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Il dolce naufragare nella ferita dell’amicizia

Michel Foucault nel 1982 dichiarava: «se c’è una cosa che mi interessa, oggi, è il problema dell’amicizia. Dopo aver studiato la storia della sessualità, bisogna comprendere la storia dell’amicizia». È da qui che prende avvio il lavoro di Lorenzo Petrachi “Rovine dell’amicizia. Il progetto incompiuto di Michel Foucault” da poco uscito per Orthotes

«L’amicizia fu forse promessa a Foucault come un dono postumo […]. Testimone io stesso di un’opera che chiede di essere studiata (letta senza preconcetti) piuttosto che lodata, ritengo di restare fedele, sia pure inadeguatamente, all’amicizia intellettuale che la sua morte per me dolorosissima mi permette oggi di dichiarargli; mentre rammento il detto attribuito da Diogene Laerzio ad Aristotele: “O amici miei, non ci sono amici”», così Blanchot nel denso Michel Foucault come io l’immagino. «Se c’è una cosa che mi interessa, oggi, è il problema dell’amicizia», dichiara del resto Foucault nel 1982 e aggiunge: «Dopo aver studiato la storia della sessualità, è necessario cercare di comprendere la storia dell’amicizia, o delle amicizie». E, nello stesso periodo, interrogato circa progetti e intenzioni, esclama: «Oh, anzitutto ho l’intenzione di occuparmi di me stesso!».

Della storia dell’amicizia immaginata da Foucault si occupa – dono postumo – Lorenzo Petrachi nel suo Rovine dell’amicizia. Il progetto incompiuto di Michel Foucault, recentemente pubblicato da Orthotes. Di una storia dell’amicizia incompiuta, pratica che Foucault ha saggiato, esposto e vagliato a più riprese, lungo il corso di tutta una vita – storia dei movimenti d’un esperienza prima della sua cattura da parte del sapere, come era stata la Storia della follia. Storia che in Petrachi è innescata da un inciampo prossimo, se non presente: il decreto del 26 aprile 2020 sulla pandemia, che introduceva la nozione di congiunti e di affetti stabili – ancora Blanchot nel ricordo dell’amico «e poi quale stranezza è mai la storia, quando […] a farla barcollare è un semplice decreto» –, nozioni non facili da maneggiare, ma che tanto agevolmente lasciavano fuori dal proprio novero la figura, per contrasto evidente, dellə amichə. «Attraverso quali avvenimenti imprevisti, per quali giochi del vero e del falso, a opera di quali torsioni del pensiero, dei comportamenti o anche del sentimento, o con l’agevolazione di quali strumenti e architetture, soprattutto contro chi abbiamo potuto acquisire questa evidenza così ben ripartita e indebitata?» (p. 11), si chiede dunque Petrachi, accingendosi alla ricerca d’un s/oggetto – l’amicizia, appunto – che davanti a tale interrogativo, se già non si dissolve, perde comunque la propria determinata unità. Perché ciò che interessa dell’amicizia, del suo ruolo e della sua visibilità (istituzionale e non), dei suoi nomi e dei suoi riti, è anzitutto la sparizione, la sua rovina: una nuova maniera d’essere, che assomiglia al non esserci più. Infatti, se l’amicizia oggi può essere nominata come ordinario scambio di convenevoli e di convenienze, questione privata e parentesi rispetto alle pressioni, regole e gerarchie del mondo là fuori, è perché prodotta entro quelle stesse pressioni, regole e gerarchie; figlia legittima del modo di produzione neoliberista, la promessa d’amicizia odierna è un’economia che vale fintanto che conviene – fintanto che non comporti eccessivo affanno, fintanto che non reclami, per sé, un troppo di tempo e d’impegno, fintanto che non s’immischi con l’amore o con il sesso (è solo amicizia o qualcosa di più?, restiamo amici…), né ancora scomponga il confine tra i due. L’amicizia, come tempo libero che consente quella soddisfazione appena (il giusto) sufficiente a rinfrancare il sistema, va dunque mandata in rovina: dispersa, non annientata ma decomposta e ri-offerta, questo il gesto, e fatta riaffiorare in una pluralità di posizioni – presenti e prossime.

