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Il macchinismo desiderante dell’in/compost di Félix Guattari

“La trasformazione della psicoanalisi in componente essenziale dell’ordine sociale non giustifica la rinuncia totale all’analisi dell’inconscio. Così come pure lo stallo in cui si trovano i movimenti rivoluzionari non deve lasciare il passo alla diserzione della politica.”

È da poco uscito per i tipi di Orthotes e con la traduzione di Rosella Corda “L’inconscio macchinico”, raccolta di saggi sulla schizoanalisi di Félix Guattari

«Invoco con tutto me stesso una mutazione della psicoanalisi, l’emergere di una psicoanalisi mutante», chiedeva, con rabbia, Paul B. Preciado all’École de la Cause Freudienne al termine della sua mostruosa quanto incalzante requisitoria. Dibattito e dibattimento del mostro (il corpo molteplice, riunito nel nome d’uno, dei 3500 psicoanalisti presenti in sala) col mostro (il corpo non binario), che sollecitava la transizione della psicoanalisi verso un altrove ancora non situato – ci penseremo assieme, lungo la via, e però, per favore, nel frattempo mettiamoci all’opera –, il suo sviticchiarsi da pose e posture ormai fossilizzatesi in istituzione, che avevano reso, e tuttora rendono, l’analisi dell’inconscio una pratica normalizzante e disciplinante, una componente portante dell’ordine sociale. «La mia missione è la rivalsa dell’oggetto psicoanalitico e psichiatrico (in parti uguali)» su quei dispositivi che pretendono di inscriverlo in dispositivi clinici, per renderlo ordinario da patologico che era, e ordinato, e anche però, di conseguenza, muto. «L’inconscio ha ancora qualcosa da dirci?», si chiedeva Guattari, ed era il ’79, ne L’inconscient machinique. Essais de schizo-analyse, lavoro recentemente approdato in Italia per i tipi di Orthotes in traduzione di Rosella Corda. «Gli si è accollata talmente tanta roba addosso che sembra aver deciso di tacersi!» (p. 7). L’inconscio tace proprio perché la corporazione che se ne occupa, che se ne arroga il privilegio e l’autorità d’interpretarlo, è giunta a pensarlo in guise strutturate e strutturali, svuotandolo, tra le altre cose, da folclore e archetipi (che pure peccavano nel bloccarne la plurivocità e la libertà e le manifestazioni in una, un po’ troppo spesso eguale a se stessa, mitografia), incasellandolo in griglie esplicative asettiche – entrando nel regime psicoanalitico, l’inconscio viene sterilizzato, e se ne perde così il suo proliferante fabbricare desiderante.

Perché, sostiene Guattari, «l’inconscio lo vedrei piuttosto come qualche cosa che gironzola un po’ ovunque intorno a noi, nei gesti, e fra gli oggetti quotidiani, così come in televisione, nello spirito del tempo e anche, e forse soprattutto, nei grandi problemi del presente» (p. 7). L’inconscio sarebbe, «piuttosto», quell’intensità infestante che corre a fior di pelle e affiora nel linguaggio, nella dimensione sociale e comunitaria, nella sfera pubblica e in quella privata, e ogni cosa sfiora, elettrico, e ogni cosa mette in moto. L’inconscio invocato da Guattari, l’inconscio che innerva il testo e la sua più generale produzione è, infatti e non a caso, macchinico. Ossia non meccanico, ma capace (e desideroso) di macchinare. È una tecnologia d’invenzione, e non di legittimazione e di disciplinamento, che restituisce intensità e movenze a parole, immagini, memorie, pensieri umani e non-umani, fili d’erba e canti di fringuelli, interi biomi, sonate al piano o al violino… Capace di scavalcare ciò che è maggioritario, ciò che appare come oggettivo, ragionevole, quel che detiene quel di più (quantità non statistica: ha, «piuttosto» a che fare con rapporti di dominanza) d’autorevolezza, di sapere ed esemplarità – ciò che è, le cose come stanno, per dar luogo al divenire (e, ricordiamolo per Guattari, nel suo concatenamento con Deleuze, ogni divenire è un divenire minoritario). Macchinismo e macchinazione del cosmo intero, che il cosmo intero fa risuonare – per vibrazioni, sussulti, ritornelli –, lasciando che si ricomponga sempre e altrimenti, e che annunci, e invochi, altro rispetto alla cosmologia che è stata imposta. E che apra il possibile – gli (o le?) si è accollata talmente tanta roba addosso che sembra soffocare –, nuove costruzioni dalla realtà labile e di realtà povera, «ma capaci di esprimere con precisione la realtà del desiderio dei suoi soggetti» –, questa la pratica psicoanalitica per Kristeva, raccontata in In principio era l’amore,lungo un altro dibattimento del mostro col mostro. Si tratterebbe di restituire la trama rizomatica all’analisi, liberando il suo discorso, e quello dellə “pazientə”, dal sigillo-suggello del giudizio e del ragionamento verificabile, e dunque veridico e veritiero. Laddove la disciplina si è «piuttosto» ancorata entro un angusto paradigma, proveniente dalla teoria dell’informazione, già installatasi nella versione egemone della linguistica, che privilegia la comunicazione come scambio e «trasmissione di messaggi, essendo il resto nient’altro che rumore e ridondanza» (p. 19).

