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I mondi alla fine del mondo

Il moderno fascino per il disastro è un sintomo del nostro rapporto con il futuro. Analizzando l’immaginario della catastrofe, Eva Horn in “Biopolitica della catastrofe” (a cura di Raffaele Scolari, Mimesis, 2021) mostra come il fiorire di rappresentazioni di disastri non sia altro che il tentativo di dare un volto alla catastrofe di cui ci sentiamo parte

«Il mondo sta per finire. La sola ragione per la quale potrebbe durare, è che esiste. Com’è debole questa ragione, se la paragoniamo a tutte quelle che annunciano il contrario e specialmente questa: ormai cos’ha da fare il mondo sotto al cielo?». Così Baudelaire. Com’è debole questa ragione, soprattutto se la paragoniamo a tutti gli annunci che la Modernità non ha mai cessato di redigere intorno alla sua fine, alla propria katastrophé, tragedia che anche quando arriva, anche fortuita, non è mai – ironia della sorte – corpo estraneo, ma fatto e prodotto troppo umano e tutto moderno.

Di disastri catastrofici, più o meno im/previsti, racconta Eva Horn in Biopolitica della catastrofe (a cura di Raffaele Scolari, Mimesis 2021). Catastrofi che, come ricorda l’autrice nell’introduzione all’edizione italiana, non sono più e non tanto letterale rivolgimento improvviso, o urgente e imposta inversione di marcia, né repentina peripezia che, tracimando verso il basso, precipita e fa affondare. Catastrofi invece latenti e inavvertite, «senza evento» (p. 18), che si traducono in pseudo-naturale corso delle cose: il mondo sta per finire, e la sola ragione che ne tiene aperta la corsa, o il faticoso incedere, è pigra e dimentica inerzia – il mondo, semplicemente, ancora, e per ora, esiste.

Horn ventriloqua Benjamin, a sua volta interprete di Strindberg, a proposito di quel clamore che è solo risonanza, che si ripete e che si trascina: «Il concetto di progresso trova il suo fondamento nell’idea di catastrofe.

“Che le cose vadano avanti così” è precisamente la catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta è di là da venire, bensì ciò che di volta in volta è dato. Con Strindberg: l’inferno non è ciò che ci attende, ma proprio questa vita qui. La salvezza si aggrappa al piccolo salto nell’incessante catastrofe» (p. 16).

Qualsiasi scrittura, immagine, frammento del disastro dovrà allora confrontarsi con la difficoltà di un’anomala presenza: il finimondo deve essere evidentemente già avvenuto, perché a noi che ne parliamo e che lo viviamo se ne dà solo riverbero o eco – come più e più volte ribadisce Timothy Morton di fronte al riscaldamento climatico, che non si vede se non reiterando l’unzione di crema protettiva sulla pelle esposta della nuca. Il finimondo è tale proprio perché non vi è più alcun evento, perché vi è solo asfittica e inesorabile continuità – progresso, lo si chiamava un tempo. E anche «l’incidente» più realistico e icastico «accade sempre “un attimo prima”, ed è già sempre accaduto» (p. 68). Nulla di nuovo sotto il sole: nulla, dunque, che possa effettivamente essere raccontato. Ma pure nulla, sotto il cielo, che abbia qualcosa da fare e da dire – nulla sotto il cielo che sia diverso da questo greve nulla.

I tre saggi riuniti nel volume – pubblicato in Italia quest’anno – risalgono in realtà al 2011-2013, e si confrontano con la difficoltà di rappresentare la catastrofe nelle sue più diverse manifestazioni sia sulle pagine sia sugli schermi. Comunità di sopravvivenza vede l’umana ecumene confrontarsi con un nemico che può essere esterno/estraneo (letteralmente alieno) nelle vesti di belligerante e incompromesso invasore o, più frequentemente (sempre più frequentemente), interno/ospite (letteralmente autoimmune) che assume le sembianze della comunità umana stessa, (d’improvviso?) violentemente in sé lacerata. Lanciava già Malthus i segnali di quest’allarme metamorfico che diverrà poi cardine della biopolitica della scarsità: l’ultimatum alla Terra non è l’extra-terrestre navicella, ma il ridursi del pianeta tutto a scialuppa di salvataggio in cui a poch* è dato accesso, in cui non per tutt* v’è posto. Non occorre scomodare alcuna tentacolare, ultraterrena o ctonia minaccia, se è già possibile indovinare tramite capitalistica iperstizione, in ogni homo, l’homini lupus