Esercizio che nuovamente, come avveniva in Che cos’è un autore?, preclude al soggetto il ruolo di fondamento e di fondazione, per lasciarlo apparire piuttosto come una funzione, tanto variabile quanto complessa; non a caso scriveva Bataille in L’amicizia: «L’esistenza non si trova dove gli uomini si considerano isolatamente; essa comincia con le conversazioni, il riso condiviso, l’amicizia, l’erotismo – essa ha luogo solamente nel passaggio dall’uno all’altro». Proprio alle spalle del soggetto (o al di là e oltre) si gioca l’amicizia (e l’esistenza dell’amicizia, e l’esistenza tout court): la comunicazione, nella misura in cui è apertura, testimonia anche (o anzitutto) un’incrinatura – «una lacerazione in se stessi, una lacerazione nell’altro», e «quel che viene “comunicato” da questo punto estremo a un essere, e da un essere a questo punto estremo, è il folgorante bisogno di perdersi», per continuare con Bataille. Ricorda, in effetti, Petrachi che «la via d’accesso privilegiata» alla discussione di Foucault sull’amicizia, alle sue variazioni e incursioni sul tema, proviene proprio dall’«idea dell’amicizia come modo di vita perlopiù in rapporto alle modalità di contestazione e d’invenzione messe in atto dalle comunità gay e dai singoli individui che, più o meno consapevolmente, si oppongono al dispositivo della sessualità e della produzione eterosessuale delle forme tradizionali» (p. 19).

Amicizia, quindi, come figura di quella che è stata (per scherzo, seriamente) chiamata sadoanarchia – sottomissione e dominio sono risorse di cui il Sistema ha bisogno per sopravvivere, e reclamarle qui e ora, e fra noi giocare alla sottomissione e al dominio, è agli occhi di quello uno spreco innominabile: solo a Lui andrebbero indirizzate tanto la docilità quanto la brama, scevre però d’ogni pericolosa gioia. Amicizia è, allora, nome per quei rapporti non dettati dalla razionalità corrente, basata su norme di genere e corrispettive gerarchie, né dall’imperativo di godimento del ri/produrre: da quei rapporti di piacere nei quali, appunto, il soggetto perde o sospende se stesso – lacerazione nell’altro perché ci s’immedesima, lacerazione in se stessi perché nell’intensità del piacere ci si smarrisce, divenendo noi stessə una sua modulazione e frammento, incrinatura, dispersione nell’impersonale. Insomma, l’amicizia – è Foucault che parla in Prefazione alla trasgressione – come piacere trasgressivo, nella misura in cui «non c’è niente di negativo nella trasgressione» e poiché essa «si apre su un mondo scintillante e sempre affermato»: sua opera inconclusa è appunto sospendere la norma, la ri/produzione dell’esistente, financo della temporalità come la conosciamo. Secondo Marcuse prima, Hocquenghem ed Edelman poi, la perversione è ribellione e detour rispetto alla sessualità informata dall’ordine igienico e familista della procreazione – una rottura del senso dell’Io e della libido, godimento non più relegato alla sfera genitale (e privata), ma diffuso e mobile, in tutto il corpo come in tutto il corpo sociale, erotizzazione dell’intera persona e della “comunità”, senza alcuno scopo esterno al piacere stesso, e dunque, per questo, anche sterile e improduttiva, se non addirittura mortifera.

