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La guerra di Guido. Storia delle storie di Bertolaso

“Nostro Signore dell’Emergenza, dispacci dall’Italia dei disastri sulle tracce di Guido Bertolaso” di Mario Di Vito racconta come le storie delle emergenze e quella di Guido Bertolaso si sono intrecciate negli ultimi vent’anni della Repubblica Italiana. Ecco la prefazione del libro.

Come in un campo di battaglia. Ha gli occhi che le si illuminano di nostalgia e ammirazione la donna che mi dice di Guido Bertolaso con parole che non scordo: «Un condottiero. Questo sembrava. Non c’era cosa che ordinasse che non fosse subito fatta». È maggio 2018 e sono a cena nell’unico albergo di Colletorto, a un pugno di chilometri da San Giuliano di Puglia, qui dove tutto è cominciato. Ora che ci ripenso, attraverso la memoria del racconto affidatomi da questa donna, Bertolaso lo vedo anche io sul campo di battaglia, nei giorni e nelle settimane dopo il terremoto del 31 ottobre 2002. È crollata una scuola a San Giuliano e ha fatto una strage degli innocenti: sotto le macerie sono morti 27 bambini e una maestra. La commozione è grande. L’Italia piange e la comunità va risarcita.

Il condottiero Guido Bertolaso è il capo della Protezione civile e il premier è Silvio Berlusconi, ci piaccia o no dopo Bettino Craxi il più grande stratega della comunicazione politica negli ultimi quarant’anni di storia repubblicana. Berlusconi ordina, Bertolaso non meno dotato di superpoteri esegue. Sono gli anni di una Protezione civile che poteva tutto nell’emergenza di un terremoto, che altro non è se non come una guerra in tempo di pace. Lo sa bene il collega e amico Mario Di Vito che nel suo libro reportage Dopo[1] annota: «”Io non sono mai stato in guerra”, dico alla mia caporedattrice, Giulia. “Non sono mai stato in guerra, ma me la immagino esattamente così”. Il terremoto come una guerra: morte e distruzione. In fondo è tutto qui». Sì Mario, in fondo è tutto qui. Solo che qui, a San Giuliano di Puglia, teatro di quello che un pubblico ministero con dubbio gusto dirà poi con la sua voce stridula “un terremotino” si è fatto ben oltre ogni immaginazione.

È in quest’angolo remoto del Molise che si è sperimentato per la prima volta un modello gigantista della ricostruzione. Sicché per capire la storia di vent’anni di disinvolta se non talora irresponsabile gestione delle emergenze in Italia a San Giuliano bisogna andare.

Qui nella provincia dell’impero, lontano da occhi indiscreti, ho visto cose che mi hanno lasciato a bocca aperta. Incredulo. Come un cretino. Non è tanto la new town in abbandono, monumento allo spreco irresponsabile, visto che di fatto da qualche parte bisognava sistemare un paese evacuato. È la San Giuliano di oggi che appare inverosimile. Una comunità di mille anime che si ritrova da una parte la nuova scuola Francesco Jovine, inaugurata nell’autunno 2008 in pompa magna dagli allora premier Berlusconi con la ministra Maria Stella Gelmini, come scuola antisismica più sicura d’Italia, e dall’altra un enigmatico Centro universitario Tre torri. Questo, almeno negli intenti, recitava un laconico cartello. Qui sarebbe dovuta sorgere una sede distaccata dell’Università del Molise, che naturalmente non vi hai messo piede: in sua vece, per il nulla che quest’edificio ha vissuto, c’è stato per qualche tempo un call center. Ma in fondo questo è ancora nulla dinanzi alla faraonica piscina olimpionica o, piuttosto, al museo multimediale della memoria del terremoto con tanto di sfavillanti installazioni di Studio Azzurro che, varato nel 2016, può ben dirsi un miracolo riuscire a visitarlo.

Vale la pena andarci, allora, a San Giuliano di Puglia ma ancora di più nei dintorni, a Colletorto per esempio dove da 19 anni bambini e ragazzi vanno ancora a scuola in un modulo prefabbricato dopo il sisma, per mettere a fuoco come in fondo proporzionalmente a L’Aquila non sia andata peggio se non diversamente.

In questo senso è bene chiarire un punto a monte per quanto mi riguarda: al netto delle assoluzioni nelle aule di giustizia nei processi nei quali è stato chiamato in causa, Guido Bertolaso è a prescindere innocente. Perché è dentro un pneumatico vuoto di riferimenti normativi e operativi – rispetto alla gestione delle emergenze e della ricostruzione, in prima istanza per i terremoti e il dissesto idrogeologico – che appare non solo possibile ma finanche necessaria e legittima la ragion d’essere di un uomo della provvidenza, quale Guido Bertolaso, nostro signore delle emergenze, nei suoi anni d’oro è stato. Si abbia la forza e l’onestà, allora, di spingersi a Sud ancora di più in periferia, a Cavallerizzo (in Calabria) dove, dopo la frana del 2005 il nuovo paese è, parola del Consiglio di Stato, abusivo perché edificato in un’area senza che vi sia mai stata una procedura di Valutazione di impatto ambientale. Anche qui il condottiero sul campo di battaglia, l’uomo della provvidenza, fu Guido Bertolaso, fino al 2010 commissario straordinario per l’emergenza di Cavallerizzo.

