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MONDO
Guerra civile in Sudan: come orientarsi nel conflitto
Due anni di guerra per il potere tra esercito e milizie paramilitari hanno trasformato il Sudan nel teatro della più grave crisi umanitaria degli ultimi decenni. E la comunità internazionale resta a guardare
Il Sudan continua a sanguinare. E lo fa con un filo di voce. In un recente comunicato a margine del secondo anniversario del conflitto civile che da oltre due anni infiamma il Paese, Antònio Guterres, segretario delle Nazioni Unite, ha dichiarato che «la crisi in Sudan ha raggiunto proporzioni sconcertanti, con quasi 12 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case. Di queste, più di 3,8 milioni hanno attraversato i Paesi vicini, mentre metà della popolazione – circa 25 milioni di persone – soffre la fame».
Stando invece all’ultimo rapporto UNICEF, il numero di bambini e bambine che hanno bisogno di assistenza umanitaria è raddoppiato, passando dai 7,8 milioni dell’inizio del 2023 agli oltre 15 milioni di oggi. Inoltre, «17 milioni di loro non vanno a scuola da due anni, mentre le ragazze corrono gravi rischi, tra cui la violenza sessuale, la tratta e il matrimonio forzato, con un totale di oltre 12 milioni di persone a rischio per violenza di genere».
Sono numeri impressionanti, che fanno del Sudan il teatro della più grave crisi umanitarie della storia recente, ma che sono solo la lunga coda di un conflitto che da oltre cinquant’anni ha visto il Paese lacerarsi sotto una catena ininterrotta di guerre tribali, conflitti etnici e colpi di stato.
Vicende coloniali
Culla di una delle più antiche civiltà conosciute, il regno di Kush, stanziale tra la prima e la sesta cataratta del Nilo, in quel territorio che i romani chiamarono Nubia, tra il 1896 e il 1956 il Sudan entrò a far parte del protettorato anglo-egiziano, un dominio congiunto esercitato tuttavia solo in via nominale, poiché il controllo effettivo del territorio così come la designazione dei suoi governatori restava in mano alla corona inglese. Mantenere una presa salda su Khartoum era cruciale per la Gran Bretagna, che poteva così assicurarsi un argine strategico alle mire espansionistiche dell’impero francese in Darfur.
Durante questo periodo, il governo britannico mise in atto una politica fortemente sbilanciata in favore dei territori del nord, che in virtù degli storici legami con l’Egitto e il mondo arabo era assai più facilmente cooptabile nei gangli dell’amministrazione coloniale, rispetto ai più frammentati territori del sud (a struttura tribale e perlopiù cristiani o animisti). Ad accentuare questo divario ci fu la cosiddetta Southern Policy, una serie di provvedimenti varati dal governo britannico tra il 1922 al 1946, che sulla scia del noto divide et impera vietava ai sudanesi del nord di viaggiare nel sud senza regolare autorizzazione (Passports and Permits Ordinance Act), promuoveva lo sviluppo nel sud di un sistema educativo in lingua inglese (in luogo di quello arabo) e promuoveva la diffusione della religione cristiana (a scapito di quella mussulmana). Attraverso politiche di soft-power, l’Inghilterra sperava di limitare l’influenza arabo-egiziana e preparare le regioni meridionali a una eventuale integrazione nella federazione britannica dell’Africa Orientale.
In seguito, con la Conferenza di Juba del 1947, i due territori furono riunificati in un unico stato, ma molti rappresentanti del Sud organizzarono una serie di manifestazioni di protesta, temendo che i ben più sviluppati cugini del Nord monopolizzassero le principali istituzioni estromettendoli dalla vita del Paese – cosa che di fatto avvenne.
Indipendenza sudanese e secessione del Sud Sudan
Questa situazione d’instabilità politica contribuì più o meno direttamente alle numerose guerre civili (1955–1972 e 1983–2005), che culminarono, cinquant’anni dopo e con un bilancio complessivo di oltre di due milioni di morti e quattro milioni di rifugiati, nella dichiarazione d’indipendenza del Sud Sudan firmata il 9 luglio del 2011.
A Nord intanto la situazione precipitava. Con la secessione del Sud, il Paese aveva perduto circa 75% delle intere riserve petrolifere, nonché la sua principale fonte di entrata in valuta estera. La disoccupazione e l’inflazione schizzarono a livelli mai visti, scatenando in breve tempo un’ondata di proteste generali dovuta alla grave carenza di generi alimentari. Il popolo chiese le dimissioni del governo, ma le manifestazioni vennero represse nel sangue dall’allora presidente del Paese, Omar Al-Bashir, che aveva cercato di contenere la crisi con drastici tagli ai sussidi.
