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Dalla techne alla tecnica

Parliamo di tecnica con Manuela Giordano (professoressa all’Università di Siena) ospite dal 22 al 29 luglio della Scuola estiva di filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica organizzata dall’Associazione culturale Scholé

Nel tradurre il termine greco techne, la parola ‘tecnica’ ne riduce via via il contenuto semantico. Se nel pensiero antico che precede Platone, il senso generale di ‘tecnica’ non è distinguibile né dalla scienza né dall’arte «né da qualsiasi procedimento o operazione adatto a raggiungere un effetto qualsiasi» (Dizionario di filosofia, Nicola Abbagnano), adesso la tecnica è innanzitutto lavoro. In questo senso, la tecnica si distingue dall’arte, considerata inutile a meno che non sia organizzata come un’industria. Invece, ingaggia un rapporto ambivalente con la scienza, a un tempo estranea e familiare. La tecnica come lavoro si distingue dalla scienza perché non è un sapere contemplativo, ma proprio per questa ragione è in grado di allearsi con essa, mutandone lo statuto. La tecnica diventa il fine della ricerca scientifica e la scienza è sempre più un sapere applicato e finalizzato alla produzione. 

Abbiamo chiesto a Manuela Giordano, filologa dell’Università di Siena, tra le relatrici e i relatori della XIII edizione della Scuola estiva di filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica (22-29 luglio 2022, organizzata dall’Associazione culturale Scholé), di condividere le sue impressioni sulla tecnica tra preantico e postmoderno.

Ogni civiltà instaura un proprio rapporto con la techne e sulla base di questo sviluppa una specifica riflessione. Il nostro legame con la techne è paragonabile a quello degli antichi o qualcosa si è rovesciato?

Ogni contesto storico e socio-culturale adatta e plasma costantemente la techne in base ai suoi valori e alle sue strutture socio-politiche. In questo senso credo che il cosiddetto determinismo tecnologico non funzioni: pensare che se la tecnologia è la stessa, anche il suo impatto sarà lo stesso in termini di cambiamenti cognitivi, culturali e sociali è una forma di riduzionismo. Al contempo, non tutte le rivendicazioni del determinismo tecnologico possono essere liquidate a priori. Anche se suona come un truismo, è cruciale ricordare che, in quanto esseri umani, tutte e tutti noi usiamo la stessa dotazione cognitiva ‘incorporata’, la cosiddetta embodied cognition. Possiamo provare a pensare la techne come pensiero + strumento, un sistema che agisce sinergicamente formando una ‘mente estesa’, per usare l’espressione dei filosofi Clark e Chalmers. Tuttavia, fino a poco più di un decennio fa, il rapporto gerarchico tra pensiero e strumento è rimasto inalterato, il pensiero comanda, si serve dello strumento e si esprime attraverso esso. Con l’introduzione delle tecnologie digitali, e in particolare con gli smartphone (parliamo di un decennio circa di storia) stiamo operando un cambiamento senza precedenti: se per definizione lo strumento serve la persona che lo comanda, con le macchine digitali di ultima generazione il rapporto si sta invertendo. 

In che modo?

È lo strumento che ordina e il pensiero ubbidisce: aggiornamenti, iscrizioni, inserimento di dati strettamente personali. È significativo che parliamo di dispositivi non di strumenti digitali. Un dispositivo è qualcosa che dispone, in ultima analisi ordina. Ma anche da un punto di vista cognitivo, il pensiero è sempre più delegato allo strumento. Prendiamo l’esempio dei medici che in misura crescente in questi anni abdicano agli strumenti (gli esami, gli screening etc.) le competenze diagnostiche (il pensiero). Tra noi e gli antichi il divario è enorme, noi apparteniamo a un’era elettronica, loro a un’era meccanica, in mezzo c’è l’era tipografica, a cui continuiamo ad appartenere, per riprendere il pensiero di McLuhan. La tecnica degli antichi era assai più povera della nostra, ma il loro pensiero era incomparabilmente più forte e complesso. I Greci per esempio hanno sviluppato più di ogni altra le tecniche della parola e della memoria, una techne ‘interna’ alla mente, usando strumenti semplicissimi, attuando così un potenziale umano straordinario che si è espresso nella filosofia, nella tragedia attica, nelle opere degli storici, nella poesia epica e lirica. E se oggi continuiamo a citare e studiare i filosofi greci non è perché avevano le risposte giuste, tecniche o scientifiche, ma perché, come dice Bertrand Russell, sapevano porre le domande giuste.

Nella techne degli antichi troviamo contenuta anche l’idea latina di ars, che ne fa qualcosa di forse meno materiale di quanto non si intenda oggi. Esiste ancora una ars nella techne contemporanea? 

In generale quello che era possibile allora è possibile ancora oggi, le nuove tecnologie non sono in sé un male se sappiamo limitarle e confinarle al ruolo di strumento. Nulla ci vieta di ritrovare l’uso dei nostri strumenti fondamentali, le mani e il linguaggio. Per quanto riguarda la materialità o immaterialità della techne porrei la questione nei termini seguenti. Continuando l’immagine della mente estesa, possiamo dire che essa è composta da una mente interna (il nostro corpo con il sistema nervoso al centro del sistema) e da una mente esterna materiale (lo strumento). Ora credo che si possa affermare che esista una relazione inversa tra la semplicità di operazioni collegate allo strumento, e la complessità di operazioni collegate alla mente interna.

In che senso?

