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MONDO

«Una delle più grandi ribellioni della storia degli Stati Uniti»

Una cronologia delle mobilitazioni e proteste negli Stati Uniti, che mette in luce la loro eccezionale estensione geografica, il carattere multirazziale e l’assuzione di pratiche di azione diretta, dalle grandi città alle periferie e alle campagne

Cosa sta succedendo negli Stati Uniti in questo momento?

Non c’è prospettiva dall’alto, nemmeno quella dell’ormai onnipresente elicottero della polizia, che ci consentirebbe di esaminare le reali dimensioni della mobilitazione in atto. Le proteste si sono estese in tutti i 50 stati. Siamo entusiasti di vedere la diffusione del movimento a livello globale, in Messico, Canada, Inghilterra, Francia, Italia e non solo. La portata è davvero sbalorditiva.

Ci sono elementi comuni tra le proteste che abbiamo osservato in molte grandi città e quelle nelle località più piccole, di cui ci parlano i compagni. Ci saranno certamente prove ed esperienze che potrebbero essere usate per smentire le nostre valutazioni e siamo disposti ad accettarle. Questa, tuttavia, è la nostra lettura della congiuntura in evoluzione. Si svolge in due fasi.

Prima fase. La ribellione ha avuto inizio a Minneapolis, una città del Midwest di medie dimensioni, nota sia per le pratiche razziste della polizia che per il suo progressismo liberale. La città ha una popolazione di circa tre milioni e mezzo di persone (è la sedicesima più grande del paese). Pochi giorni dopo che il video dell’omicidio di George Floyd è diventato virale abbiamo assistito a una delle più grandi ribellioni urbane guidate da persone di colore nella storia degli Stati Uniti.

 

 La più grande mobilitazione in passato è stata quella dell’estate del 1967, quando 164 città furono date alle fiamme, cui se ne aggiunsero altre 100 nel corso del 1968.

 

La protesta attuale ha superato quella del 1967-68 in termini di distribuzione geografica e numero di partecipanti nel giro di una settimana e mezzo. In tutto il paese migliaia di persone marciano nelle periferie segregate, quelle interessate dalla “fuga dei bianchi”.

Proteste e saccheggi stanno avvenendo anche in minuscole città industriali e postindustriali. A Fairfield, in California, sede dell’azienda Jelly Belly, tanto amata da Ronald Reagan, che dista ore dalle grandi città, alcuni bambini hanno fatto schiantare un carrello elevatore contro un negozio di elettronica.

Dopo la prima notte di rivolta a Minneapolis, quando la polizia ha utilizzato i gas lacrimogeni per disperdere la folla, sono iniziati in tutta la città saccheggi e incendi dolosi, e la mobilitazione si è estesa a città in altri stati fra cui Columbus, Los Angeles, Louisville e Memphis. Tuttavia, la scintilla che ha determinato il salto di scala globale del movimento è stato l’incendio di un commissariato, avvenuto giovedì 28 maggio – un evento senza precedenti negli Stati Uniti, qualcosa che non accadeva da almeno un secolo, che non si era visto neanche durante le rivolte più importanti. Nei giorni successivi la protesta è esplosa in maniera massiccia. La cosa forse più emozionante da vedere è stata la militanza delle folle multirazziali che hanno respinto la polizia. Il che supera di gran lunga ciò che è accaduto durante le rivolte di Baltimora, Ferguson o Oakland. Da notare anche come le proteste siano cambiate in risposta alle tattiche brutali della polizia. Sarebbe più corretto dire che ciò a cui stiamo assistendo è una rivolta sociale accompagnata da una sommossa su larga scala contro la polizia.

 

 

 

La prima fase è stata caratterizzata da un’esplosione in gran parte spontanea della rabbia sociale, che si è espressa in rivolte, saccheggi di negozi, resistenza contro la polizia e azioni di “contro-logistica” oltre a innumerevoli marce e raduni. Questa sequenza è andata avanti per quasi una settimana, in modo disomogeneo, in varie parti del paese. Poi ha lasciato il posto a qualcos’altro, ugualmente impressionante, di contenuto emancipatorio e su una scala senza precedenti, ma operando su un terreno più familiare di “movimento”.

