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Diritto al piacere. La rivoluzione si fa godendo… o non si fa

Intervista a Slavina: possibilità dei corpi, potenza collettiva, linguaggi erotici, post-porno, femminismi..

Verso il laboratorio “Parole che dice il corpo” (Roma – Esc Atelier – 25 e 26 Maggio / Bologna – Barrinque – 27 e 28 Maggio).

Quello che ne è scaturito è un’interessante e irriverente conversazione, un approfondimento, un modo utile per toccare (in senso figurato ma anche no) queste tematiche.

Attraverso questo contributo vogliamo anche rivolgere tutta la nostra complicità e solidarietà al Sommovimento NazioAnale, alla Resistente Atlantide e a tutta la favolosità che ha attraversato le strade di Bologna lo scorso sabato; per ricordare a sindaci, commissari, preti e politicanti vari che #veniamovunque.

Innanzitutto la domanda di tutte le domande: COSA PUO’ UN CORPO?

Un corpo può esprimersi e raccontarsi ma può anche rimanere imbrigliato nella forzatura della costruzione/costrizione sociale che lo vuole definire e confinare.

Credo che nella prima domanda ci sia la vera essenza della proposta del postporno. Nella puntualizzazione a seguire invece ritrovo un meccanismo che mi risulta, da militante, abbastanza familiare: la tendenza a definirsi a partire da una negazione.

Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” diceva Montale – e se penso alla maggior parte dei movimenti a cui ho preso parte, da più di 15 anni a questa parte, il NO-qualcosa è una ricorrenza linguistica inquietante.

Forse per questo ho trovato immediatamente affascinante il discorso postpornografico: perché era evidentemente in opposizione a una normativitá oppressiva ma era impossibile confinarlo ad un NO. Il postporno non si definisce tanto come resistenza all’oppressione, ma come contraproduzione (Preciado, 2008).

E la sua rivendicazione politica dirimente è quella del diritto al piacere.

L’istanza postpornografica si dispiega proprio a partire dal piacere, ovvero quello che può un corpo a parte produrre, consumare e crepare. Possiamo riconoscere come forma di produzione e consumo sia la sessualità eteronormata stile Family Day che quella ossessivo – compulsiva che confonde lo scambio con lo sfruttamento.

Il corpo postpornografico è un corpo capace di ribellarsi alla meccanica dell’erotismo imposta dalla morale, dalle mode e dalla tradizione: è un corpo che è pronto al sabotaggio, che è già sabbia negli ingranaggi del sistema.

Le forme di riappropriazione dall’esilio del corpo e dalla sottrazione del piacere su cui si basa la dinamica dell’oppressione capitalista sono, fortunatamente, molteplici e potenzialmente infinite (forse per questo ad un occhio troppo critico la proposta postpornografica può sembrare minoritaria e limitata – ma è perché c’è spazio per molte altre visioni ancora).

[Mi sexualidad es una creación artistica, documentario sulla scena postporno di Barcelona]

In vista del laboratorio rielaboriamo la domanda che ci poneva Deleuze, e ci chiediamo COSA POSSONO I CORPI? E dunque, così come scrivi nel testo di lancio .. “come trasformare una stanza tutta per sé in una stanza PER NOI”.

L’insorgenza erotica è intrinsecamente collettiva. L’erotismo è dialogo, è connessione, è scambio. E se ogni corpo deve cercare la sua strada singolare e unica verso la liberazione dalle costrizioni identitarie è l’unione fluida e mutevole con gli altri corpi che genera potenza.

Rispetto alla mia esperienza personale prima di concentrarmi sulle forme di valorizzazione politica dell’intimità penso di aver comunque sempre cercato un modo di costruire comunità che passasse per il corpo. Dell’esperienza nel movimento dei centri sociali mi rimane l’impressione che l’energia erotica venisse poi comunque sempre ricondotta a forme di sistematizzazione e inquadramento per così dire rassicuranti: la coppia come modello base di relazione privilegiata e il fallo-logo-centrismo dell’assemblea come standard comunicativo (il tutto con le dovute eccezioni e tentativi di superamento – che però rimanevano tentativi).

L’esperienza in cui invece posso dire di aver sperimentato profondamente la potenza dell’amore diffuso (e che metteva fortemente in discussione strutture, gerarchie e assetti emotivi – pur non essendo esente da contraddizioni) è stata quella dei free parties, le feste illegali che sembravano far diventare reale l’idea delle TAZ (zone temporaneamente autonome) di Hakim Bey. Grazie ad un lavoro di cura e creazione completamente al di fuori di ogni logica produttivista, gloriosamente effimero, nell’ambito della festa era impossibile (anche grazie ad un uso più o meno consapevole di sostanze empatizzanti) non sentire la collettività come corpo denso e molteplice che riconosceva il desiderio come orizzonte conoscitivo.

