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ITALIA

I rischi del mutualismo nel contesto dello smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale

Questa è una risposta all’articolo di Luca Negrogno “La fase sindemica e il mutualismo negli spazi di movimento”, una visione del mutualismo dall’esterno del sistema sanitario a partire dallo smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale

Questa è una risposta all’articolo di Luca Negrogno La fase sindemica e il mutualismo negli spazi di movimento pubblicato a marzo su Dinamopress. Se in questo articolo il mutualismo è raccontato dall’interno, restituendo un dibattito che avviene perlopiù tra soggetti che formano questa rete nell’ambito della salute, la mia risposta si situa sul versante esterno, dove tuttavia mi è parso di cogliere il rovescio di alcuni nodi problematici. Parto dunque dallo smantellamento del servizio sanitario nazionale, più in generale del pubblico, situazione in cui operano le esperienze di mutualismo, per provare a mettere a fuoco una serie di ambiguità che animano il contesto italiano, segnato da una difficoltà reale a organizzare forme di mobilitazione.

Lo smantellamento del Servizio sanitario nazionale

Basta citare l’ottimo articolo di Antonio Bove che riassume efficacemente tutta una serie di dati e report che in questi mesi hanno messo nero su bianco l’intenzione delle forze politiche, e non solo, riguardo al Servizio sanitario nazionale italiano: «la sua definitiva cancellazione». Se Bove rintraccia le cause dell’immobilismo italiano – la differenza rispetto agli altri paesi in Europa in cui si dànno ingenti mobilitazioni a difesa di salari e di servizi – prendendo in considerazione un periodo di quarant’anni, io mi sono trovata a osservare da vicino qualcosa di recente e di relativamente piccolo.

A marzo 2023 la Camera approvava in via definitiva con 150 voti a favore, nessun contrario e 72 astenuti, il disegno di legge delega in materia di politiche a favore degli anziani. La novità della legge è la creazione di un Sistema nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente, la cui istituzione rischia di sottrarre la popolazione anziana affetta da patologie croniche dall’ambito del diritto alla salute e di confinarla in un sistema parallelo in cui vigono i principi condizionali delle prestazioni assistenziali e sociali – i parametri Isee. Il testo della legge era stato approvato, e agganciato al Pnrr, dall’ultimo Consiglio dei Ministri di Draghi. A questo riguardo è significativo che la fine del governo Draghi chiudeva la fase di “ripresa”, tecnica, non politica, e dichiarava ufficialmente terminata la pandemia adottando un testo da cui è scomparsa la parola malattia, colpendo la fascia della popolazione compresa tra quella più duramente colpita dal Covid-19. La legge, poi approvata dal governo Meloni, non è stata oggetto di dibattito alcuno, dentro o fuori il parlamento. Quasi nessuno se n’è accorto. È un testo che restituisce la misura del successo di una gestione che facendo della ripresa una questione di governance, silenziava i processi di politicizzazione delle questioni emerse con nettezza nel 2020, a cominciare dal potenziamento e dalla trasformazione della sanità.

In Italia le uniche mobilitazioni dal basso contro lo smantellamento del servizio sanitario non hanno ricevuto l’appoggio e l’organizzazione della società allargata. Mentre in Gran Bretagna, Spagna, Francia le persone si mobilitavano contro i tagli, in Italia i tre sindacati confederali firmavano, nella parte che compete loro per la rappresentanza dei pensionati, il testo che contiene la proposta per la riforma della non autosufficienza fatta pervenire al governo Draghi.

La parte che la legge non recepisce – pur recependo invece l’impianto generale – propone l’introduzione di forme parallele di finanziamento della sanità pubblica, fondi integrativi, sistemi mutualistici e assicurazioni individuali, prevedendo l’insostenibilità del Ssn. Lamenta la «separazione tra servizi finanziati tramite risorse pubbliche […] e quelli invece del mercato privato in senso stretto» che ha «reso il sistema privato una nicchia, fruibile soltanto da quei pochi utenti in grado di sostenerne i costi, talvolta estremamente elevati». L’obiettivo è «favorire la mobilitazione del risparmio privato, cresciuto in maniera costante negli ultimi anni». Questo è un testo che, per nominare solo alcuni degli aderenti, è stato firmato dalle Acli, la Caritas Italiana, la Diaconia Valdese, dal Forum Nazionale del Terzo Settore, e dalle sezioni di rappresentanza pensionati di CGIL, CISL, UIL.

Le architetture del mutualismo e lo smantellamento del Ssn

Lo smantellamento del Ssn non significa solo cure private, ma l’introduzione in Italia di livelli di diseguaglianza senza precedenti. Nel suo impianto originario, il Ssn è l’istituzione più avanzata in termini di uguaglianza sostanziale perché svolge un’importante funzione di redistribuzione sociale della ricchezza. C’è una differenza tra erogare servizi a basso costo destinati alla sola popolazione economicamente svantaggiata e stabilire che devono essere garantite prestazioni di qualità elevata a tutta la popolazione.

