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MONDO

Iran, una società in protesta e una crisi inesauribile

Le proteste del 2018 in Iran continuano, la causa è una crisi che attraversa diversi aspetti: economico, alimentare, ambientale, patriarcale e di oppressione di minoranze etniche. Si scende per strada nei centri metropolitani e nelle aree rurali. La repressione da parte del governo è violenta e i canali d’informazione censurati

A partire dal mese di maggio 2022 la società iraniana è stata coinvolta in una nuova ondata di proteste. Il crollo del grande edificio commerciale “Metropol”, ad Abadan il 23 maggio, ha causato almeno 78 morti (quelli di cui si conoscono i nomi, ma la stima è probabilmente molto più alta). Il disastro è stato l’innesco delle rivolte scoppiate nei centri metropolitani del sud del Paese nelle settimane successive.

Nonostante il bilancio delle vittime e dei manifestanti arrestati non è certo, sappiamo che le proteste sono state represse duramente dalle forze militari che hanno sparato sui manifestanti. Le rivolte sono ancora in corso e sono solo l’ultimo atto di un ciclo di proteste iniziato già da molti anni.

La società e lo Stato iraniani sono coinvolti in una serie di crisi. Le catastrofi ambientali, l’allargamento delle divisioni di classe, la violazione quotidiana dei diritti delle donne e delle minoranze etniche sono gli aspetti principali di quanto sta accadendo in Iran. Parallelamente alle crisi, in Iran sono diffuse le proteste.

Cercherò di affrontare brevemente la forma e il contenuto delle proteste in corso e la complessa situazione politica iraniana che, nei media e nell’opinione pubblica occidentali, sono trattate poco e male.

La crisi globale dello Stato iraniano

L’attuale serie di crisi in Iran può forse essere considerata come la crisi di uno Stato capitalistico. L’Iran è uno dei laboratori in cui l’attuazione delle politiche neoliberiste e dell’austerità economica si è data nella maniera più aggressiva. La crisi che sta attraversando può essere analizzata da quattro punti vista e si manifesta nelle proteste di piazza che talvolta sono state di carattere nazionale.

Il primo aspetto riguarda la lotta di classe i cui protagonisti sono gli operai dell’industria, gli autisti dei trasporti, gli insegnanti, gli infermieri e i pensionati.

In Iran più di sei decimi della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà assoluta e non è in grado di raggiungere l’apporto calorico di cui ha bisogno quotidianamente.

La liberalizzazione del mercato e il mancato controllo da parte dello Stato sull’ordine monetario e finanziario hanno portato le famiglie a dover pagare in valuta iraniana il prezzo dei beni fissato in dollari sul mercato internazionale (un dollaro corrisponde a più di 30.000 Toman in Iran), causando un aumento del costo della vita sproporzionato rispetto al livello del salario minimo, che è sceso sotto i 180 dollari al mese, in assenza di un sistema di welfare. Si è verificata così una crescita senza controllo dell’inflazione.

Allo stesso tempo i terreni agricoli e le abitazioni sono diventati beni di lusso, con prezzi che negli ultimi sette anni sono esplosi, diventando uguali a quelli dei Paesi europei, con la conseguenza che ogni giorno sempre più persone si spostano dalle città alle periferie.

Il secondo aspetto è quello della crisi e distruzione dell’ambiente. Tale aspetto ha colpito prevalentemente la parte meridionale del Paese. Lì si concentrano la maggior parte dei giacimenti di petrolio e gas, che rendono l’Iran la seconda fonte mondiale di gas e quarta fonte mondiale di petrolio. In queste zone sono esplose la siccità, la distruzione delle risorse sotterranee, l’erosione del suolo e l’inquinamento climatico.

Il terzo aspetto è l’esercizio di un ordine patriarcale contro l’esistenza e il corpo delle donne. L’elenco delle violazioni dei diritti delle donne e delle minoranze sessuali in Iran è molto lungo. Citiamo qui solo l’esempio più recente: il governo iraniano ha messo in atto una serie politiche per aumentare la natalità e per vietare non solo di abortire ma anche di prevenire la fertilità, con la conseguenza che a ben 40 milioni di iraniane e iraniani è ora negato l’accesso ai contraccettivi.