L’empatia e l’estasi sono due categorie che ricorrono nei laboratori che faccio: empatia come indispensabile terreno di incontro ed estasi perché nelle pratiche si arriva a sperimentare degli stati di alterazione di coscienza – a partire dal superamento collettivo e consensuato di certi freni inibitori si entra in una dimensione un po’ magica.

Con la giusta dose di realismo e understatement devo anche ammettere che sono esperienze effimere: aprono varchi e suggeriscono nuove modalità di conoscenza e creazione, ma per farle diventare esperienze fondanti bisogna poi lavorarci e avere il coraggio di inserirle nel quotidiano … di mettere in discussione quelle strutture rassicuranti che riproducono forme di relazione chiuse, opprimenti e spesso anche ipocrite.

In più, quale rapporto tra corpi ed espressività degli stessi veicolata a partire dal linguaggio erotico?

La comunicazione intima è uno dei terreni di intervento che ritengo più stimolanti, forse perché così sottovalutato. Persone anche molto evolute sono convinte che l’incontro tra i corpi possa prescindere dalle parole, quando anche quella è una forma di dialogo in cui vanno negoziati lessico e significati. Sto studiando per diventare esperta in educazione sessuale e mi rendo conto di quanta ignoranza ci sia anche solo in termini di consapevolezza linguistica: se della mano conosciamo perfettamente la nomenclatura (financo la distinzione falange, falangina e falangetta) molte persone chiamano vagina la vulva, confondono il glande col prepuzio e non sanno dov’è il perineo. A partire da questa incompetenza originaria proliferano la maleducazione pornografica (per cui esiste una sorta di format fisso di amplesso e i partner non hanno bisogno di dirsi nulla durante l’atto sessuale) e una sorta di misticismo romantico secondo cui nella magia del momento tutto funziona in automatico. E ovviamente questa costruzione secondo cui il desiderio è muto (ma soprattutto sordo) produce fraintendimenti e frustrazioni. Nell’ambito dell’intimità non solo è legittimo ma necessario prendere la parola, per dire quello che ti piace e quello che vorresti prima di dover dire No o Mi hai fatto male. Purtroppo è più legittimata socialmente una dose di frustrazione che l’onestà di una richiesta (specialmente quando magari non collima con le pratiche sessualmente conformi). Abbiamo bisogno non solo delle parole ma di costruire il contesto che possa accoglierle.

Ti chiederemo poi di raccontarci la tua esperienza relativa alla produzione post-porno. Il post-porno… questo sconosciuto (dove vi siete incontrati e conosciuti).

Ho conosciuto il lavoro di Annie Sprinkle nei tardi anni ’90 in un libro di interviste che si chiamava in italiano Meduse Cyborg ed era edito dalla Shake ma il postporno l’ho visto in azione nella Barcelona del 2005. È passata poco più di una decade ma le cose sono cambiate molto in questi 10 anni, tanto da farmi ripensare al tempo in cui arrivai da emigrante nella città catalana come a un periodo quasi mitologico, prima della cosiddetta legge sul civismo e della stretta repressiva che avrebbe sgomberato e a volte raso al suolo la maggioranza delle occupazioni e dei luoghi di produzione culturale alternativi.

Il postporno come movimento si è potuto sviluppare in un contesto in cui c’era uno scambio abbastanza virtuoso tra l’universo underground e la produzione culturale ufficiale, dove le aperture riguardavano tanto il mainstream quanto l’ambito accademico. Da quel momento iniziale di sperimentazione mi sembra che le alleanze più proficue si siano sviluppate con tre ambiti di riferimento privilegiati: i corpi diversi (e diversamente abili), le biotecnologie (la loro riappropriazione dal basso) e la decolonizzazione (molta della produzione postpornografica attuale più interessante viene dal Sudamerica o da soggettività migranti).

La mia esperienza di produzione è legata soprattutto ai laboratori che faccio e di quel tipo di esperienza mi interessa più il processo che il prodotto. Per esempio un patto esplicito che faccio con le persone che prendono parte ai laboratori fotografici è che le foto rimangono di loro proprietà.