Nonostante i tagli e la sua conclamata insostenibilità economica, il servizio sanitario italiano rimane tra i migliori al mondo, come era per il sistema scolastico fino a poco tempo fa. La sua funzione di redistribuzione non solo incide sugli effetti che le diseguaglianze sociali hanno sulla salute ma determina la qualità dei servizi. Come si legge ancora sul sito del Ministero della Salute, il servizio sanitario nazionale ha funzione di «coesione sociale». (Purtroppo quasi mai si menziona il Ssn o la scuola come strumenti di cittadinanza sganciati dalla nazionalità in contesti in cui si parla in termini astratti di diseguaglianze strutturali). Di fatto, in Italia già vige in ambito sanitario un sistema chiamato universalismo differenziale – il Ssn sarà sempre più fruito solo da quanti non hanno i mezzi per rivolgersi altrove – che certifica e strutturalizza la forbice tra fasce sociali.

Se si colloca il mutualismo dentro questo contesto, le forme autorganizzate di sostegno alla salute sul territorio, in forma solidaristica e militante, che organizzano e anche contestano la sanità così com’è dal basso, viene da dire che uno dei principali problemi menzionati da Negrogno, le solite accuse che il mutualismo sia la quinta colonna dell’erosione del servizio pubblico, avranno via via meno importanza nella misura in cui già oggi molte forme di mutualismo operano in territori nell’assenza totale di servizi.

Il rischio piuttosto sembra essere che questa rete si trovi, quali che siano le sue intenzioni, a costituire un’architettura predisposta, ovvero già organizzata, a ricevere la dismissione del pubblico. Non tanto con riferimento alla sua mera esistenza o alle sue modalità di operare, quanto ai principi della sua organizzazione. A mio modo di vedere si sta delineando una convergenza tra il frazionamento e la compartecipazione di fondi, l’introduzione di fondi integrativi, logiche assicurative volontaristiche e mutualismo delle mutue, nella logica della segmentazione e persino della non obbligatorietà che invece sta al cuore del pubblico e del carattere universale del diritto alla salute in Italia.

L’obbligatorietà – non il volontarismo che caratterizza sia la preistoria dei sistemi di welfare basati sulla solidarietà che, sul versante opposto, i sistemi assicurativi privati – è prevista nel contesto italiano non nel senso dell’obbligatorietà della copertura assicurativa, come è per esempio in Germania, ma nella contribuzione alla fiscalità generale che finanzia i servizi pubblici. L’obbligo si sostanzia nella tassazione progressiva che aggancia le prestazioni sanitarie al sistema contributivo per via indiretta. È significativo che in Italia sia più facile pensare di introdurre sistemi alieni di welfare, alla tedesca, all’americana, che aprire un dibattito sull’incostituzionalità delle riforme fiscali regressive e della flat tax.

Ha senso in questo scenario continuare a dire “né pubblico né privato”? Questa frase ha il difetto di presentare pubblico e privato come se fossero simmetrici, come se fosse possibile stare nel mezzo. La verità è che il pubblico è condizione di possibilità sia del privato – fa sì che sia possibile, non necessario, rivolgersi al privato – che delle forme alternative di salute organizzate dal basso. Il mutualismo non nella mera supplenza, purtroppo necessaria, ma nella sua valenza politica di sperimentazione di pratiche alternative riceve il suo senso, anche di contestazione, dall’esistenza del pubblico, mentre rischia di cambiare di segno in sua assenza.

In un testo sul 1968 Rossana Rossanda ha scritto: «Già alla fine degli anni ‘70 ci rendemmo conto […] di aver sottovalutato il peso del contesto entro cui (alcune tendenze) si muovevano che le ha alla lunga a tal punto segnate da rovesciarne lo stesso significato». Traslando questo ragionamento, se negli anni ‘70 le lotte si davano in un contesto di allargamento progressivo dei diritti, oggi siamo in presenta di un salto di scala nell’erosione dei diritti già acquisiti, a partire da quelli ancora negati che funzionano come perno su cui fa leva la fase propriamente reazionaria. Questo significa anche ragionare sulle condizioni di un attivismo che si dà in assenza di forze istituzionali progressiste, o in assenza di corpi intermedi che contribuivano a graduare la propria esposizione. Il non detto di alcune forme di separatismo, non tutte, stava nelle forme di protezione che ciò che si contestava continuava a offrire.

