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Gianni Celati, il cammino di un’immaginazione infinita

A pochi giorni dalla morte dell’autore ferrarese, da anni in Inghilterra, una riflessione sulla sua eredità espressiva e morale, tra lavoro culturale, narrazioni e produzione d’immaginari.

La scomparsa di Gianni Celati, narratore delle pianure, autore di libri indimenticabili e cantore di una maniera di stare al mondo inafferrabile, estranea a interessi e definizioni, lascia una domanda profonda e trasversale a tutto il mondo contemporaneo della cultura: la necessità di definire attraverso la scrittura, e l’azione intellettuale tout court, una propria voce. Voce che in Celati era una vera materia di lavoro, prima ancora di qualsiasi rovello tematico o ideologico, prima insomma dei cosiddetti contenuti, voce che nel corso di una vita avventurosa e personalissima era diventata essa stessa il possibile contenuto con cui confrontarsi, il punto di vista da offrire sulla realtà.

I suoi racconti, i romanzi, le traduzioni e i diari, i saggi così diagonali e ancora oggi decisivi su letteratura, teatro e cinema, fino ai quattro docufilm anarchici e vitali realizzati nella Pianura Padana e in Africa, sono attraversati da un’energia liberatoria fatta di corpi, paesaggi, continue immaginazioni. Parafrasando la riflessione dell’amico fotografo Luigi Ghirri, per cui il paesaggio era per lo sguardo il luogo dell’attenzione infinita, potremmo dire di Celati che la pagina e l’inquadratura sono stati lo spazio di una infinita immaginazione. Immaginazione che non abbracciava, e anzi fuggiva, la pesantezza della cosiddetta intelligenza, degli oggi ingabbianti specialismi, ma al contrario cercava di liberarsi e librarsi nell’indefinibile flusso percettivo che caratterizza la nostra esperienza del mondo. Qualcosa di molto simile allo stancarsi camminando, prassi intrinseca alla vita di Celati fino agli ultimi anni trascorsi tra le colline di Brighton e che spesso è stata da lui evocata come necessariamente propedeutica all’azione della scrittura, dunque del pensiero.

Camminare, guardare, raccontare: ecco forse il motore dell’eredità celatiana, che tra gli anni Settanta del XX secolo e gli anni Dieci del XXI si è andata costituendo senza badare alle etichette e ai presunti programmi, adottando piuttosto lo spirito di un insopprimibile nomadismo, nella consapevolezza di essere estraneo, perennemente altrove, rispetto a tutte le forme della cultura “industriale” da cui, in primis con la letteratura, Celati ha sempre naturalmente sentito di dover prendere le distanze. Lo definiremmo narratore delle riserve, riprendendo il titolo dell’antologia da lui curata nel 1992, introducendo la quale l’autore emiliano rimetteva al centro «quei momenti in cui si riesce a scrivere per sé, per la cosa in sé, senza dover dimostrare niente a nessuno», e omaggiava – come riporta Gabriele Gimmelli nel suo recente volume Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema, edito da Quodlibet – quel bisogno di riconnettersi profondamente «alle riserve di cose che erano già là nel nostro orizzonte, prima di noi».

Che cosa poi renda unico questo orizzonte di pensiero e di vita, probabilmente si può rintracciare al meglio nel volumetto del 2011 Conversazioni del vento volatore (Quodlibet), che raccoglie, addensandoli, vari scritti di Celati nati da circostanze colloquiali e toni conversativi, e per questo così accessibili e illuminanti: l’idea del resto che la scrittura sia così vicina all’attitudine precaria della conversazione, attraversata da quella “ventosità” che spariglia le parole e le riconfigura in una dimensione fortemente relazionale, è premessa necessaria e sufficiente a trasformare i deserti del reale e dell’esistenza in piccole oasi di “inverosimile grazia”, refrattarie alle “chiare ripartizioni” degli esperti del mondo, spalancate all’avventura e allo scherzo del quotidiano, esposte a quel rapporto con l’ambiente – con la Natura, come direbbe Werner Herzog – in cui l’interiorità umana accetta il dialogo con la sua incertezza radicale.

Su questa incertezza radicale, su questa speranza che nasce dal non aver speranza, si innestano gli immaginari infiniti delle pagine di Celati, accomunate dalla consapevolezza di raccontare la qualsiasità di luoghi, figure ed eventi come partecipando, con stile piano e trasparente, «di un’infinita ripetizione di cose già dette, di fabulazioni del sentito dire», eludendo per contro le forme chiuse del romanzo tutto fissato nella sua testualità, dove le parole sono ancorate e le storie devono essere lo specchio lucidato della supposta realtà.

In un breve racconto intitolato Tempo che passa, tratto dall’indimenticabile Narratori delle pianure (1985) che per moltissimi lettori è stato la porta di accesso all’universo letterario di Celati e che lo stesso Italo Calvino, mentore di Celati, salutava come testo di «accettazione interiore del paesaggio quotidiano», una donna impegnata per lavoro a percorrere ogni giorno una cinquantina di chilometri in auto nella Padana inferiore, sosta durante il ritorno in zone interstiziali del paese d’origine e, osservando passiva la marginalità degli ultimi gesti del giorno, riesce finalmente a sentire il tempo. In questo atto ambiguo e sospeso, apparentemente indefinibile, vengono meno il giudizio e l’attesa, nella coscienza, non importa se matura o appena abbozzata, che tutto stia accadendo: che il tempo, semplicemente, sia la condizione in cui ci ritroviamo tutti insieme, fino alla morte. In uno dei tanti, puntualissimi appunti sul cinema, Celati prende il film di Wim Wenders Nel corso del tempo (1976) e vi riconosce l’impianto erratico delle peregrinazioni cavalleresche di Lancillotto e Perceval: il santo Graal capace di liberare l’immobilità del paesaggio al confine con la DDR che Bruno e Robert, protagonisti del film, attraversavano in auto, diventava così la memoria personale dei personaggi, il rapporto con il proprio passato e, in fin dei conti, con il tempo stesso. La loro ricerca non avviene mai entro l’esclusiva struttura fictional dell’azione e della trama, bensì entro quella «non-fictional del tempo che passa durante il nostro guardare», scrive Celati, «qualcosa di molto più antico e favoloso. […] Dietro a ogni immagine ce n’è un’altra, che a sua volta si collega ad altre già viste; e ciò che forse determina la loro durata d’effetto è la permanenza d’una loro riconoscibilità, in cui si concentrano ere di figurazioni immaginative. Questa è l’immagine-tempo di Deleuze».

Così la forma narrativa d’elezione è naturalmente novellistica: «non aver niente da dire, tranne quel poco che ti pare di aver sentito come echi dispersi. Importante è che un racconto faccia immaginare qualcosa, anche solo barbagli di immagini». E da qui potrebbero partire infinite digressioni sui riferimenti letterari e artistici dell’autore – da Dante a Leopardi, da Beckett a Buster Keaton, da Twain a Swift, da Conrad a Melville, da Céline a Joyce, passando per Zavattini, Antonioni, Wenders, e molti altri ancora – o ancora sulle straordinarie personalità con cui Celati ha coltivato l’arte dell’incontro – Ghirri, Ermanno Cavazzoni, Alberto Sironi, Nunzia Palmieri, Daniele Benati, Marco Belpoliti, la sua traduttrice in tedesco Marianne Schneider, John Berger, passando per i molti allievi diretti o indiretti, da Pier Vittorio Tondelli a Claudio Piersanti, da Enrico Palandri a Giacomo Campiotti, da Gian Ruggero Manzoni ad Andrea Pazienza, da Grazia Verasani a Roberto ‘Freak’ Antoni, e tanti altri… – ma non è questa la sede e del resto molti di quelli ancora tra noi lo hanno omaggiato in questi stessi giorni con ricordi e parole bellissime.

Sono le case sparse del bellissimo film-saggio Visioni di case che crollano (2002) l’immagine più sintetica per raccontare, questa volta attraverso il cinema, il testamento espressivo e morale di Gianni Celati: desiderio espresso da Luigi Ghirri prima di morire, l’idea di far visita e “fotografare” con il video le vecchie case di campagna abbandonate lungo la via Emilia rappresenta quella rocambolesca, commovente intuizione di generare visioni laddove nessuno rivolga più lo sguardo, nei residui, nei crolli, non con la nostalgia che si prova verso i relitti del passato, ma con la consapevolezza di alimentare uno straordinario fuori campo immaginifico sul paesaggio moderno: «cosa fare delle nostre rovine, cosa fare di tutto ciò che è arcaico e sorpassato e non può essere smerciato come un altro articolo di consumo?». Cosa fare della vecchiaia, si dedurrà dal lavoro finito, in un mondo tutto da “defurbizzare” dove la produzione di parole, immagini e pensiero precipita sempre più nella cosmetica spettacolare del consumo di incessanti novità? Per abbracciare questo sguardo eidetico, che indugia sulle cose senza altro scopo in barba a intrecci e spettacolarizzazioni, serve girare documentari imprevedibili come sogni, in cui, citando Alberto Giacometti, «io disegno per capire cosa vedo». Così ha fatto Celati nei suoi quasi ottantacinque anni di vita e nelle loro assai eterogenee stagioni, tra parola e immagine, alla ricerca di un altrove possibile in cui peregrinare, che non a caso più recentemente aveva trovato concretezza in Diol Kadd, un piccolo paese a 150 chilometri da Dakar, Senegal. Tutto, in Celati, ci interroga sul modo in cui guardiamo e ci perdiamo nel mondo: a noi resta la possibilità di portare avanti questa domanda attraverso le sue pagine.

«Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo». Gianni Celati, Verso la foce (1988)