Vediamo l’esempio della memoria. I Greci inventarono la mnemotecnica, la ars memoriae, essa consisteva quasi totalmente di tecnica pertinente alla mente ‘interna’, come avviene in una cultura interamente orale; la parte esterna, ‘materiale’ è esigua, si possono usare segni, semata, come un segno nel paesaggio umano o naturale (una tacca sul tronco di un albero, un tumulo collegato a una sepoltura). In questo caso, la mente interna, il nostro cervello, sarà molto forte, diffusa, complessa e articolata. Laddove però, come avviene in questo periodo storico, la mente esterna offre strumenti estremamente ricchi, estesi e complessi, la memoria dei dispositivi elettronici, la mente interna ne subirà le conseguenze. Questo è uno dei rischi maggiori delle tecnologie odierne ed è una delle responsabilità della politica, che continua a ignorare un tema di enorme rilevanza. Se non ho gli strumenti cognitivi, logico-linguistici ma anche mnemonici, interni, difficilmente sarò in grado di sostenere e difendere un’idea e sarò più facilmente manipolabile.

Nella nostra conversazione on-line, parafrasando Marx hai detto che le macchine sono il nuovo oppio della società. L’antica promessa che le macchine potenzino le nostre facoltà e che ci emancipino dalle fatiche non è stata mantenuta.

Sì, i dispositivi elettronici sono l’oppio digitale della nostra epoca, l’architettura dei diversi social media ma anche della rete è pensata per creare dipendenza attraverso stimoli che sollecitano una risposta dopaminergica, quella collegata al piacere. Sono trascorsi dieci anni da quando un neuroscienziato tedesco, Manfred Spitzer, pubblicò Demenza digitale, con dati allarmanti sugli effetti dell’esposizione prolungata agli schermi. Tra le altre cose Spitzer dimostra, dati alla mano, che l’uso prolungato di questi dispositivi non solo dà dipendenza, ma che il loro uso in età infantile danneggia lo sviluppo cerebrale. L’idea di progresso è fallace, oggi assistiamo al suo contrario. Invece di liberarci, come la maggior parte delle persone credono, gli strumenti elettronici ci stanno rendendo schiavi. Non solo. Come è noto da tempo, tanto i social media quanto YouTube e i diversi servizi del web realizzano i loro profitti attraverso un prodotto di valore inestimabile, la mente delle persone che li usano essendo in realtà usate. Mi riferisco agli annunci pubblicitari, alla profilazione dei dati e all’induzione di bisogni. Qualcuno direbbe che vendiamo candidamente l’anima in cambio di qualche… scarica di dopamina! 

Questo è il capitalismo contemporaneo: sempre più le vite sono stregate da dispositivi, piattaforme, algoritmi. Più che tecnica, sembra magia: come possiamo attraversare questo incantesimo? Il mondo classico può darci una mano?

È la vittoria del pensiero neoliberista, il pensiero della crescita illimitata, quella del profitto individuale, non della saggezza personale o collettiva. Gli antichi possono darci una mano tanto quanto potrebbero farlo le generazioni, come la mia, nate prima degli anni ’80, se non fossero anch’esse divenute in vario grado dipendenti dall’oppio digitale. Torniamo qui alla questione dei limiti e vincoli del corpo e della nostra cognizione incorporata. Quali che siano i miei valori e la mia consapevolezza, non potrò evitare che un’esposizione giornaliera ripetuta agli schermi produrrà dipendenza. Quello che la consapevolezza e i valori possono attivamente fare è… spegnere gli schermi e starne lontano, usando questi dispositivi come strumenti. Credo che oggi spegnere gli schermi sia anche un’azione politica. Bisogna andare in piazza, discutere, socializzare, confrontarsi in contesti reali, vivi, esercitare attraverso la parola la nostra neurofisiologia di animali politici. Questo è cruciale anche a scuola e in famiglia: ricordiamoci che c’è apprendimento quando c’è attivazione, non quando ci si espone passivamente a degli schermi.

Sempre in chiave liberatoria, conviene riprendere il tuo ragionamento iniziale su pensiero e strumento. Oggi lavorare con le macchine digitali significa saper pensare e fare insieme, l’intelletto non è più separato dalle competenze tecnico-produttive. Questa nuova forma di lavoro che cosa ci dice sulla performatività umana?

Risponderò attraverso Hannah Arendt. Ispirata dalla Grecia antica, la filosofa tedesca distingueva nella sfera del fareil lavoro, l’opera e l’azione. Il lavoro serve al sostentamento della nostra vita in senso biologico (mangiare, bere, dormire, ecc.), è questo un fare che condividiamo con gli animali e nel quale possiamo essere sostituiti dalle macchine. Anche l’opera è appannaggio degli animali, si pensi alla costruzione di un nido, di una tana, per costruire i quali molti animali usano anche strumenti, una forma di techne. Solo l’azione e il discorso, secondo Arendt, sono esclusivamente umani, è nell’esercizio del discorso e dell’iniziativa che il nostro essere e le nostre capacità creative si realizzano pienamente. Al contrario del lavoro, della produzione, l’azione non è realizzabile nell’isolamento ma solo attraverso la socialità e questo è un punto fondamentale. 

Il fare e il pensare nell’era digitale sono un fare e un pensare spesso isolati e finalizzati esclusivamente alla produzione. Qualche mese fa, Elon Musk, la persona più ricca al mondo, ha espresso l’intenzione di acquisire Twitter, dichiarando di volerne fare la principale piazza pubblica digitale. Questa è un’illusione, il consumo di queste piattaforme avviene nell’alienazione dell’isolamento, producendo di fatto una sempre maggiore passività del pensiero e una sua estremizzazione dovuta in gran parte alla mancanza di un confronto incorporato con le altre persone. La forza dell’agorà, della pubblica piazza, è quella della realtà e dell’azione. Il mondo è l’unico luogo fisico in cui si possa davvero agire, cambiare e realizzarsi come esseri umani.

Tutte le foto sono state concesse dall’Associazione culturale Scholé