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I destini generali

Nel saggio “I destini generali”, uscito qualche tempo fa da Laterza, Guido Mazzoni riflette sulle trasformazioni del simbolico nel tardo capitalismo: la scomparsa della storia che lascia spazio a un eterno presente; il conflitto tra legami e piacere; la retrocessione a una vita privata e apolitica. Quello che rimane è un vitalismo immobile continuamente messo a valore dal consumo neoliberista

È ancora possibile parlare di destini generali quando tutto ciò che ci resta è una pigra medietà anti-tragica? Se ciò che rimane è una percezione apolitica della realtà, non è forse irreversibile questo navigare a vista tra i detriti dei partiti di massa novecenteschi? Guido Mazzoni cerca di capirlo, prima ancora di schierarsi, nei suoi Destini generali, saggio che non è un saggio, ma più un «tentativo artigianale di orientarsi cercando di non ripetere discorsi vuoti». Cerca di capire che fine abbiano fatto i destini generali di Franco Fortini, la pura volontà di lotta ancorata a un altro secolo, che gli faceva affermare:

«Ecco i cordiali aperitivi / Con gli assassini e la valutazione / Obiettiva del niente… Se non trionfo / Dureranno eterni, / saranno in uno che è me stesso, me / sempre sopravvissuto».

Cosa resta, ora, di questa riserva nei confronti dell’io, di questa responsabilità storica di fronte agli altri? Lo dice chiaramente la voce di Mazzoni, interprete di un torpore di superficie, accogliente e mediocre: «Alla fine del secolo più tragico della storia umana, alla fine di un conflitto ciclopico fra idee di società e di persona, il modo di vita che esce vincitore è il meno eroico, il meno grandioso, ma anche il meno elitario, il più immanente, il più autenticamente popolare. Non ho nulla di politico o di reale da opporre a tutto questo. Ho solo una forma di disagio». Eradicate le trascendenze, appiattiti gli assoluti in una consolante quotidianità dell’usa e getta (conquista e trappola), a Mazzoni non resta che un intorpidimento solitario, un comodo senso di inappartenenza. La vittoria radicale di uno stile di vita anti-elitario, soprattutto se vista dal basso, in cui però insiste anche l’ombra di una sorta di malessere. Cosa è successo? Mazzoni sembra attribuire la colpa della mutazione antropologica, e anche qualche merito, a due direttrici fondamentali, che sbocciano da radici comuni: da un lato la scoperta della parola individuale, dall’altro l’indifferenza nei confronti della vita pubblica, il ripiegamento del privato come unico habitat in grado di garantire quell’autonomo benessere proposto dal capitalismo.

 

Un ’68 problematico

Una data, simbolica e controversa: 1968. Non semplicemente un movimento culturale e politico, ma la realizzazione storica e culminante di mutazioni antropologiche che già stavano percorrendo il dorso della storia. Per dirla in termini recalcatiani: l’evaporazione del padre, l’obbligo di godere, la distruzione delle forme tradizionali del Super-io e la riscoperta della legittimità dell’Es. Fenomeni che hanno dato luogo a interpretazioni discordanti (semplificando in modo drastico, da un lato il fronte “moralistico” e neolacaniano di Massimo Recalcati, dall’altro la rottura come emancipazione di Deleuze e Guattari). Sono mutazioni indissolubilmente intrecciate al capitalismo, ne sono premessa e conseguenza allo stesso tempo. Lo scioglimento dei legami, da quelli intrapsichici a quelli parentali, arriva a toccare anche la sfera etico-politica, innescando, con il ’68, un unicum storico: un movimento intero per rivendicare il diritto di espressione delle singole voci, l’unione per rivendicare la divisione (nulla di male in questo, l’analisi esplora le conseguenze, non giudica le dinamiche). Può essere utile riproporre Michel de Certeau, che in La prise de parole cerca di disegnare l’umore del tempo:

«Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava fosse la prima volta. […]. Certo, la presa della parola ha la forma di un rifiuto. È protesta. Ma in realtà essa consiste nel dire: “Io non sono una cosa”».

