanyol che muore improvvisamente una notte a Coverciano, a Firenze, mentre è in ritiro con la squadra.

Muore nell’estate del 2009, esattamente un anno prima del Mondiale 2010 che Andrés risolve e vince in finale con un gol contro l’Olanda, prima di togliersi la camiseta roja della Spagna e mostrare al mondo una maglietta con scritto “Dani Jarque, siempre con nosotros”. Nel mezzo per Andrés c’è un anno terribile, vissuto in un profondo stato di depressione, che Montieri descrive come tutto bianco, o tutto verde, per ricordarci di nuovo come tutto debba sempre essere vissuto con leggerezza. Perché il calcio, come la vita, è prezioso nella sua inutilità e vano è ogni tentativo di prendere alcunché sul serio. Meglio danzare con leggerezza, come Iniesta. E come Don Chisciotte.

(Immagine di copertina di Clément Bucco-Lechat da Wikicommons)