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Il sonno della ragione genera i nostri: l’innanegamento secondo Alexis Pauline Gumbs

Una riflessione sul desiderio che scorre, come una corrente oceanica, in Undrowned. Lezioni di femminismo Nero dai mammiferi marini, splendido testo poetico e simpoietico di Alexis Pauline Gumbs

Una riflessione sul desiderio che scorre, come una corrente oceanica, in Undrowned. Lezioni di femminismo Nero dai mammiferi marini (traduzione di Marie Moïse, Mariam Camilla Rechchad e Mackda Ghebremariam Tesfaù per i tipi di Timeo) splendido testo poetico e simpoietico di Alexis Pauline Gumbs, «femminista Nera queer, evangelista dell’amore e apprendista mammifera marina»

«Il Bianco, in quanto padrone, ha detto al Negro: “Ormai sei libero”. Ma il negro ignora il prezzo della libertà», perché, prosegue Fanon, «si tratta sempre della libertà bianca e della giustizia bianca, ovvero di valori prodotti dai padroni». Dal momento in cui il parlare non dice solo di un pieno possesso della sintassi, di una morfologia della lingua appresa (imposta?), ma è piuttosto l’assunzione su di sé della gravità di una cultura e di una visione del mondo, che cosa può mai significare la parola libertà? Quale il suo senso entro un’epistemologia che l’ha immaginata (l’ha estratta?) solamente a partire dalla schiavitù? Il manicomio e la prigione ne rendono tangibili i contorni, come fa lo storto e confuso verso dell’Animale davanti alla Lingua dell’Uomo – non potendosi incamminare verso il linguaggio la creatura tace e china il muso nell’aperto (che poi è, sempre e comunque un chiuso, un’enclosure). Così accade al Nero – il significato delle cose non è accessibile per chi viene nominato fra le cose stesse, «oggetto in mezzo ad altri oggetti». «Il colonizzato sa tutto questo», scrive ancora Fanon, e ride di cuore e affila le armi quando sente dire, e si sente dire, Animale. Perché ne conosce le strategie e le trame e sa che sono figure che sui corpi si scrivono o, meglio, s’incidono. Perché sa che questa lotta non si gioca entro la grammatica dell’umanità, della ragione e del riconoscimento, né del retto discorso sul diritto e dell’inclusione (caccia e cattura?). Io «non vengo affatto armato di verità decisive»: «Io chiedo che mi si consideri a partire dal mio Desiderio».

Il desiderio che scorre, come una corrente oceanica, in Undrowned. Lezioni di femminismo Nero dai mammiferi marini (traduzione collettiva di Marie Moïse, Mariam Camilla Rechchad e Mackda Ghebremariam Tesfaù per i tipi di Timeo) splendido testo poetico e simpoietico di Alexis Pauline Gumbs, «femminista Nera queer, evangelista dell’amore e apprendista mammifera marina» (p. 19), è quello di conoscere queste creature. E di farsi da loro conoscere. Affascinata dai loro profili sfuggevoli (veri e propri continenti sommersi e in cui immergersi), dai loro canti tanto sibillini quanto potenti, l’autrice si rivolge ai manuali che di questi esseri hanno parlato – alle scienze che su queste creature hanno affilato il loro discorso, le loro (le nostre) verità decisive. «Mi sono accorta subito che la lingua teoricamente “neutrale” della scienza marina riproduceva invece il linguaggio della devianza e della denigrazione […] e che conteneva imbarazzanti assegnazioni binarie di sesso biologico e una strana criminalizzazione dei mammiferi sfuggiti allo sguardo dei biologi. Io volevo solo imparare a riconoscere le balene e invece mi sto ritrovata a dover affrontare i costrutti coloniali, razzisti, sessisti, eteropatriarcali e capitalistici che cercano di uccidermi – la rete in cui sono già impigliata, per così dire» (p. 14).

Per districarsi da questa rete materiale e simbolica, Gumbs affina le sue armi – che non sono quelle del vero né sono decisive: via, quindi, dalle affilate verità che renderebbero possibile la conoscenza, per desiderare invece la negazione, l’imprecisione, di quei saperi che si sono inscritti sui corpi-animali come corpi-oggetti e sui corpi-neri come corpi-schiavi (del resto, sono proprio quegli stessi saperi che hanno definito questi corpi, rendendoli tangibili e veri, sono loro che hanno reso possibile caccia e cattura). I segni delle armi affilate (armi certo specifiche o specie-specifiche, dispositivi adatti e adattati alla loro materia, armi “intelligenti”, di precisione) non accomunano in qualche modo (impreciso, forse, e approssimativo per il Discorso) i dorsi delle creature-marine e delle creature-schiave? La loro pelle e le loro movenze non ne sono state similmente segnate, tracciate e piegate? Non si uniscono forse due scie nel solco del flutto? – la scia della snella torsione delle pinne caudali delle mammifere in fuga e la scia delle navi della tratta?