Nessuno dubita naturalmente della buona fede del nostro signore delle emergenze, come Mario Di Vito in un guizzo di genio ha inteso chiamarlo intitolando così questo libro necessario. È dentro la spregiudicatezza di un sistema che certamente qualcuno ha colpa.

Torniamo all’Aquila, allora, per inquadrare meglio l’accaduto. A dodici anni dal terremoto del 2009 lo scandalo vero non è l’arcipelago di new town disseminato sul territorio, ma la circostanza che non una scuola pubblica sia stata ricostruita mentre in un centro storico semivuoto, contrappuntato da una giungla di cartelli di affitti e vendesi, si fa festa solenne per la saracinesca di un negozio che apre. È lo stesso sindaco del terremoto Massimo Cialente, primo cittadino fino al 2017, a compiere un’ammissione di responsabilità in un’intervista a Federica Tourn per lo Stato delle cose[2]: «Alla fine dissi di sì alle new town perché avevo un solo obiettivo, riportare la gente all’Aquila. Nel 1703 dopo il terremoto fu mandato un commissario straordinario, un certo Garofalo, e che fece? Mise le palizzate alle porte della città per impedire che gli aquilani scappassero. Io dovevo fare la stessa cosa. C’era un solo modo, accettare la proposta di Berlusconi sul progetto C.A.S.E., così accettai e cominciai a pensare come disporle. (…) Ho vinto la battaglia; senza mettere le palizzate io gli aquilani li ho tenuti tutti, anche se a fare una vita difficile che non mi hanno mai perdonato. Ma io dico sempre: è toccato a noi e quindi o ce ne andiamo tutti, oppure una comunità, se vuole avere un senso nella storia, reagisce».

Un’oscenità grande, va da sé, che diverse di queste new town siano state semmai più evacuate per il crollo di balconi e altri problemi strutturali. Ma tant’è.

Non hanno avuto migliore sorte, quando Berlusconi e Bertolaso erano solo un ricordo, le Sae (Soluzioni abitative di emergenza): le casette per accogliere gli sfollati dei terremoti del 2016/2017 fra crolli di tetti e infiltrazioni di acqua da tutte le parti. Come a dire che, archiviata l’era della protezione civile dei superpoteri, si è cambiato tutto perché nulla cambiasse. In Italia, paese della prevenzione del giorno a fronte della sua fragilità acclarata, il problema a monte è evidentemente l’assenza di una legge quadro sulla ricostruzione. Non sorprende, tuttavia, che l’uomo della provvidenza Bertolaso la pensi diversamente[3]: «Non ha alcun senso pensare a una legge valida per tutti, ogni terremoto ha una sua specificità. Il terremoto dell’Aquila è stato diverso da tutti quelli degli ultimi cento anni. Non è una legge quadro la soluzione. Serve capacità, serve la conoscenza dei problemi e degli strumenti per risolverli. Non tutti sono in grado. Sono mancate persone capaci di occuparsi di ricostruzione, di destreggiarsi con i problemi complessi di una realtà non semplice già in partenza, resa ancora più complicata da una situazione estremamente difficile». Altri uomini della provvidenza, insomma, che pure sono talora fallaci – ma cosa vogliate che sia – nella previsione dei tempi per la ricostruzione. Nessuna assunzione di responsabilità, insomma, rispetto alle vicende aquilane ma semmai una medaglia appuntata da sé sul petto, ora che dal Bertolaso look è scomparso lo stemma della Protezione civile: «Avevo detto che sarebbero stati necessari dieci anni, probabilmente, invece, ci vorrà il doppio del tempo ma credo che qualcuno dovrebbe darmi atto delle scelte compiute e di aver detto fin dall’inizio che i tempi non sarebbero stati brevi. Ho dato una casa a 80mila persone e ne sono orgoglioso. Le persone sanno di poter aspettare anche qualche anno in più perché vivono in una situazione confortevole al contrario di quanto accade nel Centro Italia».

Onestà intellettuale vuole, in ogni caso, ricordare per amor del vero che Bertolaso è stato commissario straordinario per l’emergenza terremoto in Abruzzo solo fino al 29 gennaio 2010 e che Berlusconi è stato premier sino al 16 novembre 2011.