Uno sfondamento inaudito della gerarchizzazione del pensiero, una nuova orizzontalità non compatta in cui era possibile riumanizzarsi solo a patto di esporsi, un “parlo quindi esisto”. Questo atto inaudito è anche al centro della violenta critica di Michel Houellebecq a una nuova comunità molecolare generata nel grembo del ’68, la causa del traumatico sfaldamento dei legami famigliari: «La pratica del bene è un legame, quella del male una disunione. La separazione è l’altro nome del male», dice nelle Particelle elementari. Consapevole della parzialità dell’interpretazione houellebecquiana – che ingiustamente individua il quid del ’68 solo nella rottura dei legami – Mazzoni non può evitare di notare: se l’organizzazione dei tradizionali partiti di massa prevede la delega della propria individualità a una rappresentanza terza, in grado di farsi da mediatrice tra le varie voci, allora questi nuovi esiti microidentitari non possono che scardinare le premesse che rendevano possibile la politica (di sinistra) tradizionale. Insomma, nato un nuovo individualismo politico, muore il vecchio potere aggregante del partito di massa. Impossibile, ora, accettare la scommessa fondata sul differimento della propria rappresentanza, sul sacrificio personale di eguaglianza e identità immediati in nome di eguaglianza e identità più grandi. Anche in questo, la vita contemporanea si dimostra non solo apolitica, ma anche anti-tragica: soffocare la propria voce per l’emersione di istanze collettive è un dolore da scansare. Così la sinistra scompare nel chiacchiericcio indistinto di chi ha perso non solo il vocabolario per nominare le cose, ma anche la voce compatta per rivendicarle.

 

Il culto del privato e l’indifferenza per il pubblico

Lo scioglimento dei legami ha portato, però, anche a un’altra conseguenza: l’indifferenza apolitica nei confronti della sfera pubblica. Abbandonando momentaneamente Mazzoni, è Christopher Lasch a proporre un’analisi del percorso di trasformazione della sfera privata. Contraddicendo la critica del narcisismo di Richard Sennett, Lasch afferma: la teoria secondo cui, per un lungo percorso che inizia dall’Ottocento, la sfera privata abbia invaso quella pubblica, è in realtà solo apparentemente credibile. In La cultura del narcisismo Lasch riassume:

«Oggi l’invasione della vita privata da parte delle forze del potere organizzato è diventata così capillare che la vita personale ha quasi cessato di esistere. Scambiando la causa con l’effetto, Sennett attribuisce il malessere contemporaneo all’invasione della sfera pubblica da parte dell’ideologia del privato […]. In realtà il culto del privato ha origine non nell’affermazione della personalità, ma nel suo collasso».

In breve, il culto del privato non sarebbe effetto di un egocentrismo compiaciuto, ma di un’invasione del discorso pubblico all’interno della sfera privata. Tante le cause di questo debordamento del pubblico nel privato: la burocratizzazione della vita, la medicalizzazione della società, la cancellazione della Storia, il fascino della celebrità (diversa dalla fama), la radicale mutazione dei modelli di socializzazione. Quest’insieme di elementi avrebbe portato da un lato all’assottigliamento del confine tra pubblico e privato, a causa dell’intorbidamento dei ruoli sociali e del nuovo culto della spontaneità; dall’altro avrebbe delegato parte della capacità di autodeterminazione a sistemi perfettamente oliati, burocratizzati e, per dirla alla Niklas Luhmann, autopoietici. Da un lato la convinzione di coincidere esattamente con il sé che agisce in pubblico, perché i rigidi codici sociali di comportamento – che offrivano ancora il lusso dell’incoerenza, di una netta linea di demarcazione tra il sé e il mondo – appartengono all’era pre-ottocentesca; dall’altro la tendenza a subire una sfera pubblica sempre più meccanica e invadente. Il risultato è una nuova coscienza narcisistica che innalza a culto proprio ciò che ha perso. Morta la vita personale, ciò che resta è la vita privata, intesa come il perimetro dei propri interessi, non come introspettivo scavo oltre la pura superficie. Anche nella concezione mazzoniana di vita privata, l’aggettivo “privata” può esser letto anche come participio, come privazione. Non un gonfiarsi dell’io, ma un suo stanco retrocedere verso una medietas quotidiana e impercepita. Ma di cosa è stato privato l’io?