Mentre in una città dopo l’altra le proteste hanno respinto la polizia, i media e l’establishment democratico hanno iniziato a esagerare la storia degli “agitatori esterni”. Si sosteneva cioè che le accese proteste iniziali fossero guidate da bianchi, provocatori alla ricerca del brivido e “turisti della protesta”, piuttosto che essere la giusta espressione di rabbia da parte di “comunità” sfinite dall’ingiustizia di omicidi commessi dalla polizia. Questa instancabile campagna mediatica, insieme all’intervento di alcuni politici e di alcune Ong, è riuscita a indurre in alcune persone il timore di uno scontro troppo accesso con la polizia.

Allo stesso tempo, le proteste hanno continuato a crescere, mobilitando centinaia di migliaia se non milioni di persone, tra cui molti decisamente non abituati al tipo di attività turbolenta alla quale abbiamo assistito all’inizio e la cui idea di protesta deriva in gran parte dalla versione ripulita e approvata dallo stato del Movimento per i Diritti Civili, descritto nelle scuole come una serie di cortei pacifici.

 

Nel frattempo, per alcuni fra gli attivisti più impegnati il confronto con la violenza combinata della polizia locale, dei militari e delle bande di vigilanti bianchi sostenute dallo stato ha cominciato ad apparire più pericoloso di prima.

 

Se all’inizio il movimento aveva colto di sorpresa l’establishment, quando le città, gli stati e persino il governo federale hanno dispiegato tutte le truppe di cui disponevano, si è palesata la possibilità che la strada verso la vittoria sarebbe dovuta passare per altri terreni.

Si è inaugurata così una seconda fase della mobilitazione, caratterizzata da violenza e saccheggi meno frequenti, ma ancheda un costante aumento – almeno finora – della folla scesa in strada. Assistiamo ancora alla compresenza di una varietà di tattiche all’interno di una stessa manifestazione: canti e marce alla testa del corteo, blocchi autostradali formati da spezzoni che si staccano, scontri tra militanti e polizia nelle retrovie. I politici e le organizzazioni non-profit hanno riguadagnato un po’ della loro influenza e circolano vaghe richieste di un “cambiamento legislativo”. Stanno persino emergendo alcuni “leader”.

Allo stesso tempo, le rivendicazioni del movimento aumentano. La lotta, inizialmente focalizzata sul potere della polizia, sta introducendo altre tematiche di ingiustizia razziale. Scuole e luoghi di lavoro cominciano a interrogare, con vari livelli di serietà e cinismo, il proprio rimosso razzista. Nei circoli professionali, la questione della rappresentanza è fondamentale. I sindacati dei lavoratori dei trasporti si stanno progressivamente rifiutando di lavorare con la polizia. C’è un nuovo vento nelle vele di un movimento di vecchia data che si batte per spezzare la filiera scuola-prigione, con i sindacati militanti degli insegnanti e altri che cercano di cacciare i poliziotti dalle scuole.

 

In che misura vengono pianificate o coordinate le proteste?

In termini di coordinamento e organizzazione delle varie azioni, molte delle manifestazioni quotidiane sono chiaramente pianificate con un evento Facebook o un annuncio su Instagram, vengono comunicate usando le reti organizzative sociali e di movimento che già esistono e con cartelli issati sui palazzi. Anche il saccheggio è stato pianificato in quanto concentrato in specifiche aree commerciali di lusso.

É anche vero che ci sono state manifestazioni quotidiane spontanee al Barclays Center di Brooklyn, per esempio. A New York, manifestazioni separate si incontrano e decidono di unirsi spontaneamente. A Seattle, i manifestanti hanno occupato diversi isolati e un parco nel quartiere di Capitol Hill per quasi due settimane, affrontando una falange di polizia e i soldati della Guardia Nazionale che proteggono il distretto.

 

Nonostante i brutali attacchi notturni con gas lacrimogeni e spray al peperoncino da parte delle forze dell’ordine – contro i quali i manifestanti hanno impiegato tattiche, strumenti e simboli presi in prestito dagli attivisti di Hong Kong, come gli onnipresenti ombrelli – la polizia di Seattle ha finito con l’abbandonare il distretto di Capitol Hill e un pezzo del quartiere è stato dichiarato “zona autonoma”.

