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La dimensione collettiva dell’uscita dalla sofferenza individuale

“Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui”, minimum fax, Roma 2023, è l’ultimo libro di Marco Rovelli: un’inchiesta sulle forme del disagio mentale e delle principali esperienze di cura, contrapposte alla gestione individualistica “normalizzante” e alla cronicizzazione mediante abuso di psicofarmaci. L’alternativa è una vita liberata e relazionale

Marco Rovelli, scrittore e musicista, si è spesso impegnato in analisi sociologiche della (contro) la società neoliberale, con inchieste sui suoi lati più oscuri (i lager per migranti, i morti sul lavoro, le storie di clandestinità) e oggi, con Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui, affronta un tema poco dibattuto (a differenza dagli Usa) nella letteratura generalista italiana e riservato piuttosto agli studi di settore: gli effetti traumatici dell’organizzazione sociale sulla psiche individuale e la loro gestione segregativa o farmacologizzata.

Già dal titolo, che parafrasa Camus (mi rivolto, dunque siamo) si comprende che il disagio così come il farmaco implica un gesto di resistenza e rivolta che instaura la relazionalità, il luogo della guarigione. Alla diagnosi e cura correnti («il disagio psichico è effetto di cause biologiche, nasce da un cervello rotto, motore in panne da riparare: e la riparazione avviene intervenendo con uno psicofarmaco», ma anche con una terapia veloce che elimini il sintomo, giudicandolo un inconveniente suo che non ci riguarda troppo, pp. 14-15), si contrappone una decisa attenzione sull’ontologia della relazione, sul concetto di con-dividuo (Remotti) che affonda le radice nella transindividualità filosofica di Spinoza, Simondon, Deleuze, Balibar e Morfino e in una pratica terapeutica conforme (pp. 27-28).

Il culto neoliberale dell’individualismo e della concorrenza – per meglio dire, la produzione sistemica dall’alto di queste categorie, la creazione artificiale di un mercato generalizzato dopo e contro le regolazioni parziali dell’epoca fordista e le acquisizioni istituzionali della socialdemocrazia e del “socialismo reale” –  genera la coppia solitudine/competizione che si declina nelle fondamentali patologie mentali del nostro tempo. Mentre nella società disciplinare, anteriore o coeva al fordismo, il modello del disagio psichico era il senso di colpa collegato alla trasgressione di un’interdizione (in questo senso l’isteria fu il paradigma per un intero genere, quanto per l’altro l’ossessione edipica), nella società post-disciplinare, il modello del disagio è il depresso: egli è quello che fallisce in un mondo dove tutto è possibile, ogni realizzazione dipende dall’individuo e dunque il fallimento è colpa solo tua, non dei guasti dell’organizzazione sociale e neppure dai padri, carnali o figurati (pp. 32-33).

Abbiamo così un cambio di paradigma nell’economia psichica della società.

Il subentrare del narcisismo alla nevrosi spiega ovviamente la natura delle “devianze”. cioè delle cadute di tensione rispetto al modello predicato come “normale”. Gli effetti più usuali della Io-crazia narcisistica negli adolescenti sono il ritiro sociale (gli hikikomori giapponesi) e l’anoressia, quando la sensazione di onnipotenza va a sbattere contro i limiti naturali. Dove questa fase è superata con successo le patologie si riconfigurano: l’euforia dell’imprenditore di se stesso e dei suoi insuccessi esibisce una tipica sintomatologia bipolare di up e down, in cui culmina la dialettica del principio di prestazione e del presunto riconoscimento del merito di chi emerge a spese degli altri che presiede la società neoliberale (o presiedeva, prima del bagno gelido della dittatura degli algoritmi). In tutti questi casi si deve correre ai rimedi, sviluppare una pratica medica e una rete di istituzioni per mettere sotto controllo i sintomi senza interrogarsi sulle cause, si impone una restaurazione veloce dello spirito di prestazione e questo impone la medicalizzazione più o meno forzata, in cui “per fortuna” i vecchi metodi manicomiali sono sostituti dall’uso e abuso di psicofarmaci, a partire (almeno negli Usa) anche da età molto giovani. La macchina rotta va prontamente riparata, anzi è meglio fare gli opportuni tagliandi prima che si blocchi per strada.

L’emergenza pandemica (cfr. pp. 79 ss.) ha acutizzato tutte le sfumature della depressione –  regina del millennio – ovvero di quella “caduta del desiderio”, i cui blocchi e ingorghi segnavano invece l’epoca fordista ed edipica. Assenza dell’Altro (autoesclusione dallo sguardo e dal desiderio dell’Altro) e assenza di futuro vanno a braccetto; il loro apparente contraltare (come della non inconsueta deriva borderline dell’autolesionismo) è la ”vigoressia”, dove il corpo palestrato e “sanificato” si oppone egualmente alla contaminazione con l’Altro, a patto di funzionare come una macchina, non come organismo, anoressia rovesciata del pari solitaria che sfida la morte e la depressione recidendo la relazionalità (p. 87).