La politica di aumento della popolazione è strettamente correlata alla politica di aumento del potere militaristico. Uno slogan governativo estremamente usato, infatti, suona così:  “più figli = più soldati“.

L’ultimo aspetto della crisi dello Stato iraniano è rappresentato dall’oppressione delle minoranze etniche e comprende una serie di leggi e pratiche discriminatorie, religiose e linguistiche, associate al grave sfruttamento della classe lavoratrice e della natura in queste aree.

In questo quadro di crisi a più facce si inscrivono le sanzioni statunitensi e occidentali, che il regime si propone di utilizzare come base e pretesto per intensificare le politiche di austerità e stringere i meccanismi securitari fondamentali per la tenuta del regime stesso.

A questo proposito è importante sottolineare che, in Iran, nessuna organizzazione indipendente può operare in nessuna zona e le carceri sono piene di attivisti politici, sindacalisti, giornalisti e donne che protestano.

In definitiva, dunque, il governo ha fatto del pericolo “straniero” e della crisi economica una componente necessaria alla propria sopravvivenza. In questo senso, le sanzioni statunitensi e occidentali non sono affatto la ragione di questa crisi, ma solo un elemento che il regime usa non solo per giustificarla, ma anche per intensificarla e accelerarla.

A prova di ciò basti vedere come la situazione (sia dal punto di vista economico che securitario) non sia cambiata nel periodo dell’accordo nucleare tra Iran, Stati Uniti e i tre Paesi europei di Germania, Francia e Regno Unito, durante il quale le sanzioni si erano attenuate.

Il governo iraniano, dunque, si nutre delle crisi da lui stesso generate: disastri climatici, povertà, discriminazioni di genere e razziali, violazioni sistematiche dei diritti umani e civili sono conseguenze dirette delle scelte del regime.

Le rivolte della società iraniana

Le forme di protesta da gennaio 2018 sono state di due tipi: da una parte spontanee, dall’altra rivolte esplosive e violente. Si sono svolte in varie ondate: gennaio 2018, agosto 2018, novembre 2019, luglio 2021, fino a maggio 2022, che è tuttora in corso.

Si tratta di proteste sanguinose e senza leader, i cui protagonisti sono gli emarginati, i disoccupati e i poveri urbani, e si sono accompagnate al blocco delle strade e all’attacco a centri politici come comuni e governatorati, centri finanziari, banche e centri religiosi del governo, moschee comprese.

Oltre alle rivolte sorte nei centri metropolitani hanno preso corpo proteste nelle aree rurali, come quelle che nel luglio 2021 hanno visto contadini e popolazione urbana del sud del Paese insorgere contro la siccità.

A questo si aggiungono le proteste e l’insurrezione delle minoranze etniche discriminate, come le etnie curde, baluch, bakhtiari, lors, arabe e turche residenti in  Iran, che sono state emarginate dal governo centrale. A questo proposito le proteste nelle province come Khuzestan, Kermanshah e Lorestan sono state le più intense.

Migliaia di persone sono state uccise, ferite e torturate negli ultimi quattro anni. Migliaia di persone vengono arrestate e trascorrono un periodo di tempo indefinito nelle carceri.

Se chi viene arrestato ha attorno a sé una rete di persone che viene a conoscenza del suo arresto, è possibile fare pressione dall’esterno per ottenere la sua scarcerazione, che spesso, in ogni caso, richiede tempi molto lunghi. Invece, nei casi opposti, possiamo parlare di arresti “anonimi”, cioè arresti di cui nessuno viene a conoscenza e che possono portare a periodi detentivi molto lunghi e pericolosi.

Nelle proteste del novembre 2019 abbiamo assistito per la prima volta a un massacro alla luce del sole su scala nazionale. Prima di questa data gli omicidi politici venivano tenuti nascosti. Nel novembre 2019 invece la polizia ha sparato indiscriminatamente sui manifestanti e questa strage è stata addirittura rivendicata apertamente dai media nazionali.

Darò alcuni esempi più dettagliati di queste proteste.

Quando, nel gennaio 2018, sono aumentati i prezzi della maggior parte dei beni di prima necessità, sono iniziate le proteste, che hanno rapidamente portato a rivolte politiche dirette contro lo Stato.