 

Alcune delle attività diurne sono programmate da attivisti o gruppi più “professionali”, mentre la copertura notturna ha consentito più attività extra-legali. Spesso queste azioni diurne, dichiarandosi esplicitamente “pacifiche”, mobilitano una folla più anziana e talvolta più bianca rispetto alle più militanti incursioni notturne, con folle più giovani che rimangono per strada anche dopo che gli eventi della giornata sono ufficialmente terminati.

Se i coprifuoco hanno ridotto in qualche modo le mobilitazioni notturne, le manifestazioni programmate di giorno sono ancora molte e alcune sfidano apertamente il coprifuoco opponendo un rifiuto collettivo. La semplice proliferazione di eventi ha fatto sì che, oltre al loro inevitabile accavallarsi (cosa che avviene di frequente, almeno nei centri urbani), c’è spesso meno conflitto interno in questi eventi: le persone che partecipano a una giornata “pacifica” possono anche non imbattersi in militanti e in azioni dirette come era più facile che accadesse con le mobilitazioni del 2014-15.

 

 

 

 

Dove si trovano le proteste? In che modo sono diverse a seconda del luogo?

Un’importante caratteristica di questo ciclo è la sua diffusione geografica. Di sicuro, le proteste che hanno catturato più aggressivamente l’attenzione delle prime pagine sono scoppiate in città più grandi come New York, Washington D.C., Philadelphia, Los Angeles, Denver, Seattle e Chicago. Queste esplosioni sono più grandi, più conflittuali e in qualche modo più dinamiche, sono ottimo materiale per le telecamere dei notiziari. Su CNN o Fox News è probabile che siano queste le proteste che si vedono.

Ma le proteste si sono estese ben oltre le solite aree urbane calde per raggiungere ogni singolo stato. Per fare un confronto, ci sono state molte più proteste di quelle che abbiamo visto durante la Marcia delle Donne su Washington D.C. nel gennaio 2017, quando, secondo le stime, 4,2 milioni di persone sono scese in strada in oltre 400 città. Le proteste di oggi si stanno svolgendo in città all’interno di stati periferici, fra cui Boise, Idaho, Portland, Maine, Sioux Falls e South Dakota. Ci sono state proteste anche nelle piccole città, nelle periferie e persino nelle campagne.

La maggior parte delle proteste al di fuori delle città sono state generalmente più contenute, ma anche le strade principali delle periferie e delle piccole città hanno avuto la loro parte di saccheggi.

 

Considerando la storia della periferizzazione americana, indispensabile per la strategia dei capitalisti e dei dirigenti statali che mira a scomporre il blocco della classe operaia del New Deal e ricavare solide circoscrizioni elettorali di bianchi conservatori, l’esplosione di migliaia di forti proteste in regioni come quelle di Nassau e Orange è notevole.

 

In queste località non tutte le persone protestano partecipando a manifestazioni di massa, tuttavia esprimono il loro sostegno in modi diversi. A molti di noi che hanno perlustrato le periferie è capitato di vedere uno o due cartelli lasciati davanti all’ingresso di un quartiere poco battuto; un paio di adolescenti sorridenti che sventolano cartelli BLM sulla via principale di una piccola città e alcuni vicini che parlano di razzismo durante la loro passeggiata mattutina.

Questa diffusione è davvero notevole ed è indicativa di un livello molto più alto di consenso popolare per questo tipo di mobilitazione rispetto al passato, con una maggioranza di americani che sostengono le manifestazioni. Tuttavia, dobbiamo stare attenti a non pensare che queste esperienze siano tutte uguali. Le città non sono le periferie e le periferie stesse sono molto diverse una dall’altra.

 

Quello che sta accadendo è una specie di soggettivazione disomogenea. In alcune delle grandi città, decine di migliaia di persone assaporanola lotta collettiva, fanno esperienza dell’energia inebriante dell’unità, imparando a correre rischi o a improvvisare tattiche d’insieme. Toccano con mano il potere che hanno. È un processo unico che cambierà le loro vite per sempre.