Niente di nuovo sotto il cielo e sotto il sole; anzi, forse, questa seconda diegesi autoimmune va svelando la verità della prima. Si tratta infatti di ri(n)tracciare il confine, ridisegnare la ratio che sempre divide da chi è un po’ già straniero, un po’ già altro e nemico: chi semplicemente manca di fitness e, pertanto, non può promettere/permettere una buona vita futura né assicurare la difesa della specie nella diuturna lotta per la sopra/vivenza; chi, quindi, va lasciat* indietro, ad affondare. Come zavorra o guscio vuoto o vita indegna di essere vissuta, come tutti quei corpi minori di cui una certa retorica evoluzionista si è, del resto, sempre predata e tutte quelle innumerevoli vite infami su cui il benessere dell’anthropos si è da sempre edificato.

Esiste, però, anche il caso dell’umanità di nuovo compattata e di una società di nuovo sociale e socievole davanti all’invisibile nemico del cambiamento climatico: l’imprevedibile ma certamente mortifero che bussa alla porta Il tempo di dopodomani è il secondo saggio del libro che ruota attorno alle narrazioni della catastrofe ecologica. Certo è che, come notano ormai tanti critici del disastro “antropo”-genico, l’umanità non è una nella sua responsabilità del disfacimento del globo – e molto probabilmente non sarà una e unita nel fronteggiarne le conseguenze.

«Appare difficile determinare con precisione cosa significhi “agire” al cospetto di un tale futuro di catastrofe. Non esiste un soggetto chiaramente determinabile di un tale agire: le “nazioni industrializzate”, il “capitalismo”, l’“espressionismo cinetico” (Sloterdijk) – oppure tutti noi che viaggiamo, riscaldiamo, consumiamo? Propriamente il compito consisterebbe in primo luogo nella costruzione di un’unità politica in grado di assumersi la responsabilità derivante dai mutamenti delle condizioni del pianeta» (p. 65)…

Riprendendo una fertile disamina svolta da Jason Moore – fertile, perché proprio in questo dimenticato e sotterrato scarto si situa, e proprio questo avanzo lascia parlare –, il racconto Antropocene deve la sua soffocante, dis/ecologica, onnipervasitivà proprio «alla potenza della sua narrazione, alla sua capacità di unificare umanità e sistema-Terra all’interno di un unico orizzonte». Così si sostanzializza da un lato l’ambiente, incombente Natura, dall’altro l’Uomo, sua controparte che ora è tutto carnefice e ora sola (ed esclusiva!) vittima. Ed è qui che Horn sapientemente interviene per complicare la storia, o meglio, per trasformare favola in storia: vi è sì una vicenda collettiva leggibile nei secoli e forse nei millenni a venire in quanto sovrascritta, con sorta di erpice kafkiano, sulla materia geofisica, ma vi è anche, e vi è soprattutto, una trama ben più frammentaria, frammentata da disparità in termini di impatti subiti e patiti, di responsabilità e vulnerabilità. In ogni vicenda narrata si può indovinare un più intricato ordito, percorso da vene profonde, in cui scorrono smembrate parti da rimembrare. Esplicativa in questo senso La strada di Cormac McCarthy e la sua «puntuale connessione fra disastro ecologico e disastro sociale» (p. 58): nuovo calcolo, altra evidente manifestazione delle disuguaglianze su scala globale, fra chi sarà escatologicamente salvo e i suoi sterminati scatologici resti.