Lo Stato iraniano ha avuto al suo interno per molti anni due fazioni: la fazione “conservatrice” e la fazione “riformista”. All’epoca il governo del presidente Hassan Rouhani era in carica e vicino alla fazione “riformista”.

Le proteste sono arrivate prima delle sanzioni dell’amministrazione Trump e del ritiro degli Stati Uniti dall’accordo BRICS. I riformatori hanno subito cercato, come in altri casi, di sminuire le proteste attribuendole all’“opposizione”, una parte molto moderata del dibattito politico, di tendenze neoliberali e capitalistiche.

L’intensità delle proteste, che ha preso di mira tutto lo Stato, ha però smentito questa ricostruzione.

Il popolo iraniano, infatti, è passato dalla rivolta spontanea alla critica rivolta all’interno dello Stato, cantando slogan contro entrambe le fazioni e l’intera struttura economica, politica e ideologica del regime. Le proteste sono state temporaneamente represse con decine di morti e feriti.

Ma le più grandi proteste che hanno avuto luogo in tutto l’Iran e in più di cento città sono state nel novembre 2019. Sono seguite all’aumento e alla liberalizzazione dei prezzi della benzina, ma si sono nuovamente e rapidamente legate alla volontà di rovesciare l’intero regime. Per alcune ore il controllo di alcune città è stato praticamente nelle mani del popolo.

Il regime, in risposta, ha ucciso, massacrato, ferito e incarcerato migliaia di persone in una settimana, non risparmiando nemmeno i ragazzi di età inferiore ai 18 anni.

Dopo due giorni, lo Stato è apparso per le strade del sud del Paese con armi come carri armati e mitragliatrici, ha chiuso Internet in tutto il Paese, rendendo impossibile informare e inviare immagini delle proteste. Tale censura mediatica, che si sta ripetendo anche in queste settimane, è un tratto tipico del regime della Repubblica Islamica dell’Iran, che, spendendo ingenti somme di denaro e acquistando le più avanzate apparecchiature di controllo da Europa, Cina e Russia, è stato in grado di bloccare Internet o abilmente rallentarlo su scala nazionale.

Falsità e corruzione sono state utilizzate per costringere i social network come Instagram e Whatsapp ad andare in down in nome della sicurezza nazionale (prove di ciò sono state rivelate dagli attivisti che lavorano in queste aziende). Pertanto, le immagini delle proteste vengono spesso trasmesse in modo più debole rispetto ad altri paesi. Per questo motivo la voce delle proteste iraniane è stata a malapena ascoltata dai media mondiali, se non del tutto ignorata.

La rivolta del novembre 2019 è stata una rivolta nazionale, politica e anti-austerità che le due fazioni del governo sono state complici nel reprimere.

L’ultima ondata di proteste del maggio 2022 è invece legata alla liberalizzazione dei prezzi dei generi alimentari, all’eliminazione dei sussidi e al crollo del complesso commerciale nella provincia del Khuzestan di cui ho parlato all’inizio, di proprietà di un capitalista fedele allo Stato.

Il regime ha schierato la polizia antisommossa nelle strade invece di installare soccorsi e attrezzature di sicurezza. Molti lavoratori migranti sono stati sepolti vivi sotto le macerie, e non si sa neppure il loro nome.

Tale apparato repressivo è stato sperimentato per la prima volta in Siria nel 2012, quando il regime iraniano ha partecipato alla repressione del popolo siriano, al fianco di Bashar al-Assad. Questo è servito come esercitazione e come prima pratica di repressione, che poi è stata replicata in casa. Tuttavia l’intensità della protesta è arrivata a tal punto che la retorica legata alla protezione dello Stato dal pericolo interno, invocata dal regime come scusa per la repressione, non regge più.

Lo Stato, tuttavia, ignora questi avvertimenti e trattiene dissidenti e giornalisti. Ha attaccato le aree residenziali povere e le periferie intorno alla città, uccidendo e ferendo diverse persone e sequestrando i loro terreni al fine di costruire nuovi edifici. In altre parole, in Iran anche gli eventi che appaiono come incidenti urbani e morti sul lavoro sono il risultato di una pianificazione deliberata da parte del governo.

Il loro vero nome, dunque, non è “eventi”, ma pulizia sociale delle classi povere ed emarginate. La distanza temporale tra le proteste è ormai molto breve, le rivolte si susseguono su qualsiasi tema e prendono di mira rapidamente la politica e il governo nel suo insieme. La società iraniana è in uno stato di malcontento globale e ribelle.