L’insostenibilità (sistemica, non occasionale) del fallimento equivale al rifiuto della finitezza e si manifesta come vergogna, ratificata dal giudizio scolastico o social, e da cui si evade attivamente con molteplici strategie  di confinamento nei giochi solitari, in rappresentazione della rivolta dei solitari nelle serie Tv (sul tipo del coreano Sweet Home) e in patologie compensative e dolorose – tutto il ventaglio dei sintomi di ansia e di panico, che oggi sono largamente diffusi fra gli adolescenti (pp. 114 ss.) e che sono assai indicativi proprio per la frammentazione della diagnosi e del trattamento chimico.

Osserviamo per inciso che Rovelli procede essenzialmente per casi italiani e pareri di psicologi e psichiatri, mala sua analisi è valida ad ampio spettro per tutte le società con forti componenti neoliberali, esplicitamente per Giappone e Corea, ma aggiungerei anche la Cina, dove già esiste una fitta documentazione sui danni della competitività scolastica esasperata. Per non parlare della sconfinata letteratura sull’uso degli psicofarmaci e sulla prescrizione medica di droghe negli Usa, fenomeno battistrada per tutti i paesi occidentali.

«L’ipermodernità è dunque l’epoca di un piacere scisso dallo scambio e dall’incontro con l’altro. È l’epoca del godimento come nuovo imperativo sociale, un godimento in cui non ha più parte il desiderio come desiderio dell’altro, ma che si pone come un’affermazione narcisistica dell’io ideale, che ha reciso ogni legame con l’altro. […] Se la funzione del Padre nella psicoanalisi era quella di testimoniare che la vita umana era attraversata dal limite, venuta meno quella funzione etica resta quello che lo stesso Lacan chiamò “discorso del capitalista”, ovvero il dominio del consumo, dell’acquisizione, del godimento illimitato» (pp. 145-147). Alla legge del padre subentra l’appello all’individuo a diventare “imprenditore di se stesso”, costituendo un nuovo legame sociale, non meno cogente del precedente.

Nell’Epilogo l’autore, dopo un’attenta ricostruzione degli effetti mentali e comportamentali dell’egemonia liberista – un vero e proprio  apparato ideologico di stato in tutta la sua materialità patologica – prova a tracciare un’alternativa, che già emergeva dai precedenti capitoli di testimonianza e inchiesta: la cura non consiste, se non temporaneamente per le manifestazioni acute, in terapie individuali e interventi farmacologici, ma nella relazione come cura, nella cura delle relazione, dunque in una pratica sociale che coinvolge interi contesti e non pazienti singoli o collezioni di casi specifici etichettabili.

In primo luogo prendendo atto della presenza di condizioni di svantaggio sociale come fattori di rischio per la salute mentale: «esiste una correlazione significativa tra un basso livello di istruzione e i disturbi psichiatrici, così come fra condizioni economiche svantaggiate e disturbi mentali (circa due volte più frequenti tra le persone indigenti) […, per esempio] nelle regioni caratterizzate da un più ampio divario tra ricchezza e povertà c’è un rischio più elevato di insorgenza di schizofrenia» (pp. 244-245). In secondo luogo, oltre a rimuovere tali fattori di diseguaglianza patogena, occorre trarre tutte le conseguenze dall’assunto che «la relazione precede e fonda l’individuo», che «per fare una mente ce ne vogliono almeno due. La mente emerge in una situazione di molteplicità condivisa», di interconnessione sistemica «che avviene già a livello preintenzionale, prevolontario», che parte dal meccanismo dei neuroni specchio di cui parla V. Gallese e si sviluppa nel tempo, facendo dell’individuo «un processo, non un’entità. C’è quindi un’immanenza e c’è un processo. Non un’entità e una singolarità che sarebbe fissa e uguale a se stessa […]. La mente non è una “cosa”, ma una proprietà emergente; non “è”, ma diviene; e non è “una”, perché per fare una mente ce ne vogliono almeno due» (p. 247).

Qui l’insegnamento delle neuroscienze converge con l’impostazione filosofica di Spinoza e Deleuze con cui si apriva la trattazione e si sostanzia con le risultanze dei casi di disagio mentale, in cui il processo di individuazione è deviato o bloccato per un inceppamento della relazionalità, per una crisi della presenza nel mondo, dove la mente esiste, appunto, in quanto diviene in rapporto agli altri, ed è su questo rapporto che occorre intervenire, nei limiti del possibile, in caso di disturbo. Certo, contestando e invertendo le tendenze che incrementano la perdita di mondo e di relazionalità, tendenze organiche nell’antropologia neoliberale. La cura della relazione contribuisce così a una «liberazione collettiva».

“Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui”, minimum fax, Roma 2023

Immagine di copertina di Escael Marrero da Flickr