«La mia speranza […] riguarda la possibilità di passare da un processo di identificazione», processo che ha a che fare con la piena visibilità e con la classificazione e, di conseguenza, con la classe, la “razza”, il genere e la specie, a un altro «processo grazie al quale nutriamo la nostra empatia e rendiamo più fluidi i nostri confini» (p. 17). Ecco allora la necessità di elaborare, assieme alle creature marine, strategie di sopravvivenza per inannegare in un mondo che ti vuole predata oppure esposta (in ogni caso, avvinta nella sua rete) – se non può direttamente divorarti, il capitale troverà modo per espropriati la terra in cui ti muovi, inquinare l’acqua in cui nuoti e rarefare l’aria che respiri… Vogliamo trovare un modo, una via di fuga, per farcela insieme? «Compito rischioso», si badi bene, perché «mi rende vulnerabile […] anche a un’eventuale proiezione autoriferita su di un insieme di esseri che non possono reagire verbalmente alle mie proiezioni» (p. 17). Compito rischioso che, però, può finalmente essere giocato non su, ma con quelle creature. Non lo insegna forse la beluga mutaforme, che si lascia intravvedere solo nel suo istantaneo, improvviso, fulgido biancore? – con la schiena che emerge per un attimo e pare calotta di ghiaccio e come ghiaccio riflette e restituisce una voce, nella quale «i ricercatori di bioacustica sentono tutto: il suono di un canarino, un’orchestra che si accorda, una folla di bambini che grida in lontananza» (p. 93). Non lo insegnano forse le balene dal becco d’oca, «grande mistero cetaceo» (p. 104), davanti alle quali ogni supposizione cola a picco per insufficienza di dati?

Intessere un’alleanza, a partire da un lutto condiviso, da una mutua resistenza al capitale e alla sua tentacolare oppressione e insieme inannegare nelle profondità dell’esistere per portare conforto, assistenza, affetto o ricordo a quei corpi dispersi nella faglia che è stata, ed è, la linea del colore, che è stata, ed è, la linea di specie. Compito che si fa ancora più rischioso perché se l’animalità è stata vettore di discriminazione, se ha giustificato spoliazioni, violenze e messe a morte, riaffermare o ricostruire la dignità dei corpi offesi riconoscendone l’umanità – giocare, ancora una volta, una delle figure contro l’altra – significa non discostarsi di molto dallo stato di cose presente. Sottolinea anzi Zakkiyah Jackson in Losing Manhood che l’“umanizzazione” non può essere mai riparatoria – se è proprio la schiavitù a produrre e costruire un umano plastico, disponibile, manipolabile. «Il soggetto (reso) nero può essere definito solamente come plastico […]. Le tecnologie della schiavitù non sono mai state una negazione dell’umano, ma una plasticizzazione dell’umano».

È il 1781, il capitano della nave Zong, destinata al trasporto di schiavi, getta nell’oceano centotrenta schiavə, moltə dellə quali malatə, per incassare l’assicurazione su una “merce guasta”. Riceve un’accusa di frode (non di omicidio e di strage!) dagli armatori e noi oggi ne leggiamo gli atti: lungo tutto il processo lə schiavə uccisə sono sempre e solo merci, proprietà, cose. Is this a story to pass on?, chiediamo con Toni Morrison, è questa mai una storia da tramandare? E, se la risposta è affermativa, come farlo? Quali armi affinare per seguirne la scia? Che cosa si porta in salvo dell’esperienza storica del middle passage, se ogni narrazione, se ogni traduzione è tradimento? – a partire dalla lingua delle creature marine che vi hanno verosimilmente assistito attonite e indignate, che hanno espresso solidarietà modificando le loro rotte migratorie. Una via, forse, è quella indicata dalla testarda resistenza dell’oggetto. «Poiché sul piano della ragione l’accordo non era possibile», ancora Fanon, «mi rigettai verso l’irrazionalità» – mi ci immergo per far giocare lo spartiacque contro se stesso, per confondere le acque. C’è un dolore così grande da non poter essere nominato o che non voglio nominare. Chiedo pertanto aiuto alle creature marine, alla Hydrodamalis giga, delle dimensioni di tre lamantini, che viene “scoperta” nel 1741 (nominata in forma di verità decisiva) da uno zoologo tedesco e che in 27 anni si estingue sotto la pressione della caccia/cattura per trasformare le loro pelli in capitale, caccia/cattura fin da subito indissociabile dalla colonizzazione del Nord America (p. 28) – e, facendo questo, tradisco la mia specie e ne sgretolo il Linguaggio, immergendovi, affondandovi, un vissuto che è indicibile (lo si chiami Colonialismo, lo si chiami Capitale, lo si chiami Impero, lo si chiami Anthropos…).