 

In una certa misura questo accade anche altrove, comprese alcune periferie, ma la situazione è molto diversa. Alzare un cartello con un amico a un incrocio, in una città a maggioranza conservatrice è certamente una forma d’azione, tuttavia non costituisce il terreno per il tipo di soggettivazione che ha luogo quando si aggira uno schieramento di poliziotti per sfondare un le vetrine di negozio di lusso insieme a degli sconosciuti incontrati mezz’ora prima che sono ora a tutti gli effetti dei compagni.

Se nelle città i passanti non possono fare a meno di essere trascinati nel caos, di essere investiti dai gas lacrimogeni, dal fumo degli incendi o dall’esuberanza dei manifestanti che corrono lungo la strada, in periferia è possibile andare in giro senza mai venire a conoscenza delle rivolte che ci sono state nel resto del paese.

E anche se guardando la televisione si viene a sapere delle mobilitazioni, il quadro tratteggiato è fortemente mediato. É probabile che le immagini trasmesse non siano di rivolte che hanno luogo nella città vicina, ma nelle grandi città lontane. La copertura mediatica è sensazionalistica: infiniti scatti di una singola auto in fiamme. Inoltre la narrazione è incredibilmente distorta, le notizie parlano di agitatori esterni, saccheggi insensati e così via.

Naturalmente, anche questo può portare a una sorta di cambiamento nel processo di soggettivazione. I video delle violenze della polizia che diventano virali sui social media o le immagini che ritraggono migliaia di persone che prendono posizione potrebbero cambiare la visione del mondo, ispirandoci ad agire. Tuttavia, anche questa è una modalità molto diversa dal ritrovarsi gettati in una folla di manifestanti che rischiano la vita per cambiare il mondo.

Bisogna poi considerare il fatto che questi stessi eventi stanno influenzando altri migliaia di americani in senso contrario. Ci sono molti racconti di periferie prevalentemente bianche, a pochi chilometri dalle grandi città, in cui i residenti pensano che l’omicidio di George Floyd sia giustificato e che invocano Trump come loro salvatore per difenderli dalle orde di saccheggiatori neri e latini che vengono a bruciare le loro case.

 

Molti non hanno idea del fatto che le città sono state trasformate in stati di polizia pieni di gas lacrimogeni, carri armati, coprifuoco e con le carceri piene all’inverosimile. E se lo sanno, approvano.

 

Questi disordini hanno certamente politicizzato queste persone, ma rendendoli ancora più desiderosi di votare per Donald Trump a novembre o di prendere un fucile d’assalto per fermare i manifestanti. Dal suo trespolo alla Casa Bianca, Trump si è fatto forte di queste posizioni e ha minacciato di dichiarare gli antifascisti organizzazione terroristica interna. Andando sul sito per la sua rielezione, appare il seguente popup: «Unisciti al presidente Trump contro Antifa!». Lasciamo agli opinionisti il compito di spiegare con un sillogismo perché questo la dice lunga su Trump.

 

 

 

In altre parole, questa ondata di lotta ha politicizzato milioni di americani, ma lo ha fatto in modi molto diversi. Uno dei compiti che ci attende sarà quello di articolare questa potenziale di soggettivazione disomogenea. La rivoluzione non può essere un fenomeno puramente urbano e c’è sempre il rischio che le lotte avanzate dalle città si trovino a essere attaccate dalle periferie e dalle campagne circostanti. E in effetti, al momento questa sembra essere la strategia di Trump. Ma, per fortuna, questa ondata ha dimostrato che ci sono in realtà vere e proprie scintille di vita politica radicale al di fuori dei centri urbani.

L’ondata di scioperi che si è mobilitata in tutti gli stati tipicamente conservatori nel 2018 ne è stata un’espressione critica, come lo sono nuovamente queste proteste. La mappa politica non vede solo alcuni punti di blu democratico nelle città circondate da un mare senza speranza di rosso repubblicano. C’è una concreta possibilità di portare l’intero paese a una tonalità più scura di cremisi.

 

In che modo il carattere di questo movimento si differenzia dal precedente ciclo del 2014-15, in termini di dialogo, partecipazione multirazziale e istanze riformatrici?