Il gesto economizzante perde, inseguendo una più vantaggiosa scientificità, la micropolitica che avviluppa ilsoggetto reale, su cui ogni relazione schizoanalitica dovrebbe basarsi, riguadagnando la corporeità dell’indagine – e la corporeità marcata della minorità, di contro all’oggettività disincarnata. Questa, «piuttosto», si attesta su di un’«enunciazione in generale, fuori dal tempo e dallo spazio, separata dalle lotte, dai desideri reali degli uomini e delle donne, in breve, […] una enunciazione alienata» (p. 20). Su un’astrazione a più piani. Ecco, dunque, la lingua come strumentazione neutra, laddove, ricorda Guattari, entro uno stesso campo pragmatico nessunə può fuggire a contingenze storico-sociali: quella nazionale e dell’Accademia sarà una metalingua, e un’altra lingua ancora sarà quella parlata dalle donne, e dallə anzianə, e dallə migranti… (sono un mostro che vi parla, facendo propria una voce che si vorrebbe appropriata, ma che, inappropriabile, non è davvero mia). Ecco il genere e la pronominalità come regime binario in cui il «divenire corpo-sessuato sarà negoziato nel suo rapporto con il “divenire corpo-sociale”» (p. 35), e in tal modo ricondotto, da scostante e scontroso e fluido che era, a genere leggibile e identificabile. Ecco la Musica e la sua iscrizione nello spartito e nel registro del teatro e dei media, ed ecco la danza, che va separata dal discorso e solo portata in scena (la cadenza ritmata della parola incarnata sarebbe, altrimenti, un residuo tribale, e leverebbe così sospetto). Ecco ancora l’Animale, concetto astratto dal quale carne, pelli, cosmetiche e farmacologie (e, per converso, riflessioni sull’umana Natura) possono essere estratte senza remore o compassione alcuna – Guattari mostrerà, poco avanti, che nessuna faglia del desiderio separa in realtà i consorzi umani da quelli non-umani. Ed ecco anche un severo catalogo di intensità, che decide come si sorride (un sorriso troppo marcato è smorfia insolente, un’offerta troppo affettata è subdola) o come si deve apparire (un viso troppo vecchio provoca dispiacere o ribrezzo; una pelle troppo scura timore e diffidenza)… L’astrazione crea, a partire da variabili materiali, simboliche e semiotiche pressoché infinite e certamente non enumerabili nelle loro altrettanto infinite combinazioni, dei punti di fuga in cui le linee vengono fatte convergere, creando un (!) senso, unico e univoco. Un corpo eretto, bianco, etero, abile e maschio; un corpo sociale dai movimenti concordi, membra riunite da un apparato centralizzato, a cui il corpo singolare ha da affidarsi per ricevere conferma d’esistenza, legittimità, comprensione e leggibilità. L’astrazione ri/produce pertanto un’etologia, una politica, un’epistemologia, per accordarsi una legittimità che non le pre-esiste. Il moto centripeto dell’astrazione tutto prende in sé e tutto a sé chiama, anche la dimensione della temporalità: si crederà che tali strutture erano già lì in potenza, «che i loro elementi portavano in germe la produzione della forma del Capitale, del Significante, della Musica…» (p. 32); «la sua funzione è oggi di dispiegare, in tutti i domini, dei sistemi di coordinate di potere» (p. 46).