È, ancora una volta, questo il desiderio di Undrowned. «Potrei imparare dai delfini del fiume Indo un linguaggio di presenza continua che si trasformi in un dono? Una lingua che salvi una specie dall’orlo del baratro, una lingua che dia la vita? Potrei impararla? Potremmo impararla? […] Quello che voglio dirti richiede una lingua ricettiva, più sfaccettata di qualsiasi lingua abbia mai parlato. […] Richiede di deviare la mia dipendenza dalle informazioni visive, Quindi chiuderò gli occhi e te lo dirò. Qui. Sono qui. […] Ecco qui. La mia poesia per te». (pp. 80-81). Una forma di cura e di riparazione, un aggiustare le maglie di un mondo, che è il nostro, per rompere la rete – di un mondo, che è il nostro. Reclamiamo insomma una cura assieme creatrice di parentele e dissolutiva di legami (letteralmente) di sangue, di confini di specie. «Le stenelle maculate pantropicali sono nuotatrici sincronizzate e creatrici di comunità. Viaggiano in banchi di centinaia, ma all’interno dei banchi si organizzano in gruppi di venti esemplari […]. Nell’oceano partecipano a collettivi interspecie dinamici formati da altri delfini […], tonni pinna gialla e uccelli marini» (pp. 63-64). Impariamo a guardarci le spalle l’un l’altra – le nostre schiene sono già vessate dalla violenza del capitale: «C’è chi dice che le discendenti delle persone sopravvissute al middle passage abbiano tutte una piegatura pelvica o spinale […] per riuscire in qualche modo a sostenere ciò che non avremmo mai dovuto sostenere» (p. 59) – tu però sapevi che le balene della Groenlandia vivono lungo secoli e secoli e la loro colonna vertebrale non s’irrigidisce mai? Che continua a mutare, crescere? Non lo sapevi? Impariamolo insieme. Impariamo, dalla prospettiva sommersa (è quella che assume la susu del Gange, quando nuota voltata su un fianco), a guardare i mondi in una maniera da invenire insieme. Abbiamo bisogno di nuove narrazioni e nuove storie con altre specie di protagoniste, altre specie di sconfitte, vittorie, lotte e fallimenti. Abbiamo bisogno dell’«ontologia selvaggia» del Foucault de Le parole e le cose, che «cercherebbe di dire l’essere e il non-essere indissociabili», «che non svela tanto ciò che fonda gli esseri, quanto piuttosto ciò che li porta un istante ad una forma precaria»: «L’individualità, con le sue forme, i suoi limiti e i suoi bisogni non è che un momento precario».

Haraway sostiene che si dovrebbe imparare a fare, con le altre specie (questa parola è una verità definita o è un momento precario?), una staffetta. E così lungo la scia di Undrowned si passano il testimone Debbia Africa, le cui compagne di prigione hanno nascosto il parto facendo più rumore possibile, e le comunità di delfini, che invece abbassano la voce affinché i cuccioli possano apprendere i loro nomi. Quegli stessi delfini che per non annegare dormono con un occhio sempre aperto – «Come diverse artiste Nere […] stanno dimostrando in maniera brillante, il riposo è resistenza e il sonno è politico. Gli incubi sistemici sono una minaccia per il nostro sonno. E i regimi di danneggiamento sistematico che ci privano dei limiti del riposo sono gli stessi sistemi che erigono i confini punitivi in cui innumerevoli famiglie vengono isolate, rinchiuse, stressate e insonni» (p. 101). Vi chiediamo, allora, un’ultima torsione (spinner sono detti i delfini che quando saltano si avvitano su sé stessi! Lo fanno, se vogliono, per sette volte di fila. Lo sapevi? E sapevi che non sappiamo cosa significa?): abbandoniamo la nostra storia – «la traiettoria della schiavitù, della prigionia, della separazione e della sopraffazione» – e ritorniamo in circoli a giocare in cerchio. «Invoco» perciò «le nostre compagne mammifere umane […] eccezionali nel non annegare» (p. 10). «Perciò le invoco quali maestre, mentori, guide. E invoco voi, affini anime che respirano» (p. 10). Perché «forse il mondo può esistere senza di te. Ma io no. Non esiste casa, se non sono con te» (p. 71).

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