Il secondo tipo di protesta assume il tratto di proteste spontanee, come quelle a livello nazionale dei movimenti degli insegnanti, dei lavoratori e dei pensionati, che hanno formato e ampliato le loro organizzazioni nonostante la repressione.

Questi movimenti, come i primi, hanno combinato richieste economiche con richieste politiche e antigovernative. Il riavvicinamento di questi due tipi di proteste ha portato alla radicalizzazione di ciascuno. La connessione e l’interazione temporale e spaziale di queste proteste, che sono accompagnate da minacce quotidiane, arresti e repressione, è una seria minaccia per la sopravvivenza del regime.

Le opposizioni ufficiali al regime e l’apparente conflitto con il governo

La risposta dello Stato ai disordini e alle proteste non si limita alla repressione, ma si articola, sul piano retorico, negli atteggiamenti apparentemente contrapposti dei due maggiori gruppi di opposizione al regime: da parte l’opposizione di destra filo-occidentale, che tenta di riportare nella propria orbita le proteste, dall’altra l’opposizione neo-conservatrice, che tenta di delegittimarle.

Per comprendere questo punto è necessario soffermarci rapidamente sulla complessità della situazione politica iraniana, attraverso un breve approfondimento sui due principali gruppi di opposizione “ufficiale” al regime.

L’opposizione di destra del governo, filo-occidentale e conservatrice, che possiamo definire come nazionalismo neoliberale, cerca di mettere a tacere le voci delle minoranze etniche con il pretesto che esse minaccerebbero la sopravvivenza dell'”integrità territoriale iraniana” e della “civiltà iraniana”, e vede il movimento femminista come una cospirazione di sinistra. I suoi esponenti sono per lo più monarchici e fedeli allo Scià, oppure ex membri del fronte “riformista” ormai disintegrato.

Questo gruppo di opposizione, che esprime opinioni aristocratiche e trumpiane, è a favore del libero mercato, dell’austerità, del movimento antifemminista, del movimento contro il lavoro e del diritto delle minoranze etniche all’autodeterminazione. Propongono, insomma, le stesse politiche della Repubblica Islamica, solo con un atteggiamento non religioso.

Va notato, per inciso, che il regime iraniano non è un regime teocratico medievale, ma un regime capitalistico neoliberista che usa religione e nazionalità simultaneamente in un modo pragmatico che è funzionale e necessario per la sopravvivenza del potere e l’accumulo di ricchezza.

La religione e il nazionalismo di questo governo non sono un’estensione di un’idea nel lontano passato, ma sono profondamente contemporanei. Il governo considera la conservazione del potere e del sistema come più importante della religione stessa, e per questo motivo non può essere assimilato a credenze tradizionali.

Tornando al ruolo dell’opposizione di destra in merito alle attuali proteste, una delle dozzine di persone che affermano falsamente di essere leader delle proteste, in particolare delle donne dell’Iran, è Masih Alinejad, una femminista neoliberista che ha recentemente viaggiato in Italia ed è stata onorata di incontrare i leader dell’amministrazione misogina di Trump, incluso l’ex segretario di Stato Mike Pompeo.

Questi falsi leader non sono né parte della protesta, né la dirigono, né possono realizzarla, perché nei loro discorsi e nei testi che scrivono sono completamente assenti i temi del capitalismo, delle classi sociali, delle donne emarginate ecc. Per loro, le persone sono vittime o dovrebbero esserlo, in modo che i governi occidentali all’esterno possano correre in loro soccorso.

Il loro unico obiettivo, infatti, è esercitare pressione sui governi occidentali affinché inaspriscano le sanzioni nei confronti del regime ed eventualmente attacchino militarmente l’Iran: in questa ottica strategica si propongono come nuovo governo fedele all’Occidente che possa sostituire il regime attuale.

L’opposizione alle sanzioni e alle azioni occidentali, e la sconfitta dei cosiddetti movimenti della “primavera araba” in Medio Oriente, hanno rafforzato un’altra voce nell’opposizione iraniana, che accoglie sempre più con favore il militarismo e la tirannia del governo.

