cult

CULT

Ecologia del dispendio: Georges Bataille teorico della religione

In “Teoria della religione” del 1948 (da poco ristampato dalla casa editrice SE), George Bataille riflette sui quei bordi della ragione al di là dei quali emerge l’animalità e l’immediatezza del non-senso. E tuttavia è proprio in quel territorio tenebroso dove l’animale umano rischia di ritornare a essere cosa che è possibile pensare a un’ecologia positiva del dispendio dove gli oggetti distrutti non distruggeranno gli uomini come invece accade nel capitalismo

Non è mai semplice restituire adeguatamente la vocazione del pensiero di Bataille, che Michel Foucault definì «uno degli scrittori più importanti del suo secolo» e che, d’altro canto, molti atri tacciarono di essere un “mistico” (Sartre), un “pervertito” (Souvarine) o semplicemente un “uomo malato” (Weil) (Cfr. M. Surya, Georges Bataille. An Intellectual Biography, Verso, London 2010, p. 143). Lo stesso Bataille, del resto, non diede mai l’impressione di voler compiacere nessuno, tramutando anzi i propri sentimenti di abiezione e miseria per l’umanità nel più singolare dei metodi conoscitivi, in uno strumento epistemico in cui «l’orrore e l’attrazione si confondono» (G. Bataille, Il colpevole/L’Alleluia, Dedalo, Bari 1989, p. 145) fino al deliquio:

 

«Sono diverso dai miei amici perché disprezzo ogni convenzione, perché ricerco i piaceri più vili. Non ho vergogna di vivere come un adolescente ombroso, in un locale di donne nude: vedendomi così, cupo, le labbra contratte all’angoscia, nessuno immaginerebbe che godo. Mi sento volgare fino a non poterne più e non riuscendo a raggiungere il mio oggetto, almeno sprofondo in una povertà reale» (G. Bataille, L’impossibile, SE, Milano 2020, p. 21).

 

È proprio il fallimento di questa sintesi a rendere Bataille un pensatore sorprendentemente ibrido, inquietante e dall’esuberante ricchezza tematica. Nel XX secolo, nessuno più di lui è stato in grado di scompaginare e riannodare in un modo così estremamente personale una ricchissima varietà di vettori tematici, declinandoli di volta in volta sotto il segno di ambiti tanto nuovi quanto oscuri, come ad esempio l’antropologia lacerata, la sociologia sacra e l’esperienza pura. Il lascito di questa incessante ruminazione filosofica confluisce nella costruzione di un sistema blasfemo, a macchie, a cui egli stesso ha dato talvolta il nome di eterologia (esasperando il carattere viscoso ma al tempo stesso inessenziale di ogni sapere), talvolta quello di Somma Ateologica (il superamento di Dio in direzione di una realtà «mobile, frammentata, inafferrabile» (G. Bataille, Il colpevole/L’Alleluia, cit., p. 44)). Ubiqua e inappropriabile, la figura di Bataille non si è mai ammansita in un canone di studi preciso, ma si è diffusa endemicamente, come un’infezione: più che essere esplicativa, fornita di un baricentro proprio e di una caratterizzazione autonoma, tale filosofia si è trasmessa secondo logiche del contagio, e cioè attraverso «la ripercussione indefinita» di frammenti mobili e mutevoli che rifuggono l’apparenza dell’insieme compiuto (ivi, p. 176). Per appurarlo, è del resto sufficiente rivolgersi ancora una volta al suo mostruoso opus magnum, la Somma Ateologica, una stratificazione di testi incompiuta (non perché abbandonata, quanto piuttosto perché ossessivamente e inconclusivamente rimaneggiata) e assemblata con il proposito di annientare ciascuna certezza umana: il sapere, la cultura, il linguaggio o, più in generale, ognuna delle manifestazioni secolari che rimandano più o meno direttamente alla funzione di Dio. In questo senso, l’ateologia di Bataille (la mortificazione/uccisione di Dio e non la sua ingenua negazione) è essa stessa una smisurata eterologia: un’opera asistematica, frammentaria, in cui la filosofia, l’antroposociologia, l’economia, la storia delle religioni e la mitologia comparata si intersecano in un’ibridazione di corpi fibrosi, reciprocamente intrecciati e il cui servizio non si presta alla ricerca di una presunta verità, ma alla captazione dell’orrore che proviamo dinnanzi alla totalità del pensiero che si sgretola. A sua volta, questa labirintica intelaiatura teorica si riversa in una prassi altrettanto dilacerante, in cui il pensiero si immola all’azione e alla contestazione (è sufficiente pensare al laboratorio multimediale di Documents, alla controversa partecipazione al progetto di Contre-Attaque o alla società segreta parallela di Acéphale).