È indubbio, allora, che la gestione dell’emergenza, a cominciare dal Progetto Case, sia riconducibile al nostro uomo della provvidenza ma è altrettanto evidente che la mancata ricostruzione e quant’altro non è ancora accaduto sia responsabilità politica di altri. È la cartina di tornasole di come il terremoto dell’Aquila e la sua narrazione siano stati inquinati per altri scopi. E qui le colpe sono equamente distribuite. A cominciare da Berlusconi, consapevole che lo scacchiere della ricostruzione aquilana è, se non la sua ultima chance (non è dato sapere se avesse consapevolezza dell’imminenza della sua fine politica e delle susseguenti querelle giudiziarie), di certo una irripetibile occasione per riaffermare la sua leadership. È in questo contesto che, in effetti, nasce il coup de théatre del trasferimento del G8 da La Maddalena a L’Aquila. Passerella ironia della sorte adombrata, per dirla con un eufemismo, dall’esplosione qualche settimana prima nella Procura di Bari dello scandalo escort con l’irruzione sulla scena di Patrizia D’Addario. È questo l’incipit della fine.

Fatto sta che proprio L’Aquila e il suo futuro finiranno per non essere più il fuoco centrale, ma l’oggetto di scontro di una battaglia politica con un duplice e contrastante obiettivo: la posta in gioco per la sua sopravvivenza, nei disegni del leader di Forza Italia, e un’occasione giusta per colpire e affondare il nemico.

Nessuna assoluzione morale e politica per le responsabilità di Berlusconi rispetto al degrado morale e culturale del Paese, dall’incipit televisivo negli anni Ottanta fino alla discesa in campo con Forza Italia, il punto è semmai un altro. È la cura dell’Italia fragile che non c’è, sottolineata dalla classe politica di questo Paese che col suo manifesto disinteresse non è ancora stata capace di eleggerla a priorità. In attesa del rombo che verrà quando la terra tornerà a tremare ancora, come sismologi e geologi inascoltati come nel buñueliano Simon del deserto non smettono di ricordarci. Ecco. Dinanzi a questo scellerato e comune disinteresse della politica, davanti all’incapacità di salvaguardia del patrimonio culturale e ambientale dell’Italia, la sola risorsa che ci è rimasta, uomini come Bertolaso possono, mi si passi l’ironia, addirittura commuovere per la leggerezza del dire quando addirittura si candidano a sindaco della Capitale e compiono l’inverosimile leggerezza di dire che «Roma è terremotata» pur di affermare sé e la necessità di un uomo della provvidenza.

Sono tutte vicende che Mario Di Vito ci ricorda in questo libro, ricomponendo i tasselli di storie rimaste sulle cronache e mai ricomposte prima dentro il mosaico di una narrazione e di un’analisi che sono invece necessarie. È la storia del nostro Paese quella che, in filigrana, attraverso il nostro signore delle emergenze ci riconsegna.

Una storia che abbiamo scritto e letto e forse dimenticato. Una storia che Mario racconta senza sparare sul pianista, vuoi perché ormai è troppo tardi per il tiro al bersaglio, a prescindere dall’estemporaneità del suo maldestro ritorno in auge in questo tempo di pandemia, vuoi perché ho l’impressione che anche lui sia, come me, convinto dell’innocenza di Guido Bertolaso. È stato qualcun altro a fare di lui un uomo della provvidenza, Silvio Berlusconi. Non possiamo certo condannare Bertolaso per aver creduto davvero di essere un uomo della provvidenza. Ma la storia di questo nostro signore delle emergenze andava pur scritta – a proposito, perché non ci ha mai pensato nessuno prima? – perché non è più di altri uomini della provvidenza che questo Paese ha bisogno. È il tempo e l’ora di guardare allo stato delle cose e comprendere una volta per tutte che il tema è la cura che non si è avuta e non si ha né dei luoghi né delle comunità di un’Italia fragile e bellissima. Spostiamo lo sguardo sulle macerie e sulle ferite. Ricominciamo da qui. Facciamo nostro l’interrogativo di Alessandro Celani, un umanista che se n’è andato troppo presto, il 24 agosto 2021 nel giorno del quinto anniversario del terremoto di Amatrice: «Se le cose non cadessero in rovina, in che modo potremmo entrare nel mondo?»[4]. Diamoci una risposta.


[1] Dopo. Storie da un terremoto negato, Mario Di Vito (Poiesis editrice, 2019)

[2] In 2009/2019. L’Aquila dieci anni dopo, il bilancio e i rimpianti del sindaco del terremoto: Massimo Cialente a cuore aperto. Intervista a cura di Federica Tourn su lostatodellecose.com/scritture

[3] In 2009/2019. Da L’Aquila al Centro Italia, i terremoti e la legge-quadro per la ricostruzione che non c’è. Il forum con i protagonisti. A cura di Flavia Amabile su lostatodellecose.com/scritture

[4] In Aura. Viaggio in Italia, Alessandro Celani (Aguaplano libri, 2017)