Come per Ferguson nel 2014 – che continuò ad accendere una serie di lotte, in particolare le rivolte di Baltimora del 2015 – questa nuova lotta è nata da una ribellione spontanea sotto forma di saccheggi, vandalismo e di confronto diretto con la polizia. È importante sottolineare questo punto in contrapposizione alla narrativa dominante “dell’agitatore esterno”, che spesso implica che gli agitatori esterni siano bianchi. Infatti, senza le rivolte di Ferguson non ci sarebbe stato un movimento Black LivesMatter. E oggi, senza le rivolte a Minneapolis, non avremmo una ribellione sociale senza precedenti in tutto il paese. Esistono anche correnti organizzative preesistenti che devono essere prese in considerazione al fine di comprendere l’intera portata della rivolta.

Per molti attivisti nelle città gemelle di Minneapolis, la città più grande, e di St. Paul, la capitale più piccola, il Convegno Nazionale Repubblicano del 2008 è stato un evento chiave. Ha scatenato grandi proteste, l’infiltrazione dell’Fbi nei gruppi di attivisti e arresti di massa tra i manifestanti. Ma le città gemelle hanno anche ospitato lotte antirazziste contro la brutalità della polizia, in particolare dopo gli omicidi da parte della polizia di Jamar Clark nel 2015 e PhilandoCastile nel 2016. Queste lotte tuttavia non sono state puramente spontanee,si sono sviluppate in parte grazie a una fitta rete di organizzazioni di lavoratori immigrati e gruppi di sinistra radicale delle città. Vale anche la pena notare che l’agitatrice proveniente dalle file dei socialisti democraticiIlhan Omar è stata eletta alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti nel distretto che comprende Minneapolis.

 

Una differenza sostanziale rispetto al 2014-15, tuttavia, sta nella rapidità con cui la lotta ha dilagato al di fuori di Minneapolis, diffondendosi a macchia d’olio in tutto il paese. Molte delle odierne manifestazioni hanno un carattere chiaramente multirazziale, sia la militanza che l’ostilità dichiarata nei confronti della polizia appaiono significativamente più diffuse rispetto al 2014-15.

 

Come in quella rivolta, le persone di colore tendono ad assumere ruoli di leadership sia formali che informali; nelle azioni più militanti questa dinamica ha determinato un rapporto di collaborazione abbastanza efficace, anche se talvolta conflittuale; in altri contesti sono prevalse, ancora una volta, le narrative di smobilitazione e distanziamento “dall’alleanza” [Allyship, una forma particolare di alleanza fra settori con diverso grado di privilegio, ndt], con una netta distinzione tra organizzatori o partecipanti neri e “sostenitori” bianchi o non-neri. In generale, tuttavia, la lotta contro la supremazia bianca viene considerata sempre più come una questione che va oltre i comportamenti interpersonali, che richiede una battaglia ardua contro le sue basi istituzionali, in particolare la polizia e le prigioni.

Inoltre, è importante notare che dal punto di vista della composizione la maggior parte delle proteste sono partecipate da personemolto giovani. In parte, ciò è naturalmente dovuto ai maggiori rischi che corrono le persone anziane nel radunarsi in un luogo pubblico con una pandemia in corso. Molti manifestanti sono studenti delle scuole superiori o comunque ventenni: questi attivisti appartengono per la maggior parte a una generazione che è cresciuta sotto il governoObama, una generazione che non si è fatta illusioni, a differenza di quegli attivisti ormai trentenni e quarantenni, che erano grandi abbastanza per votare Obama nel 2008 e che hanno poi attraversato una fase di delusione e scoraggiamento. Questa giovane generazione è molto meno propensa a credere che i cambiamenti superficiali introdotti dalla polizia – telecamere indossabili, corsi di formazione sui pregiudizi, ecc. – in voga nel 2014-15, possano portare a qualcosa di buono. Sono stati testimoni diretti di come le richieste di riforma della polizia negli ultimi anni hanno effettivamente favorito la crescita della polizia, sia in termini di bilancio che di potere.

 

 

Qual è il ruolo della politica abolizionista in questo movimento?