Abbandonare ogni progetto, eccedere il sapere, coltivare le tenebre della ragione, sono i principi che conducono a quella febbre rivelatoria che Bataille battezzò esperienza, e che egli stesso, nel 1953, pose come l’autentica eredità della sua produzione letteraria:

 

«Se mi si dovesse assegnare un posto nella storia del pensiero, penso sarebbe per aver rilevato gli effetti, nella nostra vita umana, dello “svanire del reale discorsivo” e per aver tratto dalla descrizione di tali effetti una luce che svanisce: questa luce può anche rifulgere, ma annuncia l’opacità della notte; annuncia solo la notte» (G. Bataille, L’esperienza interiore, Dedalo, Bari 1978, p. 303).

 

La recente ristampa da parte di SE (l’editore che si è impegnato più di ogni altro nella diffusione dell’opera di Bataille in Italia) di Teoria della religione costituisce una preziosa occasione per tornare a discutere alcune di queste cruciali intuizioni. A quanto pare, anche Teoria della religione (redatto nel 1948 ma pubblicato solo postumo) avrebbe dovuto far parte della Somma, figurandovi probabilmente come lo scritto più organizzato dell’intero insieme. Per quanto spesso sottovalutato, si tratta di un volume decisamente particolare, che pone in comunicazione il Bataille dell’ateologia con quello della parte maledetta, dell’economia generalizzata e del dispendio. I nessi tra questi due ambiti di ricerca ricorrono a cielo aperto nel libro, emergendo in particolare in quei momenti di snodo in cui l’evasione dall’ordine del mondo razionale e profano collima con il ritrovamento della propria “intimità” sovrana, cioè con «la liquidazione […] di tutte le debolezze legate alla morte» (G. Bataille, La sovranità, SE, Milano 2009, p. 34).

 Teoria della religione è senz’altro un titolo fuorviante, che potrebbe per più di un motivo trarre in inganno il lettore. In primo luogo perché in esso Bataille non ingaggia mai un confronto diretto con il tema religioso: come negli altri suoi lavori, la religione designa solo raramente un culto specifico, funzionando piuttosto come forma generica a cui si agganciano saperi, pratiche e principi diversi tra loro. La religione bataillana è, in altre parole, «una religione qualunque, tra le altre» (G: Bataille, L’esperienza interiore, cit., p. 230), che può essere colta di volta in volta attraverso le lenti di un preciso tipo di genealogia: dalla sua egemonia nelle civiltà arcaiche sino all’apparente marginalizzazione nelle società moderne, dalla sua funzione di catalizzatore delle esperienze estreme sino a strumento di fatale misconoscimento dell’intimità a favore della produttività e della durata. In secondo luogo, il libro non intende nemmeno proporre una vera e propria “teoria”, quanto piuttosto delineare l’“abbozzo” di un «pensiero in movimento» che non si congeli mai in un assetto teorico definitivo. Si tratta di un’impostazione ubiqua nel lavoro di Bataille: per non asservirsi, l’attività filosofica deve essere un «ponte» e non un «fine», un «cantiere» e non una «casa», qualcosa di aperto «agli sviluppi futuri», alimentato da un’esigenza «indecomponibile» (G. Bataille, Teoria della religione, SE, Milano 2020, p. 15).