«L’amicizia, scrive Tom Roach, sarebbe da intendersi per Foucault come “una relazione informe e senza telos”» (p. 51) e si può imparare disinformandosi a divenire amichə come, secondo Bersani, per Foucault si poteva «“imparare a divenire gay”», ossia «“lavorare al fine di inventare relazioni che non imitino più il modello eterosessuale dominante di una relazionalità basata sul genere e fondamentalmente gerarchica”» (p. 61). Il che può significare una piccola messa a morte del sé: «L’amicizia blanchottiana presuppone un’amicizia con la morte che, separando l’individuo da se stesso, assicuri la persistenza di uno iato tra gli amici, facendo sì che ciascuno costituisca “per l’altro un altro e non una variazione eidetica del me stesso, un semplice alter ego”» (p. 80). Così, quest’invenire nuove modalità d’esistenza per cui pare non esserci nome né spazio, esistendo al di fuori dei percorsi del riconoscimento,è un gesto sì liberatorio, ma che del pari comporta sofferenze ed esclusioni assieme psichiche, economiche e materiali. Eppure non dev’essere un muoversi nel vuoto pneumatico, senza comunità (e amicizie, appunto) né senza storia: cari all’archivio foucaultiano sono, fra gli altri, i testi di Boswell, Faderman e Bray, che Petrachi ripercorre per evocare, dell’amicizia, trascorse e presenti rovine. Boswell che, in Cristianesimo, tolleranza e omosessualità, illustra l’incapacità (spesso anche filologica) di distinguere tra amicizia e amore (l’incontro, nel 1118, fra Guglielmo di Saint Thierry e Bernardo di Clairvaux: «Se quel giorno avessi potuto scegliere, l’unica cosa che avrei voluto sarebbe stata di rimanere sempre con lui per servirlo»). Faderman che disegna un «continuum lesbico capace di tenere insieme relazioni estremamente sessualizzate e “semplici” amicizie fra donne», permettendo «di pensare all’esistenza di un ventaglio molto ampio di relazioni tra persone dello stesso sesso» (p. 123). Infine, se in Faderman era l’impotenza e la marginalità femminili a consentire un certo tipo di rapporti ed esperienze emotive – l’isolamento, la scarsa rilevanza sociale e politica delle figure e del loro intreccio diventavano uno spazio di possibilità e di sperimentazione –, in Bray è la leggibilità civile dell’amicizia del mondo rinascimentale a farsi rilevante, con la sua ritualità, le sue cerimonie pubbliche, i suoi suggelli (al pari dell’unione matrimoniale, pur entro uno stesso universo incentrato sul nucleo familiare). Comune a queste narrazioni è la sospensione dell’interrogativo sul sesso: il dubbio o la volontà di sapere se lə amichə facessero o meno sesso tra loro è solo nostra.

Si può pensare, dunque, a una comunanza erotica mettendo a latere la grammatica del sesso e della sessualizzazione? Interrogativo di Foucault che Petrachi a sua volta interroga e che richiama la domanda derridiana se sia possibile pensare una politica che superi il principio di fraternità, la libera (perché autonoma e sovrana) intesa fra individui eguali. È possibile andare oltre la configurazione «“familiare, fraternalista e quindi androcentrata” di un politico che si “annuncia raramente senza una qualche aderenza tra Stato e famiglia”, senza una “schematica della filiazione: la sorgente, il genere o la specie, il sangue, la nascita, la natura, la nazione”?» (p. 83). Sì, e la storia delle amicizie può aprire varchi e spiragli (incrinature)entro relazionalità normate – anche se quelle andranno comunque collocate in contesti, mondi e modi di produzione della vita distanti e spesso incommensurabili rispetto al nostro presente. E tuttavia, rivendichiamo una nuova amicizia, o rivendichiamo, di nuovo, l’amicizia, chiamandola forte perché si realizzi, pur con un nome provvisorio. Nome provvisorio per rapporti improduttivi: non c’è guadagno o ritorno dall’amicizia, che si svolge seguendo regole sue proprie e che seduce i soggetti, chiamati piuttosto all’operosità, al guadagno, alla realizzazione (di qualcosa d’altro, di sé), alla proprietà e all’accumulo. Per rapporti insignificanti, perché non rimandano ad altro (se non all’altrə), e senza senso: «Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: “Perché lui era lui; perché io ero io”», dice Montaigne di La Boétie, e assieme, però, «io sono te quando io sono io», afferma Celan – tanto che all’amicizia pertiene quel po’ di follia e irragionevolezza che comporta l’internamento, riportando al mondo, ogni volta di nuovo, la pena del peccato capitale del mondo borghese: l’incapacità di prender parte al compimento dell’opera.