Lo stesso concetto di biopolitica è stato coniato in presenza di partiti comunisti fortissimi, durante ciò che viene definita come l’epoca d’oro del welfare. Paradossalmente, proprio le letture che schiacciano il pubblico sul controllo statale e/o biopolitico sono quelle che più impediscano di vedere che il percorso a ritroso del welfare italiano porterà alla piena realizzazione di ciò che descriveva Foucault (la riforma della non autosufficienza, per esempio, è stata portata in Consiglio dei Ministri non dal Ministero della Salute ma dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali; la naturale involuzione di questo è rimettere la salute in capo al Ministero degli Interni, come era nell’Italia pre-costituzionale). La parola biopolitica tace non solo sulle differenze geografiche (l’Italia è uno dei pochi paesi a non avere un sistema mutualistico o assicurativo e dunque a non utilizzare il vocabolario del rischio), ma anche sul fatto che la nascita del concetto di salute pubblica, a partire dall’Inghilterra della metà dell’Ottocento, che teneva insieme la medicina e l’urbanistica, è stata una conquista della classe operaia.  La terza cosa che l’uso astratto di questo termini non aiuta a cogliere è il fatto che le relazioni di potere propriamente italiane non sono solo pronte a ricevere lo smantellamento del pubblico ma sono anche causa della sua architettura incompleta.

Corporativismo, clientelismo, familismo, piccoli potentati e forme di criminalità che hanno da sempre organizzato i territori marginali rispetto agli interventi statali costituiscono un elemento di forte ambiguità, perché il fatto che il welfare italiano sia da sempre insufficiente (pensiamo all’inesistenza degli assegni di disoccupazione) in questa fase – come in altre – anziché fungere da miccia di protesta contribuisce all’immobilismo.

Se per un verso c’è poca consapevolezza di ciò che viene sottratto, c’è probabilmente anche la riattivazione di meccanismi legati alla logica della spartizione e della piccola rappresentanza che animano questa struttura. Basti pensare che massimo esponente dell’anima corporativista sono gli stessi sindacati confederali che continuano a farsi promotori della “pace sociale” in presenza di riforme che avranno impatti devastanti proprio sulla coesione sociale. Unico elemento a essersi sottratto storicamente a queste relazioni è la componente femminile – di cui la denatalità è anche segno – che significa che lo smantellamento del pubblico non può contare sul soggetto più importante.

È pensando a questa specificità che bisogna interrogare istanze che rischiano di essere svolte in senso letterale in assenza di un contesto in cui far valere il loro portato conflittuale e polemico. Si rovesciano di segno, in maniera del tutto involontaria, molti termini. Penso a un testo intitolato Per una comunalizzazione del pubblico, tradotto dal francese dal sito Effimera. Sebbene le conclusioni del testo siano cristalline e giuste («l’amministrazione pubblica deve essere ripensata come un semplice mandatario, e non più come il proprietario, di beni e risorse collettive di cui oggi si sente libera di abusare, alienandole e privatizzandole»), la traduzione italiana ha un effetto controproducente perché non si può comunalizzare il pubblico se questo non esiste. Si avverte che il teso proviene dal luogo narratoci da corrispondenti come Giovanna Botteri che riesce a dire cose come «scene di guerriglia urbana durante un corteo altrimenti pacifico». Dal momento che in Italia non si stanno dando scene di guerriglia urbana in difesa della sanità pubblica, il testo assume un tono cautelativo che non è il suo. In assenza di una protesta forte e generalizzata la nozione di beni comuni – per altro al centro di una stagione molto importante in Italia – rischia di tradursi, alla lettera, in forme di autosufficienza chiuse e non generalizzabili (peraltro, quando i beni comuni non sono incarnati da lotte riacquistarono subito quella dimensione boschiva e primitiveggiante che certo non offre esempi e soluzioni per società complesse).

Per me è lungo questa direttrice che addirittura si collocano alcune preoccupazioni esplicitate da Luca Negrogno: dove lui menziona il bisogno di «sviluppare una riflessione comune sulla teorizzazione della militanza e sull’epistemologia della salute», si chiede: «queste azioni mutualistiche riescono a promuovere pratiche di salute dal basso in cui si realizzino forme di partecipazione comunitaria non tecnicizzate? (vale a dire che superino la distinzione di potere tra chi attraversa questi spazi come tecnichə e chi come utente?)». Se il destinatario delle pratiche non è il pubblico in senso ampio il senso della pratica finisce per concentrarsi più sulla definizione del ruolo e dell’identità di chi produce e detiene sapere che nello scardinare le strutture che dividono i saperi, riproducendo la scissione tra utenti e conoscenze non socializzate. Per altra via, questo è ciò che ha portato Mark Fisher a contrapporre il concetto di pubblico al concetto di comunità, per via del rischio legato allo sganciamento della comunità da ciò che è comune – una certa esclusività che riproduce dinamiche di accesso e di esclusione – motivo per cui Fisher coniò lo slogan «Cura senza comunità», che significa «prendersi cura delle persone a prescindere dal fatto che appartengono alla comunità».