Nel corso del suo trentennale governo, Bashir era riuscito ad accentrare il potere politico agendo su diversi fronti: da una parte aveva isolato le opposizioni sciogliendo i sindacati e abolendo i partiti, dall’altra aveva legato il proprio destino a quello delle élite, assicurandosi che le posizioni apicali venissero ricoperte da suoi fedelissimi, disposti a usare le risorse statali per sostenerlo in caso di un eventuale colpo di stato. Inoltre, gli introiti straordinari derivanti dalla vendita del petrolio (che nel 2008 arrivò a toccare i 130 dollari a barile), consentirono al governo di calmierare i beni di prima necessità a valori ben al di sotto del normale prezzo di mercato, mitigando il dissenso fra le frange più deboli della popolazione.
Con la secessione del Sud Sudan però, le cose cambiarono in fretta: la rete dei rapporti clientelari di Bashir si assottigliò, il numero dei ministri del suo governo passò da 49 a 21, il prezzo dei beni e l’inflazione salì alle stelle e gli stipendi dei lavoratori diminuirono.
Il progressivo deterioramento delle condizioni di vita dei cittadini, portò i sudanesi e le sudanesi a organizzarsi in sindacati ombra e a manifestare in favore di salari migliori. Il Comitato Centrale dei Medici Sudanesi fu lanciato nel 2011 e organizzò un primo sciopero nel 2012. Nel 2016, si unì a un sindacato ombra di avvocati e di giornalisti per formare l’Associazione dei Professionisti Sudanesi (SPA).
Furono in particolare le donne a mobilitarsi, poiché le politiche di feroce islamizzazione e il rigido codice di comportamento imposto dalla polizia morale aveva progressivamente marginalizzato il loro ruolo nella vita politica. Sotto le ingenti pressioni della società civile, l’11 aprile del 2018, il generale Awad Ibn Auf, vicepresidente e ministro della Difesa di Bashir, annunciò che le varie forze di polizia avevano congiuntamente rimosso Bashir dal potere. I leader del colpo di stato proclamarono una transizione di due anni verso un governo civile. Poche ore dopo, Ibn Auf, considerato troppo vicino al vecchio presidente, annunciò le dimissioni e fu sostituito dal tenente generale Abdel Fattah al-Burhan, che divenne Capo del Consiglio Militare Transitorio (TMC).
Le proteste però non si arrestarono. Vennero formati spazi di aggregazione autogestiti che offrivano cibo e cure mediche gratuite, si allestirono palchi dove artiste e artisti e attiviste e attivisti politici potevano esibirsi liberamente e i vecchi edifici coloniali vennero ritinteggiati con le immagini dei martiri della rivoluzione. Il 3 giugno, il TMC ordinò ai soldati di disperdere brutalmente le manifestazioni: furono uccise almeno 120 persone, decine di donne vennero stuprate e il governo oscurò l’intera rete internet per impedire la diffusione delle atrocità commesse. In seguito, le forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC) indissero una nuova manifestazione per il 30 giugno (la “Marcia dei Milioni”), con proteste simultanee in tutti i principali centri urbani del Paese.
Si aprì così una nuova fase di negoziati con l’obiettivo di formare un governo di transizione condiviso tra civili e militari. In base a questi accordi, fu istituito un Consiglio Sovrano composto da undici membri (cinque nominati dal TMC, cinque dalle FFC e un undicesimo scelto di comune accordo) per guidare il paese verso elezioni democratiche entro tre anni. Il 20 agosto 2019, il Consiglio Sovrano nominò Abdalla Hamdok, economista con esperienza presso le Nazioni Unite, come Primo Ministro. Tuttavia, alcune sacche di resistenza fedeli al vecchio governo si opposero alla spartizione dei poteri e così, dopo un breve periodo di transizione democratica e l’ennesimo colpo di stato, Burhan divenne il capo del Consiglio Sovrano del Sudan.
La guerra civile
In questo scenario si è consumata l’ultima delle catastrofi in ordine di tempo. A contrapporsi in una guerra fratricida sono stavolta le Forze armate sudanesi (SAF) e le RSF, le forze paramilitari di supporto rapido. Se le prime rappresentano l’esercito regolare, le RSF, al contrario, sono una vera e propria milizia parallela e autonoma nata da una costola dei Janjaweed, il famoso gruppo di combattenti di etnia baggara che stando ad un report delle Nazioni Unite avrebbe trucidato in Darfur tra i 10 e i 15 mila civili innocenti. Le due fazioni sono rispettivamente capeggiate dall’attuale presidente al-Burhan e dal suo vice al governo, Mohamed Hamdan Dagalo (noto come Hemedti), entrambi attivamente coinvolti nelle stragi che si consumarono in Darfur tra il 2003 e il 2006 e per le quali l’ex-presidente Bashir è già stato processato dalla corte penale internazionale con l’accusa di genocidio e crimini contro l’umanità.
