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“Suspiria” di Luca Guadagnino

Tra i film più attesi quest’anno al Lido, “Suspiria” di Luca Guadagnino è più una “cover” che un vero e proprio remake del film di Argento del 1977. Tra danza contemporanea, suggestioni psicoanalitiche e la Germania della RAF prende corpo una delle visioni più suggestive viste finora al Festival di Venezia

Difficile definire “remake” l’operazione di Luca Guadagnino; piuttosto “cover” o “variazione sul tema”. Il regista palermitano, infatti, a partire dal cult di Dario Argento del 1977, realizza un’opera totalmente autonoma ed energicamente diversa dal Suspiria originale, peraltro recentemente restaurato in 4K e riproposto nelle sale all’inizio del 2017.

Alla vigilia, tanto il trailer quanto la durata facevano già presagire una distanza notevole dal film di Argento, che durava solo 90 minuti ed era, più che un “buon” film, un divertente e delirante carrozzone grandguignolesco, nato per esser un cult. Il film di Guadagnino si prende almeno un’ora in più, un tempo che serve alla storia per allargare i suoi confini e accumulare piani di senso che rendono questa nuova versione di Suspiria un’opera matura e ambiziosa, cerebrale e simbolica.

Il film è ambientato nel 1977, l’anno del film di Argento ma anche l’anno dell’Autunno tedesco, quello del sequestro Schleyer, del dirottamento di Palma di Maiorca, del “finto suicidio” dei leader della RAF Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe e Irmgard Möller. Mesi di grande tensione per un paese ancora alle prese con le cicatrici della Seconda Guerra Mondiale e con la frastornante divisione in due stati corrispondenti ai due grandi blocchi che spaccano il mondo. Avendo dotato la vicenda di un contesto storico ben preciso, Guadagnino e il co-sceneggiatore David Kajganich operano anche uno spostamento dell’ambientazione da Friburgo a Berlino (“Six acts and an epilogue, set in divided Berlin”, recitano i titoli di testa), dove, proprio accanto al Muro, Guadagnino situa la Markos Tanz Company in cui approda Susie Bannion – main character del film, interpretata da Dakota Johnson – un edificio dall’architettura inquietante che sembra uscito dalla mente di Albert Speer e che viene splendidamente fotografato dal tailandese Sayombhu Mukdeeprom, che accentua per tutto il film il grigio e il rosso del sangue.

Susie viene dall’Ohio, dove è cresciuta in una famiglia rurale di Amish nella quale – ci suggerisce un flashback – le donne vengono concepite solo in quanto “madri” e pilastri della famiglia e nella quale le era fatto divieto di assistere agli amati balletti (che lei frequentava trasgredendo e pagandone le conseguenze); Susie è ossessionata fin da piccola da Madame Blanc, ex ballerina e direttrice della scuola (Tilda Swinton eccezionale e somigliante a Pina Bausch) e aveva una relazione a dir poco problematica con sua madre, che la considerava l’incarnazione del peccato; a Berlino è destinata ad assumere subito una posizione centrale in questa compagnia che, come nel film di Argento, si rivelerà essere una setta di streghe.

Lo spostamento più significativo rispetto alla “fonte”, però, avviene qui ed è proprio il passaggio delle ballerine-streghe da semplici vittime a carnefici: il 1977 è infatti anche uno degli anni chiave della storia del femminismo e le istruttrici e allieve dell’accademia si configurano potentemente come giovani “potenziali madri” che hanno però scelto di non esserlo e che si ribellano fieramente a qualsiasi forma di patriarcato. Mentre nel film di Argento la natura sinistra dell’Accademia veniva svelata poco a poco, qui viene dichiarata da subito e da subito si comprende come quasi tutte le allieve siano orgogliosamente consapevoli del lato oscuro dell’istituzione. La tetra scuola Tanz di Madame Blanc ha solo donne al suo interno, così come il film: il tandem Guadagnino/Kajganich fa piazza pulita dei personaggi maschili e crea un mondo di donne “fasbbinderiane”, tormentate, a volte in conflitto tra loro ma mai vittime e mai sconfitte. Non a caso, l’unico personaggio maschile di rilievo, lo psicologo junghiano Jozef Klemperer, è interpretato – sotto tonnellate di makeup e lo pseudonimo di Lutz Ebersdorf – dalla stessa Swinton.

La danza in Suspiria è rappresentata in modo decisamente originale e coerente con questo disegno “politico”. Madame Blanc suggerisce a Susie di danzare per «rompere il naso alla bellezza» («We must break the nose of every beautiful thing»): la componente erotica del ballo si libera dalla mediazione di uno sguardo e di un immaginario tipicamente maschili e diventa un baccanale dionisiaco e primitivo, privo di qualsiasi patinatura, come fosse una pratica finalmente “liberata” e trasformata un sulfureo sabba che rivendica fieramente la forza prepotente del “femminile”. La sequenza finale del film, grafica e ambiziosa, è un rito, appunto, politico (mai più madri, ripetono le streghe) tribale e definitivo. Susie si congeda chiedendosi: «Perché sono tutti inclini a pensare che il peggio sia passato?», ed è il congedo militante del film, che sembra invitare a non abbassare mai la guardia.

Perfette le musiche sofferte di Thom Yorke. Per i fan: nella parte della moglie di Klemperer, cameo per Jessica Harper, che interpretò Susie nel Suspiria di Dario Argento.