Il ritorno al movimento dei “leader della comunità”, dei liberali e delle figure dell’establishment nero è stato piuttosto tardivo, è avvenuto dopo giorni di rabbia e frustrazione popolare. Il terreno variegato della lotta è ora caratterizzato da contese e polemiche che riguardano le rivendicazioni.“Campaign Zero” e “EightCan’tWait”, capeggiate dai leader forse più opportunistici dell’ultimo ciclo di lotte, ha cercato mettersi in vista alleandosi con parti importanti del Partito Democratico e dell’establishment delle multinazionali per chiedere una serie di “riforme di polizia” che a detta loro ridurranno le morti causate dalla polizia del 72%. Ma nella maggior parte delle grandi città, luoghi in cui queste rivolte hanno avuto un’enorme importanza, la stragrande maggioranza di queste riforme è già in atto da decenni. Non hanno ridotto i tassi di morte legati agli apparati repressivi e neanche il loro potere.

Una posizione alternativa che sta acquistando sempre più consenso nel movimento e persino tra le forze moderate e progressiste del governochiede che vengano tagliati i fondi allapoliziae,in alcuni casi, che le forze di polizia siano disarmate e smantellate. Con il recente annuncio del Consiglio comunale di Minneapolis circa l’intento di “smantellare” il dipartimento di polizia e di altre città come Los Angeles, che dichiara di voler negare fondi alla polizia (una proposta modesta ma che ha avuto molta risonanza), questa richiesta sembra essere diventatasorprendentemente popolare. Sebbene si tratti di cambiamenti che destano entusiasmo, la relazione tra la richiesta di tagliare i fondi e il più ampio progetto di abolirela polizia e le prigioni è ancora una questione aperta.

 

In modo cruciale, questo insieme di lotte ha messo in luce come una politica abolizionista può sfidare uno dei pilastri fondamentali della supremazia bianca e dello stato capitalista: l’apparato repressivo della polizia e il sistema di giustizia penale, su cui si sono incentrate una serie di strategie d’élite nell’ultimo mezzo secolo.

 

Le lotte hanno anche indicato un insieme positivo di pratiche sociali, che aiutano a dare corpo a un nuovo tipo di potere politico fondato sull’autorganizzazione di massa. Come è ripetutamente accaduto nella storia della lotta di classe insurrezionale negli Stati Uniti, le rivolte popolari hanno portato a radicali esperimenti politici la cui forma finale è ancora da stabilire.

L’aiuto reciproco e organizzato è sorto nei luoghi di protesta in tutto il paese. In posti come Seattle, Minneapolis, New York, Los Angeles e Washington D.C., le persone si sono organizzate per fornire assistenza medica, cibo, acqua, passaggi e persino rifugi per nascondersi dalla polizia durante i loro attacchi più brutali. L’elenco degli sforzi concreti in atto a Minneapolis, dalle massicce raccolte alimentari alla riconversione di alberghi in alloggi per persone senza fissa dimora, è sbalorditivo, e indica come il movimento si stia orientando verso le classi popolari. In tutto il paese spuntano nuove organizzazioni per la sicurezza e la difesa comune, sia armate che disarmate.

 

 

Anche se non tutti i partecipanti sono di orientamento esplicitamente anticapitalista, queste iniziative sembrano aver colto in maniera organica quanto il movimento abolizionista abbia bisogno di un sistema diverso da quello capitalistico. Si può essere responsabili nei confronti uni degli altri nel provvedere alle necessità di base, e su scala più ampia, come Ruth Wilson Gilmore ha ripetutamente fatto notare, questo tipo di azione potrebbe modificare le condizioni che rendono la polizia e le carceri gli elementi strutturanti della società.

In uno scenario politico che muta rapidamente, nei mesi a venire sarà fondamentale sottolineare questo aspetto. I recenti avvenimenti mostrano l’importanza che avrà questo nuovo tipo di istituzione, se è vero che lo scopo è abolire il rapporto di dominio che sta alla base delle forze di polizia, non di singoli reparti. Se vogliamo che milioni di persone comuni si identifichino con questo progetto abolizionista, dovranno essere i soggetti attivi nel “noi”, le organizzazioni di massa, le istituzioni e le lotte, a “proteggerci”.

 

Come può questa rivolta sociale dare vita a una leadership politica autonoma?