Il problema è – e il saggio di Horn del 2012 può ben essere letto lungo la linea che giunge fino a La grande cecità di Amitav Ghosh e oltre – che il cambiamento climatico è riflesso di iperboliche e inafferrabili astrazioni o, comunque, non è percepibile attraverso il tempo e il suo meteo; esso si situa nelle anse delle probabilità, si nasconde (in agguato) nelle estrapolazioni. Ancora l’estremo Baudelaire: «Forse questi tempi sono molto vicini: chissà anzi se non siano già venuti, e se l’ispessirsi della nostra natura non sia il solo ostacolo che ci impedisce di ben constatare l’ambiente in cui respiriamo!». Abbiamo davanti, e abbiamo alle spalle e intorno, qualcosa che ci circonda e ci avvolge, di cui non riusciamo a misurare la portata. Un interlocutore assolutamente aumano, acefalo, anomico e anonimo, il y a di cui è complesso comprendere la lingua – lalingua che è invece efficace, e potente, nell’interrompere il discorso razionale e illuministico del logos (e qui le voci di Horn e Ghosh si congiungono al requiem geontologico di Elisabeth Povinelli). Irruzione, insieme istantanea e torpida, e torbida, non tanto di un soggetto, ma dello sfondo medesimo che emerge da se stesso; uno scambio di posti e una continua inversione di ruoli (ininterrotta katastrophé!).

Ancora differente il caso dell’incidente tecno/logico che intesse la trama di Il futuro delle cose – infortunio industriale che purtuttavia va a ingrossare le fila, sino a gonfiare la marea in onda che infine straripa, del riscaldamento globale. Al deragliamento dell’oggetto tecnico, all’improvviso e impertinente suo non-funzionamento o mal-funzionamento, si rivolgono le safety sciences, discipline che procedono necessariamente per narrazioni, locate lungo tutta la scala del probabile, di ciò che potrebbe andare storto, poiché (nessuna luce senza ombra) l’invenzione tecnica è contemporanea alla creazione del suo incidente-accidente, come insiste Paul Virilio. Narrazioni, queste, che non possono che procedere per catastrofia – nutrendo, aumentando, ispessendo, l’imprecisione e l’errore e l’interferenza in una teleologia della deflagrazione: immaginata, (e quindi, si spera?) anticipata, mitigata in un futuro anteriore che ci consegni già ora, ogni ora, alla catastrofe che viene.

A fine lettura i tre saggi si congiungono, si intersecano e si sovrappongono, quali traduzioni o frammenti del disastro annunciato e ripreso (purtroppo non per tempo, ma sempre in ritardo) da più testi, pellicole, manuali e campi di studio. Traduzione che, per tornare a Benjamin, è «l’unica ragione possibile per dire la “stessa cosa” […]: ritrovare quell’intenzione dove si ridesti l’eco dell’originale».

Il mondo sta per finire, perché non ha più niente da fare sotto il cielo: ha solo da raccontarsi in questo inesausto esaurirsi. Tempo scaduto e tempi scadenti, eppure vale la pena di attardarsi su questo raccontare (testimonianza di rabbia e di lutto), come fa Horn. Che sia enumerare le calamità racchiuse in nuce nel singolo apparato, che sia enumerare le calamità tout court, quasi raccogliendone i miraggi in una catastrofica Wunderkammer, catalogo di mirabilia di altri tempi (o di tempi altri?).

Perché si ha a che fare in tutti questi casi con dispositivi narrativi capienti e capaci ora di dilatare, ora di comprimere, spazi ed epoche, realizzando connessioni prima non scorte. Dispositivi narrativi, come scrivono i curatori di Future Remains, che «possono evocare passato, presente e futuro, sfumare globale e locale – e dunque possono interrompere le narrazioni lineari, inclusa quella dell’Antropocene» e della sua tragica implosione.