 

Morte delle trascendenze e inattualità dei destini generali

Lo scioglimento dei legami intrapersonali e interpersonali, si unisce anche a un altro spettro etico contemporaneo: una nuova modalità personale e collettiva di percepire il tempo, che archivia il passato e ignora ogni tipo di progettualità futura. Anche questo cambiamento è modellato sul godimento come consumo e sul consumo come relazione con la realtà: il mondo viene fruito attraverso una nuova percezione attimale, frammentaria e immanente. «Se i legami spingono a vivere il presente in funzione del passato e del futuro, il godimento presuppone una cronologia fatta di intensità momentanee che si esauriscono e si rinnovano senza tregua», afferma Mazzoni. Ma questa versione velocizzata e abbreviata del nuovo tempo percepito, a sua volta, non è altro che la conseguenza del crollo di ogni forma di trascendenza: religiosa, politica (la patria, la militanza, la rivoluzione non esistono più), morale e di quella legata ai legami personali. Dio è morto ed è in buona compagnia. Sciolto ogni obbligo, l’unico dovere rimasto è quello di realizzare finalmente questo Paradiso in terra, questa ripetuta consumazione senza colpa e senza futuro. All’interno di questo scenario, la politica non può che uscire dal novero delle forze in grado di dare ancora un senso alla vita. Anche perché la politica, intesa in senso assoluto, necessita di una spinta proiettiva (verso il passato o verso il futuro), in sostanza una progettualità. Tuttavia, come già anticipato, passato e futuro hanno abbandonato l’orizzonte del possibile. Nel Western way of life resta solo l’immanenza, una coscienza impaziente che cerca di restaurare nell’attimo della consumazione una qualche forma di legame; il grande sogno di una «convivenza senza Dio» che tenta di riprodurre sulla terra i propri paradisi artificiali. Mi pare il caso di sottolineare a questo punto come il discorso politico venga inibito non solo nella sua progettualità, ma anche nella sua analisi del presente: ingabbiati in queste microesistenze scollegate e senza tempo, ogni evento della vita è riconducibile alla sola dimensione personale; se l’unica sfera percepita è quella privata, allora anche i successi e le sconfitte saranno vissuti in maniera privata. Per dirlo, finalmente, in parole povere: senza una consapevolezza del proprio ruolo nei rapporti di forza, svanisce la coscienza di classe. 

 

Le nuove masse e la pura superficie

Impossibili, ora, i destini generali di Fortini che scriveva: «Per ognuno di noi che dimentica / c’è un operaio della Ruhr che cancella / lentamente se stesso e le cifre / che gli incisero sul braccio / i suoi signori e nostri». Eppure, nonostante la coscienza di classe sia stata assorbita da un nuovo ego penitente e spaurito, le classi sono sempre lì, delimitate da rapporti di forza un po’ più torbidi. La middle class non è sempre identica a se stessa e non è semplicemente sparita; piuttosto, si potrebbe dire che sia esplosa in tante frattaglie. Status economico e “status psicologico” si sono scollati. Anche per questo fare quadrato diventa sempre più difficile. Questa disgregazione sarebbe frutto di un lungo percorso che affonda le sue radici nel Settecento. Dall’etica puritana che percepiva la prosperità personale come un “effetto collaterale” dell’attività sociale, pian piano la borghesia approda al culto del successo, ma modellato su un’operosità coatta, su una laboriosità paziente e morigerata, che non sfocia, stranamente, nella competizione aggressiva: il successo non veniva valutato in base ai risultati degli altri, ma in base alla capacità di piegarsi alla disciplina e all’automortificazione. È piuttosto verso la fine dell’Ottocento che si inizia a parlare ufficialmente di vera e propria volontà di vincere. In questo periodo appaiono nuovi manuali di self help che incarnano una nuova etica, rielaborata da Dale Carnegie e Norman Vincent Peale: il successo non è frutto di operosità e parsimonia, ma della capacità di conquistare gli amici e influenzare la gente. Il duro lavoro non è più la strada lastricata verso il successo, ma un relitto protestante che non fa i conti con la nuova burocratizzazione della carriera aziendale, con una nuova competizione e con un nuovo bisogno di ottenere l’approvazione dei superiori. La borghesia del XX secolo (e ciò che ne resta nel XXI secolo) ha ereditato questo carico culturale multiforme, di laboriosità e culto del self made man. E ora, a che punto siamo?