Il canovaccio di questo ennesimo conflitto è più o meno il solito: dopo aver unito le forze con Hemedti per rovesciare il governo civile, Burhan raggiunse un’intesa con diverse organizzazioni civili, tra cui la Ffc -Db (Forces for Freedom and Change – Democratic Block) che prevedeva, tra le altre cose, l’abrogazione della dichiarazione costituzionale del 2019, l’insediamento delle autorità civili a tutti i livelli e, più importante, la fusione di tutti i gruppi paramilitari in unico esercito professionale riconosciuto.
Lo scopo dichiarato era quello di far confluire le RFS nell’esercito regolare e limitare così il crescente potere di Hemedti, sancendo di fatto la fine di quella fragile alleanza basata sulla spartizione d’interessi personali, particolarismi politici e giochi di potere.
Gli effetti di questa rottura si sono resi evidenti nell’assalto alla capitale Khartoum da parte delle forze dell’RFS il 15 aprile del 2023. Durante la rivolta, sono state colpite numerose infrastrutture pubbliche, tra cui il quartier generale dell’esercito, la sede della televisione di stato e il palazzo del Presidente. Dopo due anni di occupazione ribelle, nel marzo scorso, le truppe di Hemedti sono state ricacciate ad ovest e costrette a ripiegare in Darfur, dove Hemedti ha già dichiarato di voler formare un governo parallelo patrocinato dagli Emirati Arabi e dal gruppo paramilitare russo Wagner. Ma la sua reazione non si è limitata a questo: la scorsa settimana, numerosi droni esplosivi sono stati lanciati contro la città di Port Sudan, attuale capitale amministrativa e polo strategico cruciale per lo smistamento degli aiuti nel paese, colpendo il principale deposito di carburante della città.
Camilla Passarotti, programme manager di Emergency in Sudan, la ONG che da 14 anni offre cure gratuite e di qualità a bambine e bambini fino ai 14 anni, descrive così gli attacchi: «Alle 4.30 circa di sabato 3 maggio si è sentita una forte esplosione, tremavano i vetri delle finestre della nostra casa. Non si è visto subito il fumo per cui non si capiva esattamente quale fosse la zona colpita, ma abbiamo poi appreso che si trattava dell’area dell’aeroporto e, dalle ricostruzioni, sembra si siano verificate più esplosioni. A seguito dell’episodio in città è aumentata la presenza di controlli e l’aeroporto è stato chiuso ma ha già riaperto nella serata di ieri. Noi abbiamo limitato i nostri spostamenti in città, muovendoci solo tra casa e ospedale per garantire la sicurezza dello staff. Ora monitoreremo cosa accadrà nei prossimi giorni».

Khartoum vista dall’alto
Disastro umanitario e ingerenze straniere
L’elevato grado di sofisticazione tecnologica delle armi utilizzate dall’RFS, e in particolare quella dei droni, ha suscitato forti sospetti tra gli analisti internazionali. Un rapporto di Amnesty International ha accusato gli Emirati Arabi di aver fornito alle truppe dell’RSF ordigni bellici di fabbricazione cinese, come le bombe guidate GB50A e gli obici AH-4 da 155 mm. Com’è noto, la Cina è il principale partner commerciale di Karthoum e acquista circa il 70% di tutte le sue esportazioni petrolifere, garantendo in cambio prestiti a basso interesse, supporto logistico, infrastrutture e numerosi investimenti in settori strategici come quello minerario e nucleare. E, ovviamente, armi.
Analizzando decine di documenti e filmati, Amnesty international ha infatti dimostrato che la Cina si servirebbe di Abu Dhabi per far arrivare i propri rifornimenti in Sudan, aggirando così l’embargo stabilito da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 2018. In un discorso televisivo rilasciato ai media statali sudanesi il primo maggio scorso, il ministro della Difesa Yassin Ibrahim ha annunciato che il governo ha interrotto i rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, inclusi il ritiro del proprio ambasciatore e la chiusura dell’ambasciata nel paese del Golfo:
«L’intero mondo ha assistito, per oltre due anni, al crimine di aggressione contro la sovranità del Sudan, la sua integrità territoriale e la sicurezza dei suoi cittadini da parte degli Emirati Arabi Uniti».