L’inconscio macchinico, tuttavia, ne è sempre fuori, ed è sempre il Fuori, che riprende quel che è stato sottratto al libero gioco, e messo a profitto, ad accrescere la produzione, la riproduzione e la produttività. Suo fascino, la macchinazione, è appunto irresistibile: niente – e nessunə – può avvicinarlo senza volerlo poi in/seguire, parafrasando Debord nel suo in girum imus nocte et consumimur igni. Esempio dell’architettura parallela che si può, per queste retrovie, rintracciare (non forse costruire o edificare) è il testo proustiano, il cui procedimento si lascia innescare da visi, odori, sensazioni e melodie – elementi improvvisamente disappropriati dal contesto che se n’era impadronito, che si mettono in fuga, e concorrono liberi – macchinando, appunto, un nuovo modo e un nuovo mondo –, «liberando […] a partire da un rumore, una parola, un gesto, una proliferazione di intensità di desiderio, rimaneggiando le “gerarchie” che presiedono all’organizzazione del mondo quotidiano» (p. 82). Un esempio è il divenire animale kafkiano – laddove in Proust, per Guattari, esiste «piuttosto» un divenire femmina (termine, certamente, contingente: «questa passività, nel contesto dei valori fallocratici dominanti, sarà vissuta da Proust come un tocco di femminilità», p. 288), una rinuncia totale alle formazioni di potere e all’accumulazione, e la disponibilità – fiducia – a seguire i ritornelli deterritorializzanti e gli innesti macchinici ovunque questi condurranno: dal cortile di palazzo Guermantes al selciato diroccato di San Marco, al bacio della madre prima di coricarsi, al tempo ritrovato… Ovunque: fino alla dissoluzione del soggetto stesso, scomposto dal flusso di figure che non si rapprende in immagine, e non rimargina la ferita. Più che una parallela architettura, forse una parallela e sotterranea cartografia di un territorio, anatomie di corpi che si ritenevano mappati una volta per tutte, e così drenati, resi fruibili e percorribili nel retto senso.

Perché è anche residuo delle cristallizzazioni di potere ritenere che il senso si dia solo come significazione – oggetto d’un enunciato linguistico o logico esclusivamente umano. Con Husserl di Ideen I, ricordiamo che Sinn (senso) e Bedeutung (significazione), spesso sovrapposti, finiscono per inerire solo alla sfera linguistica; eppure «è inevitabile, e rappresenta inoltre un importante passo avanti della conoscenza, l’ampliamento […] di queste parole e la loro conveniente significazione», grazie alla quale esse trovano applicazione «a tutti gli atti, siano o no connessi con atti espressivi. La parola senso (Sinn) la adoperiamo nella massima ampiezza»: senso è, insomma, tutto ciò che sente, che si sente sentitə, che sente sentirsi sentitə… Ogni formazione di potere si regge anche su macchine semiotiche extra-umane, ed è buon gioco nasconderne movimenti, voci e ruoli, per presentarle come materia inerte – e solo meccanica, mai macchinica. «Piuttosto», chiede Guattari, «cosa ci sarebbe di scandaloso ad affermare che […] un “pensiero”, se si vuole, presidi all’evoluzione di ciascuno dei rami del phylum animale? Certo, non di un pensiero concatenato individualmente, ma un pensiero a “n” dimensioni dove tutto si mette a pensare al contempo, tanto gli individui quanto i gruppi, il “chimico” e il “cromosomico” o la biosfera» (p. 120). Il soggetto umano si riposiziona così, da centro in cui si era situato, più a latere, o più a margine, o direttamente fuori; una delle entità, o ecceità (in Mille piani, si diceva: «C’è un modo di individuazione molto differente da quello di una persona, di un soggetto, di una cosa, di una sostanza. Gli riserviamo il nome di ecceità. Una stagione, un inverno, un’estate, un’ora o una data si caratterizzano per un’individualità perfetta, che non manca di nulla, sebbene non si con-fonda con quella di una cosa o di un soggetto…»), agente, patente, parlante. Macchinica.