«I poveri hanno sempre dovuto vivere in funzione del presente, ma ora anche il ceto medio è preda di un’angoscia disperata per la propria sopravvivenza personale, che talvolta si manifesta sotto forma di edonismo. […]. Buona parte di quella che con un eufemismo viene chiamata classe media, solo perché si veste bene per andare a lavoro, è ora ridotta a livelli di vita proletari» – afferma Lasch.

Questa classe media in cravatta non rientra culturalmente nell’immaginario del proletariato. Eppure allo stesso tempo subisce un’assenza di tutele lavorative e contrattuali che sfidano le condizioni di vita del proletariato. L’erosione della classe media è un fatto noto, almeno negli Stati Uniti, ma ciò che è interessante notare è la fisionomia culturale che questa nuova classe disgregata ha assunto.

Secondo Mazzoni in seno alla middle class europea si sarebbe venuta a creare una scissione radicale, che rispecchia anche due tipi di approcci: da un lato la classe media garantita, quella che riesce ancora a godere (per posizione, per anagrafe o per caso) delle antiche tutele socialdemocratiche, che conserva l’etica del lavoro, del differimento del piacere come valore da difendere perché non ha timore di contemplare futuri possibili; dall’altro la classe media non garantita, quella nata in seno a un compiuto neoliberismo, che accetta la possibilità di diventare povera e la minaccia costante della precarietà, l’incapacità di proiettare lo sguardo più in là di domani. Tuttavia, e qui sta il paradosso, questa metà non garantita non riesce ad abbandonare il grembo sognante che l’ha generata, rimane culturalmente aggrappata alla promessa socialdemocratica. Non riesce a costituirsi pienamente come soggetto anti-borghese. Non riesce, in altre parole, a sviluppare una coscienza di classe autonoma. Il risultato è una nuova coscienza schizofrenica e ricurva, che in ambito lavorativo accetta il sacrificio di sé, l’autodisciplina, spesso in posizioni alienanti e demansionate, e nella vita privata vuole tutto e subito, agogna il godimento immediato perché non sa nulla del domani. Un nuovo vitalismo nichilista che, a ben guardare, è lo stesso disilluso ethos delle vecchie e rinnovate classi popolari: il fare i conti, tutti giorni, con l’instabilità e la morte, e la fame di piacere, perché tutto ciò che è al di là (il futuro, i grandi progetti collettivi, la politica, il sacrificio) è solo un inganno ai danni di chi non può e non potrà contare su nulla. E come potrebbe essere altrimenti? L’etica dell’investimento – tolgo ora per moltiplicare poi – è una scommessa che non ci si può permettere.

Tutto questo sostrato culturale è stato riassorbito nella piccola borghesia precaria, spesso giovane, spesso disoccupata, spesso troppo e troppo poco paziente. Così questo vitalismo immobile, questa disperata esuberanza è l’unica posa che possiamo permetterci nel regno dell’insignificanza, una strategia di sopravvivenza che vede nel godimento e nella sterilità di progetti l’unica forma possibile.

Tra l’altro questo sentimento popolare flirta perfettamente con il consumo neoliberista, con una idea di benessere intesa, come detto prima, in paradisi artificiali, attimali e privati. E allora riusciamo anche conservare la cara e proba disciplina del lavoro, riversando la nostra ansia di realizzazione nella bulimia da weekend, quando tutti i doveri sono sospesi e la merce, le droghe, i corpi incarnano il nostro paradiso privato, talmente privato da essere angusto. E allora non viene più voglia di mettere in discussione le cause prime di questa bulimia, come ad esempio le condizioni di lavoro, se quel vuoto può esser riempito con l’assorbimento di un feticcio X, una triste sineddoche minoritaria mossa da un vitalismo in cui si accovaccia – nell’incapacità di reagire – una certa inerzia piccolo-borghese.

A questo punto Mazzoni tira le somme e il giudizio è implacabile: giunti alla fine della Storia, dello Stato, di Dio, giunti finalmente alla liberazione da tutti gli assoluti superegotici, abbiamo ottenuto tutto e forse non è ancora abbastanza. «Il paradiso sognato è un cielo che non mostra nulla», ripete Mazzoni, al quale non resta che una certa forma di disagio, una «pura superficie» di vita im-percepita e di in-comunicabilità, prefissi che segnano il solco di una privazione senza riuscire a nominare altro.

 

In copertina “Waiting” di Dmitry Baltermants preso da Soviet Visuals