Il gruppo, piegando ai loro interessi le teorie postcoloniali, ritiene che la causa centrale della miseria in Iran siano le politiche imperialistiche dell’Occidente e vede le sanzioni come una causa esterna a cui addossare la colpa di tutte le crisi, eliminando ogni critica rivolta all’interno del Paese. Credono che, in nome del pericolo esterno, le persone dovrebbero tollerare il regime e accettare l’austerità economica.

Questo atteggiamento, in nome della sicurezza e della prevenzione del pericolo di collasso territoriale, mostra talvolta immagini piacevoli e irrealistiche dell’Iran, che però sono le condizioni di vita dell’1% della popolazione iraniana, per trasmettere un’idea di benessere inesistente, giustificare le azioni del governo e silenziare le lotte.

Questo gruppo, che possiamo chiamare neo-conservatore, comprende dei gruppi riformisti interni al governo, la destra nazionalista e la sinistra nazionalista-ortodossa e antimperialistica che sostengono la linea politico-militare della Repubblica Islamica, il regime di Putin, Bashar al-Assad e Hezbollah in Libano, ecc., definiti come “asse della resistenza”.

Entrambi questi gruppi, che attraverso la reciproca contrapposizione si sono  rafforzati a vicenda, mostrano punti di continuità con il regime: se il primo gruppo (estrema destra) apprezza le politiche tradizionaliste del governo, per il secondo (neo-conservatore) l’opposizione del regime agli USA lo rende anti-imperialista e dunque da appoggiare.

D’altra parte, entrambi i gruppi ignorano volutamente il ruolo e le azioni del regime iraniano come regime capitalistico nel cuore del mercato globale, ignorando il ruolo esplicito dell’Iran nel decentrare e trasferire l’egemonia nel mondo dell’impero, così come l’attuale meccanismo economico e militare a favore dei blocchi cinese e russo.

In altre parole, i due gruppi percepiscono il conflitto tra Occidente e Repubblica Islamica in modo statico e unilaterale, giustificando le proprie posizioni in base alla dialettica tra di loro. Un dualismo fittizio che tenta di annullare ogni critica al regime nella sua totalità.

È in quest’ottica che va visto il tentativo, che sta già avvenendo, di sussunzione dei movimenti di opposizione reale al regime: vogliono minare ogni possibilità di intervenire in questa spaccatura.

La novità delle rivolte e la loro importanza per la sinistra globale

Va notato un fatto che costituisce un elemento di novità rispetto al passato e che sta scompaginando le carte: le proteste all’interno del regime sono diventate più radicali, mettendo esplicitamente sul banco degli imputati la Repubblica Islamica nella sua totalità. Per questo motivo i nazional-neoliberisti stanno avendo molte difficoltà a usarle a proprio vantaggio e i due gruppi di opposizione si sono avvicinati, giorno dopo giorno, l’uno all’altro ed entrambi al regime.

La voce dell’Iran è la voce della crisi e della protesta, la voce che non ha oratori e leader, un movimento multitasking, una lotta di maggioranza composta da innumerevoli minoranze la cui volontà non può essere realizzata da nessun governo, né possono essere rappresentate da forze politiche.

Il cambiamento in Iran avrà un impatto dal Medio Oriente all’Europa, e questo richiede l’attenzione del movimento di sinistra globale radicale e indipendente, anche in Italia, agli eventi di questa importante situazione.

Car* Compagn* e amic*

Proprio come la guerra in Ucraina, le rivolte iraniane mostrano che “l’Oriente” e l'”Occidente” sono complementari e hanno confini fragili. Le azioni del governo in Iran e la risposta dell’Occidente a questo regime hanno creato crisi e distruzione.

Questa è una guerra di logoramento senza fine e le sanzioni sono reazioni dei governi occidentali al regime iraniano, ma sono anche uno degli elementi che perpetrano questo contesto di crisi. Lo slogan corretto “né con Putin né con la Nato” deve trovare la sua logica continuazione nella questione dell’Iran, cioè “né con la Repubblica islamica né con le sanzioni e con l’intervento dei governi occidentali”.

La voce della sinistra radicale e rivoluzionaria iraniana è debole: la solidarietà internazionalistica al di là dei governi e dei parlamenti è un bisogno fondamentale, vitale e urgente per i movimenti di protesta in Iran.

Tutte le immagini da dw.com