Non ho mai avuto una mentalità per così dire imprenditoriale, preferisco fare le cose piuttosto che promuoverle: l’unico cortometraggio di cui sono autrice è andato in giro per i festival per conto suo, grazie al passaparola dei e delle curatrici che mi scrivevano per dirmi “abbiamo saputo che Dildotettonica per principianti è un bel corto, non è che per favore ce lo manderesti?”. Roba che qualsiasi videomaker “serio” mi prenderebbe a schiaffoni.

L’esperienza con Le ragazze del porno l’ho iniziata anche per uscire da questa deriva dispersiva e la collaborazione con Lidia Ravviso è stata fondamentale in questo senso (anche se non credo che Insight sia un prodotto postpornografico: è piuttosto un hardcore art film, secondo la definizione di Linda Williams).

Link

Corpi diversi – pornortopedia

Yes we fuck

Biotech – gyne punk

Postporno latino – revista hysteria

Decolonizzazione – connessioni decoloniali, festival organizzato dalle Idea destroying Muros

Keurgumak

E invece quale rapporto con i femminismi ed il “movimento LGBTQ”.

Mi riconosco nel transfemminismo come esperienza radicale che moltiplica le alleanze e supera con una sculettata l’essenzialismo sesso/genere e mi ritengo fortunata ad aver navigato in quel brodo di coltura eccezionale della Barcellona degli ultimi anni, una rete di connessioni proficue tra lotte trans e intersex, lavoro sessuale politicizzato, maternità insorgenti e frocialismo non asservito al potere. È stata un po’ la trasposizione nella realtà di tanti contenuti e tante battaglie che un manipolo di coraggiose che si chiamava Sexyshock proponeva ad un’Italia scandalizzata (anche quella militante) all’inizio del secolo. L’Italia purtroppo continua a scandalizzarsi… e una fetta consistente di quelli che pur si nominano femminismi e del movimento LGBTQ rincorrono il decoro e l’accettazione sociale puntando al ribasso e ad un’idea di normalità che trovo aberrante. Ovviamente non potrei essere più lontana da quelle esperienze.

Nel mio percorso attivista la teoria queer e le pratiche ad essa collegate sono state un elemento fondamentale e il fatto che siano diventate patrimonio di alcune avanguardie politiche italiane alle quali mi sento affine mi sembra un gran passo avanti verso la costruzione di una vera alternativa politica e sociale.

Credo nelle micropolitiche e nelle esperienze comunitarie di base, nelle pratiche contro-egemoniche che mettono in discussione le gerarchie attraverso la trasparenza dei processi decisionali.

L’unico femminismo possibile, per quanto mi riguarda, è intersezionale e parla dai margini. Se – come si sente spesso dire nelle piazze ultimamente, dal #15M alla #NuitDebout – siamo la maggioranza, il 99% o milioni, è perché vogliamo esser capaci di ricomporre le esigenze di tante minoranze oppresse.

Il femminismo in cui mi riconosco ha più timore di essere confuso con certe istanze della borghesia bianca che del prefisso trans…

In chiusura una questione fondamentale, articolata anche a partire dalla favolosa giornata di Sabato a Bologna #veniamovunuqe.

Di quali strumenti di difesa e di che armi possiamo collettivamente dotarci per rispondere ai continui attacchi ai corpi che ci vengono rivolti dalle politiche neo-liberali e dalla Gender Crociata?

Coltivare l’esercizio della critica mi sembra un ottimo punto di partenza per non essere inghiottite e digerite dal sistema. Partire da sé ed essere spietate nell’analisi: in cosa siamo compatibili con le forme di normatività sessista del turbocapitalismo? Lo siamo strategicamente, per una questione di sopravvivenza, o abbiamo finito per crederci? Quali sono i nostri punti di forza nel praticare e rendere visibile la nostra non aderenza a certe regole, la nostra non complicità?

È poi necessario un livello collettivo di risposta: abbiamo bisogno di comunità sessoaffettive di supporto e sostegno sia per resistere all’urto (la ribellione ha un suo dispendio emotivo) ma anche per costruire quelle nuove forme di rete e di mutualismo che sostituiranno le vecchie strutture patriarcali.

Questo finesettimana a Bologna si è incontrato, in un gioioso momento creativo e rivendicativo, il Sommovimento NazioAnale, che è un coordinamento che unisce a livello italiano varie collettività che lavorano alla costruzione di nuovi immaginari e nuove forme di lotta. Per trovare ispirazioni (e cospirazioni) vi rimando al loro bellissimo blog e alla variopinta rete di resistenze – tutte legate a una valorizzazione del concetto di cura, a mio modo di vedere – che va dalle Consultorie autogestite, agli Sportelli antiviolenza alle Cucine popolari.

Dichiarazione Sommovimento

Mappa che pillola