approfondimenti
MONDO
In Sudan l’emorragia non si ferma
La sanguinosa guerra civile sudanese ha in parte antiche origini locali, esplose con la caduta della trentennale dittatura di al-Bashir, ma attualmente è alimentata in modo visibile dagli Emirati Arabi Uniti e coinvolge interessi Usa ed europei, interessati al saccheggio delle risorse del territorio
Cosa sta succedendo in Sudan? È impossibile rispondere davvero a questa domanda se intesa in termini politici oltre che umanitari, o almeno lo è da una prospettiva europea. C’è chi legge la situazione sudanese come il risultato di scontri etnici ereditati dall’epoca coloniale, chi significa la guerra come frutto di conflitti d’interesse legati alla ricchezza di risorse presenti sul territorio (oro, terre rare, gomma arabica, petrolio) e chi invece vede la crisi umanitaria e politica come figlia di un vuoto di potere emerso durante e dopo la lotta di liberazione dalla dittatura di Omar al-Bashir.
Sicuramente tutte queste ipotesi hanno un fondo di verità, tutte sono necessarie ma non sufficienti a spiegare la più grande crisi umanitaria al mondo e i più terribili crimini contro l’umanità della storia recente. Le Forze di supporto rapido (Rsf) sono l’eredità della milizia Janjaweed, che nei primi anni Duemila si è macchiata di crimini di guerra, contro l’umanità e persecuzioni di matrice etnica: nel 2013, infatti, il governo a guida al-Bashir ha formalizzato il gruppo paramilitare delle Rsf organizzando così l’allora formazione “a briglie sciolte” Janjaweed sotto un’autorità più controllabile. Lo stesso Mohamed Dagalo – detto Hemedti, attuale leader delle Rsf – era una figura di spicco tra le loro fila. I gruppi che subivano le violenze dei Janjaweed, come i Masalit e i Fur, sono gli stessi che subiscono le stragi delle Rsf.
Inizialmente le Forze di supporto rapido erano incaricate di sopprimere i movimenti di insurrezione ed effettuare operazioni di “controllo dei confini”, incarichi ben presto trasformatisi persecuzione etnica e crimini contro l’umanità, per i quali sono sotto indagine dal 2023 presso la Corte Penale Internazionale, in riferimento alle azioni all’interno del conflitto scoppiato nell’aprile dello stesso anno. Anche le Forze armate sudanesi (Saf, esercito nazionale “regolare”), non sono senza macchia: inizialmente sotto il controllo del governo al-Bashir, di cui erano letteralmente il braccio armato, poi con la guida di Abdel Fattah al-Burhan al fianco dei ribelli e delle Rsf nel suo rovesciamento nel 2019. Dopo la destituzione del dittatore trentennale hanno mantenuto la fragile alleanza con le Rsf, formando un governo di transizione con una componente civile durato solo fino al 2021.
Con un altro colpo di stato hanno assunto un potere di natura militare, ma la coalizione con la milizia – già di per sé problematica – ha retto solo fino al 2023: il 15 aprile è scoppiata la guerra civile che ancora oggi devasta il paese. Qui si comprende qualcosa di quel vuoto di potere, o meglio di quelle rivendicazioni di potere strabordanti e irriducibili fra loro, di cui sopra.
La ricchezza di risorse ha portato questo conflitto a eccedere i confini del Sudan, interessando il Ciad, la Libia, il Sud Sudan e, soprattutto, gli Emirati Arabi. Anche l’Egitto fa buon viso a cattivo gioco con il governo di al-Burhan, basti considerare che il Nilo, prima di raggiungere il territorio egiziano, passa per il Sudan: lì, infatti, confluiscono Nilo bianco e Nilo azzurro.
L’attore più controverso rimane Abu Dhabi: da sempre accusato dal governo di Khartoum di foraggiare la guerra sostenendo le Rsf, a cui fornirebbe armi e mercenari (anche internazionali, in particolare colombiani) in cambio di risorse, ha di volta in volta rimandato le accuse al mittente, ma le prove di un coinvolgimento sono ormai schiaccianti. Numerosi rapporti delle Nazioni Unite, un primo datato gennaio 2024, un secondo aprile 2025, dimostrano una catena logistica che dagli Emirati arriva fino a Nyala – capitale del Darfur del Sud sotto il controllo delle Rsf – passando per Ciad orientale, Sud Sudan e Libia.
I report indicano un tracciamento di aerei cargo non registrati che, in direzione Am Djarass (aeroporto del Ciad nordorientale), spariscono per qualche ora dai radar all’altezza di Nyala, per poi ricomparire ad Am Djarass. Pur non riuscendo a verificare il contenuto dei voli cargo, la catena logistica è innegabile. Da Nyala si irradia la rete infrastrutturale che raggiunge tutte le roccaforti della milizia, da ultima El Fasher. Da un altro report, questo confidenziale ma pubblicato in esclusiva sul “Guardian“, emerge il ritrovamento di passaporti emiratini sul campo di battaglia, nelle zone dello stato di Khartoum precedentemente controllate dalle Rsf e poi riconquistate dall’esercito.
Lo stesso documento indica che gli Emirati potrebbero aver fornito droni modificati per lo sgancio di bombe termobariche, artiglieria controversa e con capacità di distruzione molto maggiori rispetto ad altri tipi di arsenale dello stesso calibro, testimoniate poi dalla sofferenza e dalla morte dei sudanesi che ne hanno subito gli effetti.
