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EUROPA

Elezioni in Francia: l’urgenza di un blocco sociale-politico e la strategia del desiderio

Una analisi dello scenario politico francese dopo la vittoria al ballottaggio di Emmanuel Macron che ha giocato col fuoco, prima alimentandolo e poi presentandosi come soccorritore. Ma le prospettive aperte dalle lotte sociali, dai movimenti e dal primo turno elettorale indicano interessanti possibilità di trasformazione politica

La vittoria del Principe

Dopo due intense settimane di intervallo tra primo e secondo turno, finalmente i risultati finali delle Presidenziali francesi: Emmanuel Macron eletto presidente con il 57,30%, Marine Le Pen segue al 42,70%. L’astensione è al 27,20%, 5 punti percentuali rispetto al secondo turno del 2017, ben 7 rispetto a quello del 2012, inferiore solo al 28,4% del 2002 che portò alla Presidenza Jacques Chirac.

Diversamente da altre situazioni, l’aggettivo «scontato» per descrivere un simile risultato è più che appropriato. Al punto che si può parlare della vittoria del Principe. Da tale ha governato e governerà Macron, promuovendo a suo favore quella che dall’altro lato delle Alpi chiamano la droitisation della società: uno spostamento a destra progressivo e strategicamente orientato dell’asse di istituzioni, linguaggi, fantasmi individuali e collettivi.

Un divenire-fascista della società francese che non ha risparmiato neanche la «vecchia» sinistra, come mostra l’identificazione sciovinista (in Francia si dice «franchouillarde») fatta in campagna presidenziale da Fabien Roussel (PCF) tra la classe operaia e consumo di carne e alcool.

Emmanuel Macron ha giocato col fuoco, prima alimentandolo e poi presentandosi come soccorritore. I vari cicli di mobilitazione che si sono dati durante il suo primo quinquennio (2017-2022) sono stati molteplici, potenti e hanno approfondito la frattura tra governo e società già aperta almeno dal ciclo del 1995.

La chiara matrice neoliberale e di classe della sua presidenza ha inoltre reso impossibile un appello al voto alla sinistra che si fondasse su promesse «positive»: cosa proporre dopo un mandato segnato dalla devastazione del settore pubblico, dall’attacco frontale e continuo ai diritti sociali, civili e politici, dalla sfrontata politica antisindacale e dall’assenza di dialogo con le contestazioni?

Per cinque anni Macron ha cercato una sintesi tra neoliberalismo economico e sovranismo politico, che Pierre Dardot e Christian Laval hanno efficacemente riassunto nella formula del «governo dell’irresponsabilità» (Dominer. Enquête sur la souveraineté de l’État en Occident, qui la recensione in italiano).

Sintesi che si è data, per prendere l’esempio più evidente, nell’interpretazione scientifica della contestazione sociale e politica come problema esclusivamente di ordine pubblico da reprimere e gestire. Dall’altezza delle centinaia di ferit* e mutilat* nei cortei, passando per le morti di soggettività razzializzate durante i fermi di polizia, il ministro dell’Interno Gérard Darmanin ha potuto infatti definire le posizioni di Marine Le Pen come «troppo molli».

Il neoliberalismo macroniano non strizza l’occhio all’estrema destra; al contrario la supera, esasperandone diversi aspetti, perché sia lei a strizzargli l’occhio. Questa la strategia condotta, in tema di fantasma neofascista, anche dalla feroce campagna anti-wokisme.

Il ministro dell’Educazione nazionale Jean-Michel Blanquer ha dato sponda a questa campagna, in cui l’ideologia woke non sarebbe altro che la versione francese della cancel culture.

Come spesso accade nelle culture conservatrici e neoliberali, si tratta di un rovesciamento strumentale di una battaglia dei movimenti, in particolare statunitensi, per i quali «Stay woke» significa «essere svegli», un invito allo stare all’erta per partire all’attacco della violenza razzista, a cominciare dalla polizia. Per l’ideologia macronista, il wokisme è invece un’ideologia basata sul paradosso della «decostruzione» che è al tempo stesso «postcoloniale» e «identitaria»[1].

Di questa guerra ideologica non se n’è parlato molto in Italia, vista l’infatuazione di buona parte della stampa per Emmanuel Macron con in testa il prode Federico Rampini, ma stiamo parlando del fatto che un ministro di un governo europeo ha dichiarato pubblicamente che il pensiero critico, femminista, decoloniale di Jacques Derrida, Michel Foucault e Gilles Deleuze sia un «virus». Promettendo anche che lo Stato francese si impegnerà nella ricerca di un «vaccino».

Sul livello interpretativo, oltre che sull’orientamento della stampa generalista italiana non c’è molto da dire, se pensiamo a come Giovanna Botteri ha continuato fino a ieri a insistere con la litania sul rischio dell’appoggio di una frangia dell’elettorato della sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon a Marine Le Pen al secondo turno delle presidenziali.

È l’intera griglia interpretativa a essere sbagliata e decentrata rispetto ai problemi reali che si muovono nella composizione tecnica e politica della forza lavoro francese, oltre che degli interessi e delle strategie portate avanti dai tre candidati principali di queste Presidenziali.

Una griglia in cui la Francia viene presentata nella seguente maniera: Mélenchon populista, versione francese e «de sinistra» dei 5stelle, Le Pen «sovranista» e quindi – riflesso salviniano? – non proprio fascista, Macron «europeista».

Il fascismo di Le Pen è invece molto chiaro, il suo programma spazia dal divieto di portare indumenti religiosi musulmani (riassunti come «velo») fino all’impunità per la violenza poliziesca, passando per i proclami di un governo di emergenza nazionale con riunione del potere nelle mani della Presidente, per non parlare del progetto (rivendicato!) di rimpatriare milioni di stranier*.

È inoltre chiaro, da quanto abbiamo riportato più su, di che Europa si tratti per Macron: l’Europa della libertà di movimento per merci e capitale e della sua contemporanea negazione per le persone razzializzate; della rincorsa alla destra su tutti i campi; dello smantellamento del Welfare, e così via. Di Jean-Luc Mélenchon parleremo poi.

Il problema della comprensione della realtà politica francese, e il suo grado di manipolazione, è molto sentito in Francia. E si è riflesso, in maniera acritica, nei servizi apparsi anche nella televisione pubblica italiana.

Come quello, andato in onda sempre sul Tg3 ventiquattrore prima del secondo turno, che ha incredibilmente preso a campione dell’elettorato francese i cittadini bianchi che passeggiano sugli Champs Elysées. Le loro risposte sono state riportate come il «vero sentimento comune della Francia alle urne del 2022».

Foto di Andrea Tedone

Nuovi spazi di libertà: un’urgenza politica ed esistenziale

Tra il 10 e il 24 aprile qualcosa si è mosso, frammenti provenienti da diversi strati di cicli di mobilitazione degli anni precedenti si sono composti in un’increspatura che ha visto un tentativo di soggettivazione nelle università e nei licei. Di tentativo disperato si tratta tuttavia, nella misura in cui per lo più mosso dentro i confini delineati dalla strategia del Principe, che ne hanno definito anche i contorni esistenziali.

Il pericolo neofascista e razzista di una presidenza Le Pen ha fatto impennare l’attenzione sull’urgenza di iscrivere e regolarizzare i/le student* rifugiat* e sans papiers, mentre il ritorno dell’imposizione della scelta fra due candidat* sord* alla società hanno prodotto l’urgenza politica ed esistenziale di nuovi spazi di libertà.

Ma se la prima rivendicazione si è innestata su più vertenze in piedi già da un periodo medio-lungo, sul secondo punto le mobilitazioni hanno cominciato a girare a vuoto. I dibattiti delle assemblee nelle occupazioni e i diversi comunicati hanno evidenziato nella maggior parte dei casi lo stesso problema: una disperazione politica ed esistenziale di fronte a una gabbia apparentemente senza uscita, in cui il diritto al voto è sequestrato in una logica da win-win per la destra e l’estrema destra.

Da qui la logica del «né Macron né Le Pen» e i numerosi appelli all’astensione. Vanno però indicate delle eccezioni notevoli, come il caso di Paris 8 in cui si è data una convergenza fra lavoratrici e lavoratori universitar* e student* contro l’uso antisindacale e antidemocratico della chiusura dell’università.

Un’altra prospettiva interessante è da registrare nell’analisi di fase dell’ultimo comunicato dell’occupazione dell’École normale supérieure (ENS) : «Le occupazioni delle università, come nuovi luoghi di vita, hanno permesso di confermare la possibilità e la necessità di una vita comune fondata su dei valori indissociabili gli uni dagli altri quali l’ecologia, l’antirazzismo, il femminismo e l’inclusione delle voci discriminate dallo spazio politico».

Su questa accumulazione di lotte e di pratiche è possibile, secondo loro, «la costituzione di un nuovo e potente contropotere, fondato su una nuova organizzazione dei rapporti sociali».

Una ventata di realismo è arrivata dalle soggettività razzializzate e dal transfemminismo, che hanno invece ribadito una strategia del desiderio: fermare il neofascismo alle Presidenziali, supportare l’ipotesi della coabitazione Macron-Mélenchon alle legislative che si terranno a giugno, ricomporre le forze di sinistra il cui oggetto di antagonismo non sia la paura ma il desiderio.

Amal Bentounsi, sorella di una delle numerose vittime della violenza razziale della polizia francese, ha evidenziato anche il privilegio di razza nella linea del «né-né»: «in quanto razzializzat*, non abbiamo il privilegio di votare scheda bianca».

Di impronta gramsciana invece le risposte di Didier Éribon in un’intervista al quotidiano online “Médiapart”, in cui il filosofo spera nella capacità di rovesciare la disperazione politica ed esistenziale collettiva in una capacità comune di creare nuovi enunciati e una nuova prassi di classe.

«Penso – ha detto – che i movimenti sociali di questi ultimi anni hanno reinventato una dimensione collettiva della percezione di sé». In questo senso, «Mélenchon ha saputo far passare l’idea che una dinamica di sinistra fosse ancora possibile nelle manifestazioni, ma anche attraverso il voto, interpretato come un atto di raggruppamento, di ricostituzione di una forza che conterà, che peserà. Non siamo più gli oggetti della decisione politica, diventiamo nuovamente dei soggetti».

Il lavoro di inchiesta che abbiamo svolto all’indomani del primo turno aveva mostrato la distanza tra la realtà dell’increspatura delle mobilitazioni e la sua narrazione italiana.

Un elemento che è precedentemente sfuggito concerne il ruolo, tra ricchezza e limiti, del progetto di Union populaire lanciato da Jean-Luc Mélenchon.

Sul primo versante – quello della ricchezza –, è sempre più chiaro che tale progetto ha superato l’impostazione «populista» delle Presidenziali del 2012 e del 2017, articolandosi invece in un’inclusione delle rivendicazioni transfemministe, antirazziste e studentesche degli ultimi anni.

In questo senso, si è andata creando attorno all’Union populaire una progressiva ricomposizione di settori di forza-lavoro sfruttata, razzializzata e sessualizzata nella direzione di un piano comune e condiviso di rappresentazione delle lotte. È in questa prospettiva che il suo programma ha integrato un’importante rivendicazione emersa dal ciclo di lotte dei gilets jaunes come il «referendum di iniziativa cittadina».

Sull’altro versante, complementare e perciò contraddittorio, il populismo che fino a cinque anni fa caratterizzava la France Insoumise non è stato del tutto liquidato, in particolare per ciò che riguarda la figura del leader. Difficile d’altronde farvi fronte, visto che è uno dei perni su cui ruota la macchina elettorale e politica delle Presidenziali nella Quinta Repubblica.

La persistenza del leaderismo si è declinata questa volta nella logica del «voto utile» per far fronte al neoliberalismo e al neofascismo. Una simile contraddizione ha spinto nuovamente Mélenchon alle soglie del secondo turno, ma impedendo – o comunque deviandone le traiettorie – i tentativi di soggettivazione politica.

Foto di Andrea Tedone

Per la ricomposizione, fra blocco politico-sociale e strategia del desiderio

Tra le varie possibilità aperte, quella della strategia del desiderio sembra la più adatta a questa congiuntura e all’attuale composizione della forza lavoro. Una strategia che si può declinare anche nella bella formula di Étienne Balibar «la paura delle masse»: che la prima abbia nelle seconde il suo oggetto o il suo soggetto, questo il problema politico ed esistenziale registrato nel desiderio di nuovi spazi di libertà.

In termini realistici, è il secondo polo ad avere la meglio adesso, in una situazione di soffocamento collettivo e condiviso endemicamente nella forza lavoro su suolo francese. Paura immediata di un’accelerazione della degradazione delle proprie esistenze, che tormenta materialmente i milioni di soggettività razzializzate, sessualizzate e/o marginali.

Parliamo della fetta più sfruttata e meno garantita della forza lavoro contemporanea in Francia e non solo. Una paura che fa il paio con un’altra, su medio raggio, che ha come oggetto l’annichilimento totale della possibilità di costruire antagonismo, come mostrano i riferimenti ossessivi (ma non per questo inopportuni) al caso della sinistra italiana.

In questa prospettiva, i numerosi richiami alla ricomposizione politica e di classe, già maturati all’interno del programma e della campagna elettorale di Mélenchon, sono il vero obiettivo delle legislative.

Da un punto di vista di classe è infatti necessario inquadrare le Presidenziali come i «primi» due turni della tornata elettorale, il cui senso non si può cogliere se non leggendolo in prospettiva del «terzo» turno. Come ha ricordato il candidato della France Insoumise, «se vince l’Union populaire, la linea del governo sarà quello dell’Union populaire».

Certo, ha aggiunto, la Quinta Repubblica dà ancora molti poteri alla Presidenza, ma anche su temi come la guerra e la difesa nazionale la costituzione vede nel Primo Ministro un potere di veto sulle politiche presidenziali.

Le affermazioni di Mélenchon diventano intelligibili se lette in filigrana delle parole di Manon Aubry, eurodeputata di France Insoumise, nel dibattito di martedì 12 aprile con il filosofo Michaël Fœssel, consultabile online.

In questa occasione, l’eurodeputata ha evidenziato l’immanenza politica del senso del progetto Union populaire alla capacità istituzionale delle lotte femministe, sociali, antirazziste di imporre le proprie rivendicazioni come base della piattaforma di un partito che si presenta alle Presidenziali.

Il riferimento incessante al concetto gramsciano di «blocco sociale-politico» è in questo senso al di là della logica egemonica, che ha d’altronde contraddistinto la linea politica del suo partito alle scorse presidenziali. Si tratta invece di presentare il Partito come una forza tattica e uno strumento materiale per azionare un salto di qualità nella strategia dei movimenti in Francia.

Foto di Andrea Tedone

Ciò permette di intravedere in questo momento un segnale di discontinuità tra la stagione «populista» vissuta negli anni Dieci, e gli anni Venti in cui siamo entrati, è il riconoscimento del loro ruolo – tanto politico quanto programmatico.

Ciò che è interessante osservare è che sono gli stessi protagonisti della France Insoumise a spiegare in questi termini il loro esito elettorale. Resta però tutto da vedere se il 22% dei voti alle elezioni presidenziali saranno confermati da quella che potrebbe essere una coalizione «di sinistra» alle elezioni legislative.

E, qualsiasi sia il risultato, è tutto da vedere quale possa essere un rapporto tra una nuova compagine «di sinistra» e i movimenti nello scontro con il neoliberalismo macronista che si annuncia ancora più spietato. Del resto, questa articolazione è risultata estremamente problematica negli ultimi trent’anni e non è per nulla scontata.

In ogni caso va evidenziato, perlomeno a livello discorsivo, il fatto che il ruolo dei movimenti è stato inteso in termini politici, all’interno di una lettura di «blocco sociale», e non solo di mera «partecipazione» o di «opinione pubblica».

Questa intuizione può essere contestualizzata anche da un altro punto di vista, quello della crisi democratica della società francese. La presidenza Macron ha mostrato come lo scollamento delle istituzioni, in senso stretto, dalla società e dai movimenti sociali non si traduca necessariamente nella trasformazione dei secondi in contropotere.

Nella faglia tra i due si è andata anzi irrobustendo la perdita di fiducia nella possibilità di trasformazione della società, mentre a crescere è stato il neofascismo nelle sue varie forme, portando di nuovo Le Pen al secondo turno delle presidenziali. Questa è una strategia politica condotta da Macron da cinque anni a questa parte.

Secondo il direttore di Mediapart Edwy Plenel, «Macron è responsabile di questa catastrofe dopo essere stato eletto per evitarla, e ha aggiunto a questo invidiabile record la disastrosa pedagogia di una campagna cinica. Si è comportato come se tutti i suoi voti al secondo turno valessero come l’adesione al suo programma. Si è preso gioco degli elettori con slogan rubati – “Il futuro in comune”, il programma di Jean-Luc Mélenchon – e annunci demagogici – un primo ministro della “pianificazione ecologica” dopo aver tradito la Convenzione dei cittadini per il clima».