Complementarmente sembra che il governo abbia richiesto (e ottenuto) aiuti militari, soprattutto droni, da Iran e Turchia, nonché sostegni da parte di Egitto e forse Russia. Oggi, a più di due anni da un conflitto che conta almeno 140 mila morti e una quantità incalcolabile di ferite e feriti, le risposte della comunità internazionale sono tiepide e tardano ad arrivare. Mamadou Dian Balde, coordinatore regionale dei Rifugiati in Sudan e Direttore Regionale dell’UNHCR per la regione dell’Est e del Corno d’Africa e dei Grandi Laghi, ha dichiarato che degli 1,8 miliardi di dollari stanziati dal Piano regionale di risposta alle persone rifugiate per il 2025, rimane finanziato solo il 10%. In un Paese flagellato dalla povertà, con un tasso di malnutrizione dilagante, cicliche epidemie di colera e un processo di desertificazione che appare ormai inarrestabile, le conseguenze di questa decisione rischierebbero di avere un impatto devastante. Stando ai report UNICEF, solo quest’anno le vittime infantili sono aumentate dell’83% rispetto all’inizio del 2024 e la fame e le carestie hanno raggiunto livelli senza precedenti.
La narrazione mediatica distorsiva
L’indifferenza della comunità globale di fronte alla crisi sudanese è sintomatica di una narrazione che vede normalizzare la sofferenza del popolo africano, percepito come intrinsecamente arretrato, barbaro e incivile, una forma di razzismo temperato che affonda le sue radici nelle teorie pseudo-scientifiche della superiorità della razza bianca, nell’uso del concetto di terra nullius come strumento giuridico per l’appropriazione coloniale dei territori e nella deliberata costruzione deumanizzante dell’uomo nero da parte delle potenze occidentali. In tempi moderni, questa forma di prevaricazione culturale persiste nei rapporti commerciali tra gli ex-Paesi coloniali e le potenze dominatrici, sfociando in atteggiamenti di bieco paternalismo quando non di vero e proprio sfruttamento.
In un suo saggio pubblicato nel 2012, lo scrittore Teju Cole definisce questo fenomeno “complesso industriale dell’uomo bianco”, evidenziando come le questioni africane siano spesso viste attraverso la lente dell’intervento occidentale piuttosto che dal punto di vista dell’autonomia dei popoli africani.
D’altra parte, il crescente fenomeno del land grabbing, ovvero l’acquisizione di vaste aeree territoriali da parte dei governi stranieri e delle multinazionali, ricalca il vecchio modello coloniale in base al quale le terre delle africane e degli africani venivano espropriate a beneficio dei potentati esterni.
Non bisogna poi dimenticare il ruolo che i media internazionali giocano nel plasmare la percezione dell’opinione pubblica, perpetuando beceri stereotipi e teorie preconcette che descrivono il continente come povero, corrotto e profondamente violento. Salvare l’Africa da se stessa, questo è il motto, risposta semplice a problemi complessi, ridurre una realtà profondamente stratificata e complessa a una narrativa piatta e facilmente digeribile, tesa a giustificare lo sfruttamento capitalista e a sgravare l’Occidente dal peso delle proprie responsabilità. Un esempio tipico a tal proposito è rappresentato dalla copertura mediatica dei conflitti.
I media occidentali tendono infatti a trascurare il coinvolgimento delle multinazionali nell’estrazione di petrolio e minerali, che alimentano le tensioni locali e contribuiscono alla violenza, preferendo concentrarsi su immagini di grande impatto mediatico che, esulate dal loro contesto geopolitico, rafforzano il cliché dell’incapacità dell’”uomo africano”, e deviando al contempo l’attenzione dagl’interessi che le potenze straniere traggono dall’instabilità del paese.
Questo sbilanciamento della copertura mediatica è reso ancora più evidente se considerato in rapporto ad altri contesti bellici di ben più elevata risonanza, non ultimo quelli in corso in Ucraina e nella striscia di Gaza.
Attualmente, il Sudan conta circa 50 milioni di abitanti ed è uno dei Paesi più poveri al mondo, con un reddito pro capite lordo inferiore ai 1000 euro l’anno, una mortalità infantile che sotto i cinque anni si aggira a 50,1 per 1.000 nati vivi e un’aspettativa di vita che per gli uomini non arriva ai 60 anni. Il Sudan rappresenta inoltre uno dei principali luoghi di partenza dei flussi migratori che dall’Africa subsahariana giungono in Libia e da qui alle coste europee del Mediterraneo.
Se la comunità internazionale continuerà a rimanere cieca di fronte alla sfilata di atrocità che da decenni affligge questo popolo dimenticato, se un’etica della lungimiranza appare quantomai illusoria, saranno forse i milioni di corpi in marcia verso l’Occidente a costringerci a guardare ciò che abbiamo scelto di non vedere.
Immagine di copertina di Isaac Billy per Un Photo, da Flickr – Rifugiati interni a Khartoum, 2016
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