«L’analisi storica di come l’amicizia è divenuta ciò che è divenuta rappresenta solo un momento del movimento critico di superamento, di presa di distanza e di elaborazione; si tratta di capire ciò che siamo al fine di rifiutare ciò che siamo, di dare un nome alle nostre amicizie per poi rovinarle» (p. 224), scrive Petrachi facendo proprio il principio della sovversione elaborato da Zappino, perché veramente realizzino quel “fuori” e quella devianza (perversione) rispetto al sociale ai quali sono chiamate (nome provvisorio con cui le si chiama). E, quindi, per cominciare, potremmo non dar definizione dell’amicizia, richiedendole in tal modo, già al suo sorgere, la strada da percorrere – precorsa pertanto in anticipo: la lista di quel che ci si aspetta dallə partner, i diritti e gli obblighi (più o meno) reciproci, che cosa condividere e che cosa no, prolessi di ciò che andrà bene o male. Amicizia è invece il nome provvisorio d’una provvisoria, perché sincera, promessa, che prosegue ben oltre il suo atto d’istituzione (rimanere vuota è il segreto del suo potere: promettiamoci di , adesso, e lasciamo questo eternamente incompiuto). Amicizia è la decisione del legame, amicizia è la decisione della separazione che il legame pure implica – e delle esitazioni e dei dubbi, dell’affetto e anche dell’amore. Per Petrachi, che si accosta qui al lavoro di Dardot e Laval, l’amicizia è «prassi istituente» (p. 301) che si produce in un esercizio di continuo rinnovamento – e di continuo disfacimento – di sé e delle ragioni del mondo che fuori comunque attende (anche, d’esser rinnovato o disfatto o rovinato).

«Nella misura in cui le esistenze appaiono perfette e compiute, rimangono separate, chiuse su se stesse. Si aprono soltanto attraverso la ferita, che è in loro, del non compimento dell’essere. Ma attraverso quel che si può chiamare non compimento, nudità animale, ferita, esseri innumerevoli e separati gli uni dagli altri comunicano e nella comunicazione dall’uno all’altro prendono vita perdendosi», di nuovo Bataille in L’amicizia, e questo «“bisogno folgorante di perdersi” è la parte più interna e più distante della realtà, parte viva e in movimento che però non ha nulla a che vedere con una supposta sostanza». Nel Platone letto da Bersani, l’amante ama nell’amato l’immagine del dio scorto in un’altra vita e, amando, riversa (e realizza) in lui quelle qualità tanto divine quanto virtuali, e, ancora, desta nell’amato un amore altrettanto forte (identico: appagato dell’immagine che l’amante ha di lui). Si perdono, dunque, l’un l’altro, amante e amato, abbandonando la loro supposta sostanza e acquisendo quella homo-ness, stessità non minacciosa, o singolarità non marcata da confini nazionali, etnici, razziali, di specie. Un tipo di amore che Bersani chiama narcisismo impersonale – similmente, Marcuse parlava di narcisismo primario recuperato, in cui l’Io si dissolve e in cui Eros si fa a misura del mondo, o a sua dismisura: ne è immagine Orfeo, il cui investimento erotico non è incanalato secondo la legge ma secondo il gioco, nel cui canto animali, piante, la materia inorganica tutta appaiono infine per come sono – niente di più: semplicemente, amichə e amatə (in Bataille, lo stesso gioco prende il nome di antropomorfismo lacerato). Di questo tipo d’amore, di questo tipo di prassi istituente e co-istitutiva, non si può prevedere molto e, forse, nulla di più di quel che c’è, «se non che dovrà muovere i suoi primi passi sommando, alle rovine di un’amicizia antica, quelle delle nostre più intime, ancora incorrotte, ma pronte a essere rovinate» (p. 304). Non si può prevedere altro se non che sarà un amore sconveniente, una perdita continua – e via, allora, in rovina, insieme a Bataille nella dépense: «Se vedo che i mondi non assomigliano a nessun essere separato e chiuso su se stesso, ma a quel che passa da un essere all’altro quando noi ridiamo a crepapelle o noi ci amiamo, allora l’immensità di questi mondi mi si apre e io mi confondo col loro fuggire: allora poco m’importa di me stesso, e poco m’importa di una presenza che non sia io».