Potenzialmente quella della sinistra con i movimenti e la società è una strategia politica alternativa e conflittuale con quella di Macron. La lettura fatta da Mélenchon, in una serata alla Maison de la Chimie a Parigi (impressionante analisi del voto fatta davanti a un migliaio di persone) ha inteso tale strategia all’interno di una comprensione della società come divisa in blocchi: c’è il blocco «popolare» (la «sinistra»), «di destra» e razzista (Le Pen, Zemmour e altri di estrema destra), «liberale» (Macron e compagnia). E poi c’è il «blocco» dell’astensione.

È su questo che bisognerebbe, a suo avviso, fare «campagna».  In una simile congiuntura si impone dunque una dialettica tra forze capaci di affettare le istituzioni legittimate costituzionalmente (come France Insoumise) e forze capaci invece di produrne di nuove. Questo dialettica costituente sarebbe al centro della «rivoluzione cittadina» evocata da Mélenchon.

Va detto che il suo ragionamento è fatto in nome del «popolo», evocato nei termini di Rousseau, oppure declinato in altre occasioni nella retorica del «terzo stato», che è altrettanto problematico per esprimere efficacemente e in termini di intersezionalità l’attuale composizione (tecnica e politica) della forza lavoro.

Tuttavia il suo orientamento decisamente anti-razzista e egualitario può rompere radicalmente la divisione che attraversa il concetto di «popolo» oppone chi è interno ed esterno alla cittadinanza.

Un altro limite riscontrato in questa fase di passaggio nei discorsi della France Insoumise è il ruolo del leader. Mélenchon è un tribuno, una personalità debordante e condizionante. Spesso, come ha riconosciuto lui stesso, ha penalizzato le alleanze con altri partiti giudicate al momento importanti dagli attori in gioco. Ma ha anche permesso una continuità dalle elezioni del 2012 a oggi.

Questo limite potrebbe essere l’oggetto di una nuova dinamica politica in cui tanto più i movimenti diventano intersezionali, tanto più potrebbero darsi in una nuova una costituzione politica attraversando il partito e superandolo.

Una simile dinamica sarebbe tutta da verificare andando al di là dei progetti, pur interessanti, enunciati a caldo da chi comunque ha perso le elezioni e in vista di un’altra campagna elettorale. Ciò non toglie che una simile idea politica potrebbe riscuotere interesse anche per altri paesi.

Bisogna allora aspettare ancora il «terzo» turno per verificare se la scommessa mélenchoniana si avvererà. Nell’ipotesi in cui un tale scenario si avveri, potrebbe aprirsi la possibilità di un rovesciamento della logica di alleanze tra Partito e movimenti, in cui sarebbero i secondi a dettare la linea del primo.

Significherebbe una forte determinazione del governo da parte dei movimenti, che in tal modo costituirebbero un reale contropotere interno (governo) ed esterno (le piazze) rispetto alla Presidenza. Tutto questo è ipotetico. Il primo ed evidente scoglio saranno i risultati delle legislative che, bisogna ricordare, dal 2002 replicano l’esito delle Presidenziali.

Il secondo, ma non meno importante, sarà la direzione in cui si risolverà la contraddizione interna alla France Insoumise tra, da un lato, la presa di coscienza dell’esistenza di una potenza – in termini rivendicativi, di elaborazione e di partecipazione collettive – nei movimenti e nella società francese e, dall’altro lato, l’immagine «unificante» della ricomposizione di classe.

Si tratta delle possibilità soggettive per un divenire-classe della forza lavoro francese, cittadina e non cittadina, che vede in questa contraddizione fra logica intersezionale e logica «cittadina» o «popolare» un problema. Ma è già un segno positivo l’esistenza di un vero problema, quando si è ormai abituati da anni a destreggiarsi fra falsi problemi. È segno cioè della politica, e della sua non-riduzione all’amministrazione ingegneristica e contabile della cosa pubblica.

[1] Per capire il dibattito francese, rimandiamo a P. Corcuff, La grande confusion. Comment l’extrême droite gagne la bataille des idées, Textuel, Paris 202; F. Matonti, Comment sommes-nous devenus réacs?, Fayard, Paris 2021.

Immagine di copeertina di Annah Hmed e Marco Spagnuolo

Immagini dentro l’articolo di Andrea Tedone, manifestazione post elettorale a Marsiglia, 25 aprile 2022