Lungi dall’erigere una fortezza, dal barricare i propri assunti in un sistema rinforzato e protetto dagli assedi esterni, le speculazioni di Bataille intendono riflettere la poderosa mobilità della ragione all’opera, la sua estrema capacità di lasciarsi contagiare da movimenti e stimolazioni diverse. E sarebbe proprio questa inevitabile incompiutezza, l’ombra che infesta ostinatamente il rovescio scabroso di ogni impresa filosofica, a mantenere viva la domanda fondamentale della storia del pensiero: «come uscire dalla condizione umana?» (ivi, p. 16) Come esperire quella «improbabilità infinita» da cui noi tutti scaturiamo e che la morte fa ripiombare in un gelido silenzio? (G. Bataille, L’esperienza interiore, cit., p. 119) È solo compiendo questa lunga deviazione che, alla fine, la religione può essere riaccolta come la più teorica tra le discipline: il più importante ed efficace degli apparati conoscitivi che fissano i bordi dell’impossibile, cioè di quel sapere che ci indica come, da quei bordi in avanti, il sapere mancherà. Uno dei momenti nevralgici in cui questo sapere viene meno è il polo dell’animalità, che troviamo proprio all’inizio di Teoria della religione. «Niente, –scrive Bataille – ci è maggiormente precluso di questa vita animale da cui proveniamo» (G. Bataille, Teoria della religione, cit., p. 23). L’animale è quell’imperscrutabile “immediatezza” che l’essere umano ha perduto alienandosi nel lavoro e nella subordinazione all’avvenire. Quando l’animale mangia il suo simile, questi non si oppone alla creatura mangiata prevaricandola ontologicamente, imponendo su di essa l’affermazione di una (qualsiasi) differenza. Il suo mondo non conosce servilità, perdita, disaccordo, non inerisce agli oggetti, è estraneo alla durata: è un brodo di corpi «consumati», «distrutti» dal presente, le cui vicissitudini si condensano nella scintilla dell’istante. L’animale non realizza la propria posizione di soggetto in un mondo di “cose”, e per questo la sua esistenza fluisce dolcemente «come l’acqua dentro l’acqua» (ivi, p. 22). L’uomo, al contrario, è un animale contorto, che ha deviato il proprio operato nel governo delle cose, che manipola e lavora il mondo, rifiutando al contempo di riconoscersi egli stesso come una “cosa” tra le altre. Quella tra le due sfere, umana e animale, è pertanto una differenza prima di tutto epistemica, in cui il rapporto con la cosa subentra a turbare la fluida continuità della natura, ostruendo l’incessante ricambio che detta i ritmi vitali della materia organica. Il mondo pre-umano, al contrario, si perde in un’«immanenza senza un chiaro limite», un vortice indistinto, esente da argini o diffrazioni.

 

«La vita non è mai situata in un punto particolare: passa rapidamente da un punto all’altro (o da molteplici punti ad altri punti), come una corrente o una sorta di flusso elettrico. Così, dove vorresti afferrare la tua sostanza atemporale, incontri solo qualcosa che scivola via, solo giochi mal coordinati dei tuoi elementi peribili» (G. Bataille L’esperienza interiore, cit., p. 154).

 

Così come l’animalità ci appare un flusso opaco, anche l’immediatezza di questo mondo ci è preclusa, e possiamo coglierne delle vacue impressioni soltanto attraverso lo strumento poetico, l’unica forma espressiva che ci riallaccia estemporaneamente all’«inconoscibile» (G. Bataille, Teoria della religione, cit., p. 24), che ci fa scivolare per un attimo dal dominio umano e pieno di senso a quello inumano del non-senso. All’infuori di questi strappi, l’universo umano rimane piegato alla trascendenza del lavoro, della conservazione e della sottomissione all’avvenire e, di conseguenza, tutto ciò che vi è assimilato vi partecipa unicamente sotto forma di “oggetto”, di apprensione cosale che rompe la continuità immanente della natura. L’animale, che nella sua inquietante familiarità fa vacillare l’integrità della coscienza, per essere messo a profitto (per divenire cosa) deve essere privato di tale immediatezza, e dunque addomesticato, ingabbiato, o addirittura bollito, grigliato, arrostito – un crudele processo di reificazione che, a oggi, ha assunto dei risvolti ancor più raccapriccianti, se si pensa agli allevamenti intensivi o alle pratiche di vivisezione, che operano su ‘cose’ ancora vive.

L’intero destino dell’umanità si consuma all’interno di una angusta trascendenza, dove l’esperienza è rinchiusa nelle ganasce della diade soggetto-oggetto e in cui l’animale umano è costantemente asserragliato dall’angoscia di diventare egli stesso cosa, e cioè di finire preda dello stesso meccanismo con cui tenta maldestramente di dominare il proprio mondo. Ecco perché Bataille definisce la coscienza «l’intristimento di un sentimento animale» (ivi, p. 34), il resto problematico di un’immanenza originaria perduta e irrecuperabile. Tuttavia, l’esigenza umana di sospendere l’invischiamento con le cose, di reimmergersi nella “dolcezza” dell’istante, è sempre rimasta irriducibile e, nel corso delle epoche, sarebbe stata proprio la religione a dare voce a questa esigenza. Nelle società arcaiche, erano le feste, le guerre e i sacrifici a riaprire il contatto con l’immanenza. Nella festa, ad esempio, la cosa e l’individuo si fondono, l’accumulazione ordinata cede il passo al dispendio suntuario e alla distruzione delle opere, e l’intera comunità si infiamma di un’ebbrezza dionisiaca. Analogamente, la guerra non sarebbe altro che un dispendio parossistico e orientato all’esterno, cioè all’infuori della comunità, attuato attraverso un catastrofico dispiegamento di forza e violenza.