Come accade con ogni ribellione, si sta creando una nuova generazione di leadertra gli attivisti. Ancora non conosciamo tutti i nuovi attori politici in scena, ma alcuni dei più in vista sono adolescenti. Alcuni hanno accolto le richieste per “manifestare pacificamente” e in alcuni casi questo ha significato anche coordinarsi con la polizia. Molti di questi giovani leader provengono da quartieri neri della classe operaia, ma il loro ruolo è stato in parte incoraggiato da Democratici “progressisti” locali che hanno deciso di incontrarli regolarmente e di presentarli alla polizia. Alcuni hanno contestato questo fenomeno, sia online che in strada, ma questi leader hanno continuato a indire cortei e a coltivare il loro seguito. Gruppi abolizionistipiù anziani stanno cominciano ora a muoversi per dare maggior risalto al divario tra l’approccio di questi nuovi gruppi e lo spirito anti-poliziesco del movimento in generale.

 

Senza una leadership politica radicale che emerga dalle proteste, il rischio è che la repressione di stato schiacci la sinistra e le parti più scomposte del movimento lasciando che liberali, opportunisti, organizzazioni non-profit e scaltri dirigenti statali assorbano le energie della ribellione.

 

Una strategia di sussunzione politica è già in atto, al di là dell’apparato statale repressivo, per integrare le richieste e alimentare la forza dello Stato. Questo tipo di dinamica non è affatto una novità: infatti, negli ultimi cinquant’anni ha caratterizzato tutti i cicli di ribellione sociale avviati da movimenti sociali antirazzisti, a partire almeno dalla Guerra contro la Povertà e alla Guerra al Crimine che avvenivano in risposta almovimento per i diritti civili e alla crescita del movimento Black Power. Più recentemente, abbiamo visto come la rabbia esplosa a Ferguson e a Baltimora sia stata parzialmente incanalata in sforzi riformisti grazie all’intervento di grandi fondazioni, il settore non-profit, politici progressisti e chiese liberali. Oggi assistiamo solo all’applicazione più recente di questa strategia.

 

 

 

L’ex presidente Barack Obama e il reverendo Al Sharpton hanno lanciato un appello per una riforma della polizia e stanno dando indicazioni alle amministrazioni locali per avviare processi di riforma parziale e superficiale della polizia locale, nel tentativo di domare e normalizzare la ribellione. Ma non dobbiamo pensare chesarà facile cooptare il movimento. Pensiamo a come il movimento ha risposto a Muriel Bowser, sindaca di Washington D.C., che si è vantata di aver fatto verniciare l’enorme scritta “Black LivesMatter” sulla strada che porta alla Casa Bianca e ha rinominato una piazza in onore di BLM. Gli attivisti locali hanno risposto subito con la propria scritta, “Defund the Police”(definanziare la polizia), sapendo benissimo che questa stessa sindaca è a favore dell’aumento del bilancio della polizia e della costruzione di nuove carceri, e che Washington D.C. (che si estende ben oltre Capitol Hill) impiega più polizia pro capite di qualsiasi città del paese. Perciò dovremmo avere fiducia nelle persone, che non si faranno ingannare così facilmente.

 

In questo contesto, è essenziale che le proteste riescano a sviluppare spazi autonomi di autorganizzazione e decisionalità da cui possa emergere una leadership radicalizzata. Al momento la struttura delle proteste tende a essere rizomatica.

 

Questa non è una carenza in sé e per sé, al contrario, nelle ultime settimane è ciò che ha reso le proteste imprevedibili e resistenti al controllo. Tuttavia, gli sforzi concertati delle istituzioni liberali e centriste per domare la ribellione, e la necessità di prepararsi per l’autodifesa in caso di un’ondata di repressione brutale, richiederebbero un salto di qualità: la capacità di creare dal basso forme di coordinamento efficace, momenti di unità d’azione e una proliferazione di organi deliberativi e organizzativi che emergono dalla lotta stessa. Non è solo una questione di coordinamento tattico della lotta, si tratta soprattutto di aprire una discussione strategica doverosa all’interno del movimento. La situazione muta molto rapidamente, ma nei prossimi giorni ci aspettiamo di vedere le cose andare di più in questa direzione.

 

 

Intervista originariaente pubblicata in francese su Acta.ZoneTraduzione dall’inglese di Giulia Musumeci per DINAMOpress

Immagine di copertina: Eleonora Privitera

Foto dentro l’articolo: Mila Tenaglia