I concatenamenti che legano tra loro soggetto e mondo, organismo e ambiente, specie e suo intorno, codice genetico e fenotipo, non sono dati una volta per tutte, perché il macchinismo, come il fine storico benjaminiano, riesce a passare il tempo a contropelo e annullare la causalità e la predeterminazione, sconvolgendo il senso di lettura che va dal più semplice al più complesso, dallo spontaneo all’intenzionale. Perché i concatenamenti sono sempre in attesa di ciò che li rimetta in moto, consentendo la ripartenza – percorsi da una linea di deterritorializzazione. Guattari prende il caso del corteggiamento rituale – che ha poco di rito e di trito, e tanto d’inventiva, d’intensità circolante – dei passeriformi cosiddetti diamante. A un primo sguardo, a qualsiasi altezza, nell’accoppiamento sono coinvolti quattro fattori: l’esemplare maschio, l’esemplare femmina, un filo d’erba e il nido da costruirsi con l’erba stessa. Eppure, le fila della trama si scompongono e si ricompongono, dando luogo alle scene più diverse: nel genere bathilda il maschio tiene effettivamente nel becco il filo d’erba, mentre corteggia la femmina mimando la costruzione del nido; i maschi neochmia, muovendosi come se stessero costruendo il nido, tengono in bocca materiali sempre differenti rispetto all’erba che verrà poi utilizzata. Configurazioni ancora diverse negli aidemosyne e negli emblema, il cui il filo d’erba in un caso non appare nemmeno e nell’altro viene solamente beccato, e non usato come materiale di costruzione. Sono, insomma, numerose le storie che si possono intessere, pure se i/le protagonistə paiono, a uno sguardo oggettivante e astratto e dunque distratto, sempre eguali. Perché numerose sono le faglie del desiderio – del passero e del filo d’erba, e del nido che verrà o meno costruito – pronte ad aprirsi in nuove linee di fuga – linee mai raccolte in punto: non abbiamo forse a che fare con la scrittura di un testo, che mantiene una sua autonomia proprio perché lə futurə e lə passatə, e lə presenti lettorə non possono essere immaginatə in anticipo?

«I fili d’erba, i ritornelli, i volti, per gli uccelli ma anche per le passioni, per l’intelligenza umana, non sono strumenti di conoscenza, operatori pragmatici come possono essere, in una fabbrica, parole parlate, parole scritte, cifre, grafici, piani, equazioni, o memorie informatiche? La significazione del mondo, il senso del desiderio, dacché si pretende di coglierli fuori delle ridondanze dominanti, esigono che si allarghi la gamma delle nostre risorse semiotiche» (p. 150), e accettare che concatenamenti non solo umani, ma più in generale biologici, e ancora più in generale materiali (o inorganici, o impercettibili), e più in generale (!) ancora, sociali, siano in grado di macchinare una propria sorte, raccontando e, di conseguenza, realizzando universi eterogenei. L’inconscio macchinico, allora, non è lingua comunemente intesa, e le è anzi tanto estranea da ricongiungersi alla scrittura – che, lamentava Saussure nel Corso di linguistica generale, «è in se stessa estranea al sistema». «Offusca la visione della lingua: non la veste, ma la “traveste”». La sua azione è dunque «viziosa» e i suoi misfatti «mostruosità» e «casi teratologici». La scrittura del testo può certo essere calcolata in anticipo, può essere misurata, può essere ragionevole. Un testo può essere paradigmatico, impugnare la verità, detenere la parola. Ma numerosi sono i segni grafici, le note, gli scoli, le aggiunte, le omissioni, i puntini di sospensione, i trattini… – il testo si può sempre manomettere, il testo sempre gioca al travestimento e alle lunghe e versate traversate. E, soprattutto, lo scritto non è dato una volta per tutte. Lo avranno nelle mani altre persone, lo percorreranno altre zampe ed escrescenze, altre antenne, altri tentacoli, altre squame. Io stessə non mi ci potrò bagnare due volte alla stessa maniera – in Proust la ripetizione diventa inaudita, l’accumulazione non è ricompresa mai in essenza universale, né regala spessore al narratore, aperto, «piuttosto», a tradurre a farsi tradurre altrove, e lasciarsi prendere in virate esistenziali (e così, riscrivere e riscriversi, in infinito intrattenimento). Il corpus e i corpi si abbandonano assieme? Per sapere dove giungeranno, dovremmo aprire oltre misura occhi, orecchie e mani? E, se ogni forza di questo mondo ha effettivamente a che fare con l’attività e la forza, ricordava Simone Weil, pure potrà essere forza passiva, un’azione non agente, qualcosa che deriva dalla transizione attraverso qualcosa che è una morte. Dovremmo perciò domandarci: in questo sforzo ci de/comporremo? Per divenire femmina, animale e, ancora, compost com/pensante? Così allora sia: «lasciamo», come c’invita la Ricerca, «disgregarsi il nostro corpo», per ri/comporsi altrove, in altro modo, in mondo altro.