Più di ogni altro, è il sacrificio a porsi come il processo di distruzione elettivo, il rito attraverso cui la “cosa” viene brutalmente strappata dal mondo dell’utilità e recisa dai suoi legami di subordinazione. Nel sacrificio, sia la cosa sacrificata sia il sacrificante sono ricondotti al mondo intimo «della generosità violenta e senza calcolo» (ivi, p. 44). Tuttavia, nota Bataille, benché queste tre pratiche favoriscano il passaggio da un mondo di amministrazione progettuale delle risorse ad uno di “violenza” e “consumo” incondizionati, ciascuna di esse è stata nel tempo ordinata – se non persino limitata – da una sempre più preponderante «saggezza conservatrice» (ivi, p. 50). Lo scatenarsi della festa è circoscritto nei limiti di una realtà di cui essa costituisce la mera negazione, lo sterminio della guerra si è prostrato alla macro-politica dell’impero e alla conquista metodica, mentre il sacrificio è divenuto una pratica tabù affine al crimine, cioè deleteria alla conservazione dell’ordine sociale. Laddove l’uomo arcaico veniva ricondotto al mondo sensibile dalla violenza dei riti, l’uomo «della riflessione» (quello della morale, del diritto e dell’universalizzazione della cosa) si ricollega a esso soltanto attraverso reminiscenze spettrali: «le cose sono separate profondamente da lui e gli esseri sono mantenuti nella loro individualità incomunicabile» (ivi, p. 70). La religione stessa non sarebbe diventata altro che un apparato di culto della durata, e le sue degenerazioni laiche (il diritto, la morale, il Bene) dei dogmi al di fuori del tempo che mirano ad escludere la violenza attraverso forme di violenza più subdole e razionali. In linea con le tesi di Joel Wainwright e Geoff Mann, il nuovo Leviatano non si fonda sul terrore, ma sul contratto sociale, è un «anti-mostro macchinico» che preme avidamente verso la «sovranità planetaria» (J. Wainwright, G. Mann, Climate Leviathan, Verso, London 2020, pp. 4, 15).

Eppure, aggiunge sorprendentemente Bataille, questa progressiva alienazione nel dominio della “cosalità” non deve essere intesa come una desolante e inesorabile profezia di rassegnazione. Oggi come non mai infatti (e questo discorso è forse persino più valido per il nostro secolo), «il mondo della produzione [ha] raggiunto il punto di sviluppo in cui non sa più che fare dei suoi prodotti» (G. Bataille, Teoria della religione, cit., p. 92). Il consumismo capitalistico, basato sull’accumulazione nevrotica di beni inutili e sulla farsa delle cosiddette «economie della salvezza» (l’autoregolazione del Mercato, la stabilità intrinseca del Capitale) (G. Bataille, Il problema dello Stato e altri scritti politici, Marrani, Gussago 2013, p. 92), è arrivato ad un picco di ebollizione tale che, oggi, il dispendio riemerge come un processo “necessari[o]” (G. Bataille, Teoria della religione, cit., p. 92). In un pianeta in cui tutto è stato creato, conosciuto, valorizzato, in cui il frastuono della produzione ha surclassato qualsiasi altra voce politica, si tratta «di determinare [a quale] punto la produzione eccedente scorrerà come un fiume all’esterno» (ivi, p. 94): l’esatto momento in cui il sistema capitalistico degenererà in un tritacarne (ancor più) sordo alla vita umana, animale e vegetale. Sarà il giorno in cui la tregua dell’istante ci sarà preclusa inesorabilmente. Come nota Bataille, il collasso è inevitabile, inscritto nelle dinamiche stesse della corsa alla sovrapproduzione. Ma, al riguardo, l’essere umano ha ancora la facoltà di scegliere: lasciare che questa distruzione avvenga all’infuori di lui, in un’atrocità che potrebbe spazzare via anche «il soggetto come individuo», oppure riconcepire la fatale «differenza tra l’oggetto e [s]e stesso», pensando un’ecologia del dispendio (e non dello spreco) in cui «gli oggetti effettivamente distrutti non distruggeranno gli uomini stessi» (ivi, p. 94).