In questo gabinetto delle curiosità abbiamo adunate, rimasto e impasto materico, numerose scatole nere; elementi di cui possiamo comprendere alcuni stralci, mai l’intero percorso, la lineare causalità, lo svolgersi della dinamica nel suo complesso. E anche questo la catastrofe compie: quale balzo brusco nella e della continuità consente la naturalizzazione delle sorti progressive, addirittura la loro geologizzazione – neologismo che sta per fissazione di un sistema specifico, dei suoi modi di ri/produzione, delle sue visioni e delle sue società dentro una destoricizzata, depoliticizzata e depoliticizzante, universale e universalizzante, era geologica: la catastrofe come precipitato. Sappiamo invece, al di là della favola bella che oggi ci illude, che il disastro è già qui. Sappiamo (più o meno) perché e come, ma sappiamo di certo che, se allarghiamo appena di poco la nostra prospettiva, il mondo, o meglio, i mondi non hanno mai smesso di finire per tutt*: solo “noi” ne restiamo immuni, “noi” che da due secoli in qua ci raccontiamo la fine della storia, mentre esportiamo, senza sosta e senza pietà, la storia della fine. Lo sanno bene le vite offese che non hanno mai smesso di meditare sulla fine dei loro mondi, fine imposta dalla catastrofe della luce abbagliante e annientante del color bianco. Lo sanno bene le vite offese – umane, non umane, altrimenti che umane – che, malgrado tutto, non hanno mai smesso di reagire, provando, con pazienza, giorno dopo giorno, a rigenerare i loro devastati mondi, le loro morte stagioni. Lo sa bene il Capitale che di fine si nutre per stendersi all’infinito come iperoggetto asfissiante, narcotizzante, necrotizzante.

«I testi qui presentati trattano del modo, stranamente ambiguo e nondimeno assai intensivo, con cui ci occupiamo di catastrofi future quali sintomi dell’immaginario collettivo moderno» (p. 19), scrive Horn nell’introduzione. Ordigni immaginifici, anch’essi latenti la propria manomissione, detentori di un residuo politico tutt’altro che trascurabile: un resto che suggestiona e altera le modalità con cui è concepita l’esistenza – e la sopravvivenza – sociale, la vita della/nella “comunità”.

Dal racconto la realtà è informata e così strutturata. Non può essere un caso che una realtà tanto neomalthusiana abbia così a(l) cuore la metafora politica della scialuppa di salvataggio, cui accede solo chi merita la salvezza, e la sua eguale ma inversa Stultifera Navis, navicella in cui morbo, guasto e dissoluzione sono espulsidal corpo sano, e sacrificati, e nascosti da ogni salus al suo fondo – del mare o dello spazio che sia.

E qui sta il triplice merito di Horn. Uno: ricordare ai molti che se ne sono dimenticati che biopolitica e tanatopolitica sono strette indissolubilmente in un nodo inestricabile (come Foucault, non inaspettatamente inascoltato, ha ribadito più e più volte). «Ciò che quindi emerge è che la vita può essere promossa solo al prezzo della sua messa in pericolo, e che ogni politica della vita è sempre anche una politica della morte» (p. 24). Due: che questo nodo avvolge oggi non questa o quella società ma l’intero globo terracqueo: la catastrofe è ormai l’umanità trascorsa, e percorsa e unita da infinite linee di frattura. Insomma, il sogno di Kant, non inaspettatamente, si è fatto incubo: si dà umanità solo nel momento in cui la si an/nega. Terzo: il sotteso suggerimento a decolonizzare l’immaginario, opponendo alla medesima storia di navicelle involatesi al di là della Terra, per una continuazione nel mondo senza di noi del mondo per noi (pronto a risorgere come se nulla fosse accaduto), storie di sabotaggi, ammutinamenti, rigenerazioni. Eh sì, perché se «le narrazioni dell’emergenza catastrofica contengono una riflessione eminentemente politica» (p. 42), su una politica meno tossica siamo chiamat* a riflettere nel trouble del rumore bianco delle catastrofi o in quello del silenzio di ciò che (e)spira senza (e)vento. Nessuna nave – o navicella o scialuppa – è mai realmente sola, seppur, o proprio se, alla deriva: l’imbarcazione rimane comunque inserita in una più ampia rete di rapporti e di significati che prova, indefessa, a tenere a galla assieme ai suoi passeggeri. E se questi segni, che il legno sugli abissi solleva, sono l’osceno rimosso che il sobbollire della catastrofe riporta sull’agitata superficie e sulla perturbante scena, perché non impegnarsi in un esercizio di riscrittura del disastro, senza ubbidire agli ordini di coloro che alla catastrofe conducono?