Individualismo e familismo

Quando si ripete che la società non esiste, esistono solo individui, ci si dimentica spesso che la fine di questa frase è: uomini e donne, e le famiglie. La società della prestazione fatta di individui in realtà si tiene sulle famiglie, rigidamente nucleari, che determinano il grado di sostenibilità dell’individualismo.

Nei quartieri gentrificati e misti, in cui convivono forme di attivismo che rispondono alle devastazioni imposte dall’alto e forme di partecipazione a questi progetti di mutualismo da parte di fasce sociali abbienti che ne pacificano il lato di contestazione, lo stesso attivismo è “partecipato” e incoraggiato come strumento che consente di realizzare e valorizzare scelte individuali.

È un fenomeno evidente nel campo dell’infanzia, dove, per esempio, attività organizzate da genitori sono sia espressione di solidarietà e di condivisione di forme di vita che campo di elaborazione di una condizione, la genitorialità, che può diventare un’attività. Si tratta di un’inversione tipicamente neoliberale in cui performare ciò che si è spesso significa riprodurre in forma privata condizioni comuni. Se ciò di cui molte delle persone coinvolte avrebbero bisogno sono servizi e spazi pubblici necessari a liberare tempo ed energie – non doversi occupare sempre di tutto in prima persona, stando in supplenza di servizi che non ci sono – nel caso delle classi abbienti che si appoggiano a queste esperienze la genitorialità si configura come possibilità di determinare in prima persona le proprie condizioni di vita, in una torsione individualistica dell’autodeterminazione. Questa genitorialità – termine che sostituisce la maternità senza che siano per questo venute meno le strutture familistiche tradizionali e le differenze di genere nella divisione del carico e dei compiti – è la declinazione del tema della “partecipazione” come diritto/dovere a decidere tutto da sé e per sé. È su questo terreno che sono evidenti le differenze di classe, perché se alcune persone rivendicano sistemi collettivi di affidamento, le classi abbienti rivendicano una sottrazione al pubblico in una sorta di contestazione borghese della sua inefficienza. I comportamenti cosiddetti virtuosi lasciano intatta la realtà dei molti – mangiare cibo bio a chilometro zero anziché fare la spesa al discount è una scelta etica che lascia intatta la filiera alimentare che si tiene sullo sfruttamento intensivo di risorse, animali e persone.

Questo tipo di soluzione privatistica genera livelli molto alti di conflitto e aumenta le differenze di classe, nella misura in cui la ricchezza di alcuni rende complessivamente sostenibile la povertà dei molti. Nel 2022 un’economista del “Financial Times” si chiedeva se la capacità di spesa dei ricchi non fosse un fattore sottostimato nell’analisi dell’inflazione. All’interno del macro-scenario in cui la crisi economica in tempi di pandemia ha reso le persone ricche ancora più ricche, nel contesto dell’inflazione del 2022 l’autrice si chiedeva se il potere d’acquisto delle persone ricche, rimasto invariato, non stesse contribuendo a mantenere stabile l’inflazione che diminuiva il potere d’acquisto delle fasce più povere. Il 60% della spesa dei consumatori era infatti a carico dei due quinti superiori della distribuzione del reddito negli Stati Uniti, a fronte del 22% dei due quinti inferiori. Questo significava che la spesa della classe abbiente contribuiva a rendere sostenibile quella stessa inflazione che dimezzava la capacità di spesa delle classi più povere.

Per concludere e tornare al principio, i punti di intersezione in cui le forme di auto-organizzazione perdono il loro potenziale di contestazione dentro lo smantellamento del pubblico non sono poche. Il rischio che corre qualsiasi forma di mutualismo oggi non è stare in supplenza del pubblico ma stare nella piena realizzazione del progetto neoliberale che esige capacità di autonomia e di organizzazione di forme di sopravvivenza nel contesto dello smantellamento delle forme di democrazia che stavano a compensazione del capitale.

Se è vero che nessuna esperienza dal basso può farsi carico di questo scenario, della torsione di significato che subiscono le pratiche che si strutturano in questo caso sul terreno della salute, l’unica via da percorrere è una mobilitazione ampia che si metta di traverso, a difesa del mutualismo e del pubblico, a cominciare dalla sanità, ambito che intercetta tutte le questioni più urgenti, dal lavoro alla salute mentale, dalla fiscalità a un concetto di universalismo che fa del Ssn uno degli strumenti più importanti di redistribuzione e di abbattimento delle diseguaglianze sociali.

Immagine di copertina di David Mark da Pixabay