È bene ricordare, a questo proposito, che i bombardamenti non hanno mai risparmiato siti civili: ne sono un esempio gli attacchi, perpetrati anche nei primi mesi di quest’anno, sui mercati di El Fasher e Omdurman, che hanno provocato decine di morti e centinaia di feriti. El Fasher, poi, è stata teatro della più grande strage degli ultimi anni in Sudan: la sua capitolazione a fine ottobre, per mano delle Rsf, ha comportato migliaia di morti e dispersi, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati.
Le maggiori organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch e Amnesty International, invocano un’indagine per crimini contro l’umanità sulle azioni delle Rsf a El Fasher, che hanno rievocato e superato per crudeltà l’assedio sul campo profughi di Zamzam (l’offensiva più devastante è avvenuta ad aprile 2025). Senza un sostegno esterno, la milizia non avrebbe potuto perpetrare queste atrocità, né conquistare tutto questo terreno: controlla infatti ormai quasi tutta la regione del Darfur e parte del Kordofan – dove ha già raggiunto alcune delle principali città, come Bara, e punta alla capitale El Obeid.
Il coinvolgimento Usa ed europeo
Nel frattempo, l’aspirante Nobel per la pace Donald Trump ha messo in piedi una task force dedicata alla crisi sudanese: il gruppo Quad vede tra le sue fila Arabia Saudita, Egitto, Stati Uniti, e non potevano mancare proprio gli Emirati Arabi. Si comprende come le proposte di un cessate il fuoco avanzate dal team Quad avessero già perso in partenza, Al-Burhan ha definito l’ultima «la peggiore ricevuta finora», perché, oltre alla presenza compromessa di Abu Dhabi, non prevede il ritiro e disarmo delle Rsf, che hanno invece accettato volentieri il piano, dichiarando unilateralmente un cessate il fuoco di tre mesi lunedì 24 novembre.
Tregua che già martedì 25 novembre è stata violata dalla milizia e i suoi alleati: il Movimento popolare per la liberazione del Sudan del Nord (Splm-N), parte del governo parallelo guidato da Hemedti, ha rapito oltre 150 ragazzi, tra cui svariati minori, dalla miniera di Zallataya (Kordofan sud); le Rsf, invece, hanno attaccato una base militare nel Kordofan occidentale (secondo una dichiarazione dell’esercito che non è ancora stata verificata indipendentemente).
Il consigliere speciale Usa per l’Africa Massad Boulos, inviato ad Abu Dhabi per discutere di Sudan, ha invitato «tutte le parti ad accettare il piano così com’è stato proposto, senza precondizioni», bocciando da subito le richieste di al-Burhan di prevedere quantomeno il disarmo della milizia. L’Unione Europea, dal canto suo, condivide le lacrime di coccodrillo trumpiane: dopo aver imposto delle sanzioni al numero due delle Rsf, Abdelrahim Dagalo, emesse dal Consiglio affari esteri, il Parlamento di Strasburgo il 27 novembre ha convocato una votazione su una Risoluzione legata alle ingerenze esterne nella guerra in Sudan.
Se la prima bozza condannava direttamente il coinvolgimento degli Emirati, proponendo addirittura di interrompere il trattato di libero commercio delle armi con Abu Dhabi (che sarebbe semplicemente una mossa ottemperante all’embargo sulle armi e alla legislazione internazionale in materia di commercio bellico in teatri di guerra), il documento finale che è stato approvato non nomina neanche lo stato del Golfo persico.
La presenza, nelle vesti di osservatori, dei diplomatici emiratini durante il voto parla da sé rispetto a questa virata angolare e repentina: Lana Nusseibeh, l’inviata di Abu Dhabi per l’Europa, è volata a Strasburgo insieme al suo entourage, dove ha partecipato a incontri con numerosi membri del Parlamento europeo. A tracciare la sottile linea rossa che ha determinato la cancellazione degli Emirati dalla risoluzione è stato il PPE, ma anche Marit Maij – negoziatrice capo per il gruppo S&D (socialisti e democratici) – ha ammesso a Politico di aver incontrato la delegazione emiratina su richiesta di quest’ultima, affermando però di avergli fatto presente che gli elementi del loro supporto alle Rsf sono schiaccianti.
Il sito europeo ha ironicamente sottotitolato il servizio: «Gli ufficiali emiratini hanno condotto una spinta lobbista eclatante mentre i parlamentari pasticciano una risoluzione sul devastante conflitto africano». Nel frattempo, il 19 novembre, l’italiana Leonardo spa ha ufficializzato una Joint Venture con il gruppo Edge (Emirati Arabi), di cui quest’ultimo deterrà il 51% e ne commercializzerà i prodotti in casa.
Da tutto ciò emerge un filo di legami politici, economici e finanziari che esulano dal contesto sudanese e rendono molto difficile individuare gli interessi concreti che muovono gli attori esterni a interferire nel conflitto e soprattutto la catena di beneficiari che non finisce certo ad Abu Dhabi. Tracciare il profilo delle dinamiche estrattiviste, lobbiste e quasi sempre neocoloniali non è semplice, ma a pagarle da più di cent’anni rimane il popolo sudanese.
La copertina ritrae il campo profughi di Khor Abeche (Sud Darfur) dopo un attacco delle Rapid Support Force avvenuto il 22 marzo 2014. L’immagine è di Enough project (Flickr)
SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS
Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno
