approfondimenti

ITALIA

Come si esce dalla sindemia? Intervista a Lavinia Boggia e Luca Negrogno

Si è svolto a Bologna un importante convegno nazionale per chiedersi “a che punto è la notte” in tema di contrasto alla Covid-19. Come possono rispondere a questo evento le esperienze autogestite dal basso?

Il 6 e 7 novembre scorso si è svolto a Bologna il secondo incontro del Congresso Nazionale “Come si esce dalla Sindemia?”, seguito al primo del marzo passato. Si è tratto di un appuntamento molto partecipato, volto a far incontrare e discutere tante realtà nazionali attive da tempo sui temi della salute e delle politiche sanitarie. Il Congresso è stato costruito attraverso una modalità la più partecipativa possibile, strutturandosi su due assemblee plenarie e su più tavoli di lavoro. Gli assi tematici attorno ai quali ci si è confrontati sono stati: Il sistema sanitario; Che cos’è la salute; Covid-19: a che punto è la notte?; Mobilitazione: che fare?.

Abbiamo allora intervistato Lavinia Boggia e Luca Negrogno attivisti e organizzatori dell’importante incontro.

Come siete arrivati alla necessità di convocare una due giorni sui temi della salute, della sanità, del Covid-19 e delle prossime mobilitazioni? L’idea di federare esperienze, collettivi, realtà autorganizzate che esistono e lottano da tempo su questo fronte da dove è nata?

Per rispondere il più semplicemente possibile a questa domanda partirei da inizio marzo 2020, quando nell’assemblea settimanale nel nostro spazio di quartiere analizzavamo e valutavamo le notizie ancora fresche di quella tragedia di cui ancora non immaginavamo la portata. Da pochi giorni infatti era nota la scoperta del primo caso di Covid, si iniziavano a sentire parole nuove come “lockdown”, e noi ci chiedevamo come interpretare la situazione che si apriva davanti a noi. Era giusto abbandonare il territorio e i nostri spazi sociali per chiuderci nelle nostre case? Che livello di attenzione anche nelle nostre relazioni dovevamo tenere? Quali scenari si stavano aprendo?

La situazione era confusa, avevamo già assistito altre volte allo scoppio di infezioni altamente contagiose, ma erano comunque rimaste dall’altra parte del mondo e anche questa volta, evidentemente sbagliando, avevamo pensato fino all’ultimo che, protettə dalla nostra civiltà occidentale avanzata, il discorso non ci avrebbe interessato così nel concreto.

Le istituzioni si stavano rivelando impreparate (si iniziava a parlare di piani pandemici e del loro mancato aggiornamento), e noi, come militanti, non eravamo da meno. Infatti una prima autocritica andrebbe posta a questo livello: i ragionamenti sulla globalizzazione che sono pane quotidiano nei nostri dibattiti da anni avrebbero dovuto fin da subito farci intuire che allo scoppio di un tale problema in Cina non ne saremmo rimastə immuni, e quindi avremmo dovuto progettare per tempo un piano rivendicativo e di lotta. Tanto più dinanzi a scenari in cui pandemie e disastri ecologici saranno frequentemente all’ordine del giorno.

Un’altra considerazione legata a questo discorso riguarda la scarsa partecipazione nella nostra composizione di movimento di figure che avrebbero potuto, con uno sguardo tecnico e professionale, avanzare l’ipotesi di questi scenari.

E qui arriviamo al punto: in seguito allo scoppio e al perdurare dell’emergenza pandemica nel nostro paese abbiamo osservato la nascita di tanti nuovi percorsi che si interfacciavano con il tema della salute (sia come mutualismo, sia come vertenza e lotte). Noi stessə abbiamo sperimentato nel nostro quartiere l’emergere esplosivo di bisogni che si sono coagulati nell’Assemblea per la salute del territorio che, dopo la calma estiva del 2020 e il nuovo innalzamento dei casi dell’autunno dell’anno scorso, ha trovato necessario confrontarsi inizialmente con altre realtà di regioni vicine. Realtà che, nonostante la contiguità del territorio, raccontavano un’esperienza con il virus diversa da quella emiliano-romagnola (per il disastro di morti in Lombardia e per l’approccio all’epidemia in Veneto).

Abbiamo condiviso fin da subito la povertà di analisi del fenomeno pandemico da parte dei movimenti, per la poca attenzione al tema e, come si diceva prima, per una scarsa relazione con personale e ambiti sanitari.

Da questa condivisione è nata l’urgenza di creare uno spazio di dibattito dove ci si potesse confrontare tra realtà a livello nazionale, coinvolgendo anche varie figure del mondo sanitario, medico e scientifico, oltre che sindacale che fornissero una lettura politica del fenomeno.

Avete aperto il congresso affermando che si tratta di capire come uscire dalla sindemia, dando vita a un ciclo permanente di incontri volto a produrre proposte collettive e operative, intento a costruire un comune percorso. Puoi articolare meglio questo proposito?

Uno dei tavoli che abbiamo proposto per il dibattito era intitolato “Covid19: a che punto è la notte?”. L’idea sottesa a questo titolo è che ci troviamo in un momento incerto, in un tempo fermo nell’attesa del sorgere di un nuovo giorno. Riteniamo che non vada vissuto questo tempo con paura o disperazione, ma come una sfida per ricostruire un nuovo giorno che non solo porti a risolvere i problemi portati dalla pandemia, ma che metta in discussione il contesto ecologico in cui essa si è prodotta.

Questa notte è quindi il tempo in cui analizzare tutti gli aspetti problematici che ci hanno portato al tramonto tragico del giorno precedente, consapevoli che la controparte, dal canto suo, sta facendo lo stesso ragionamento per guadagnare dalla crisi che si è creata sempre più margini di profitto. Riteniamo che questa notte ci dia la possibilità, anche grazie alla sua oscurità, di tessere nuovi legami, elaborare nuove prospettive che, grazie a una profonda frattura con quello che abbiamo vissuto finora, portino all’alba di un nuovo giorno abitato dalle istanze di benessere universale e da un nuovo assetto del potere.

Eman Arab (da commons.wikimedia.org)

Abbiamo trovato molto importante il vostro metodo di lavoro, non solo per l’individuazione dei temi da voi fatta, ma anche per le pratiche democratiche, di reale condivisione e discussione da voi prescelte. Possiamo dire che questa modalità si è ispirata a quella dei recenti movimenti femministi e che molto ha da insegnarci rispetto a futuri appuntamenti?

Sicuramente, abbiamo voluto adottare e applicare pratiche provenienti dal movimento transfemminista con cui negli ultimi anni siamo venute a contatto grazie al movimento di Non una di meno. Il nostro obiettivo nella costruzione dei tavoli di lavoro era far sì che diverse capacità, diverse esperienze, pratiche e saperi si incontrassero in maniera orizzontale e che ognuna sapesse fare tesoro dell’altra senza che si instaurassero linee di potere o privilegio. È ovvio che questa scelta accetta, anzi auspica, anche la possibilità della nascita di conflitti in seno ai dibattiti, per questo in ogni tavolo avevamo predisposto la presenza dei “facilitatori”, figure che si occupassero di favorire una discussione a tratti anche conflittuale, ma rispettosa e senza prevaricazioni. Richiedere interventi il più possibile brevi, bloccare i “botta e risposta” reiterati, favorire gli interventi di tutte le realtà partecipanti e richiedere nuove figure per il resoconto finale riteniamo che siano state modalità capaci di creare uno spirito di responsabilizzazione e inclusione collettiva.

Si può pensare alla nascita di un nuovo percorso di lotta che assuma il terreno della salute come uno di quelli oggi decisivi per riarticolare una cultura politica radicale, per dar vita a nuove pratiche e sperimentazioni sul terreno della riproduzione sociale, per aprire nuovi spazi di partecipazione, coscienza critica e politicizzazione, per costruire una nuova combinazione di conflitti, nella quale più soggetti possono incontrarsi e allearsi?

È un tentativo che dobbiamo porci con urgenza nel prossimo futuro. Come dicevo prima, le prospettive che dall’alto sembrano darsi per risolvere la pandemia sono quelle di un rafforzamento della sanità privata, quindi non accessibile a tuttə, una difesa di brevetti e proprietà intellettuale che favoriscono profitto per pochi e ricatto per tantə, una medicalizzazione estrema, una dequalificazione dei servizi, insomma una salute sempre più mercificata. È urgente allora opporsi a questa rotta, invertirla, per affermare una salute universalmente accessibile e per un nuovo concetto di salute, che la identifichi non come un semplice attributo individuale, ma come il risultato di una serie di determinanti politiche, sociali, ambientali ed economiche. Per questo motivo, la lotta per la salute deve intersecarsi con le lotte per la casa, per il reddito, le lotte transfemministe e quelle ambientali, le battaglie sul lavoro e la scuola. Tutti aspetti questi legati alla salute individuale e collettiva.

Quali alleanze e con quali soggetti?

Aggiungo alla risposta precedente che il convegno di novembre ha volutamente fatto una richiesta: spronarci tuttə a mettere sul piatto proposte operative. Di decostruzione del presente, di analisi della situazione ne abbiamo già molte, la sfida deve essere allora quella di fornire contenuti nuovi, nuovi immaginari, anche utopici, e impegnarsi per renderli pratici, concreti, reali. La pandemia su questo ha dato una spinta, con la nascita di tutte quelle realtà che sono scese per le strade, che hanno creato ambulatori, sportelli, che si sono interfacciate con le persone e hanno creato dei legami, delle relazioni con i loro territori. Questi percorsi vanno incrementati, resi malleabili alla situazione incerta e in divenire che viviamo e devono porsi l’obiettivo di individuare le controparti da attaccare per rilanciare il tema di cosa sia la salute e di come le popolazioni possano ottenerla e difenderla contro chi vi antepone il proprio guadagno.

Come possono essere messe insieme le istanze di riqualificazione della sanità pubblica e di espansione dei servizi pubblici con le numerose esperienze autorganizzate volte sia a rimediare alle inefficienze e ai disagi sempre più crescenti nella tutela della salute, sia a dar vita a forme di sanità più socializzate?

Il dialogo tra le esperienze di mutualismo, autorganizzate e dal basso, e i soggetti collettivi che operano per rivendicare migliori condizioni di lavoro e di servizio all’interno della sanità pubblica è stata la grande novità del nostro convegno. C’è stato un salto generazionale, un’assenza di continuità nella trasmissione dei contenuti militanti delle lotte che hanno costituito il Servizio Sanitario Nazionale e che hanno operato all’interno del suo orizzonte per costruire nuovi servizi. Penso ai centri di salute mentale, agli asili, ai consultori, a quelle “istituzioni inventate” che, una volta approvata la legge 833 del 1978, hanno continuato a svilupparsi grazie alla forza e alla intelligenza espressa dalla cooperazione tra militanti.

(Giulio di Meo)

Questi spazi, che esprimevano autonomia e cambiamento, modificavano le istituzioni, instauravano nuovi modelli di azione pubblica, ribaltavano praticamente i rapporti di forza nella relazione tra servizi e popolazione. Purtroppo, però, mentre moltə compagnə lavoravano in questi settori, “ai piani alti” si andava progressivamente consumando una separazione tra la società e la politica che ha raggiunto la sua forma più estrema ed evidente negli ultimi venti anni, caratterizzati da una forma di neoliberismo sempre più “tecnocratico”. Da molti anni mancano momenti di dialogo tra le lotte svolte nel e per il Servizio Sanitario Nazionale e le forme di militanza autonoma nate sui terreni della riproduzione sociale, della casa, dell’ambiente, delle forme di vita nella città. La nuova ondata transfemminista e l’attuale riflessione sull’ecologia ci impongono di recuperare questo gap e ripensare le nostre forme di pensiero e di pratica.

Oggi ci rendiamo conto che è giunto il momento di produrre spazi per la ripoliticizzazione di tutti i saperi, contro la illusoria rappresentazione della contrapposizione manicheistica tra “esperti” e “popolo”, la quale non fa altro che oscurare i conflitti nella produzione di saperi, nella distribuzione di risorse e nella possibilità di prendere parola, che sono i veri campi di tensione dell’attualità. Le esperienze di mutualismo costituiscono oggi uno stimolo nuovo a superare il modello della semplice susidiarietà per come l’abbiamo conosciuta finora. Nelle mobilitazioni per un servizio pubblico e universale, in un’ottica di rete con lavoratrici e lavoratori del Ssn, queste esperienze sono da valorizzare come indicazioni e allusioni verso nuove modalità di rapporto con i territori, come anticipazioni di una nuova epistemologia della cura, come pratiche reali di una nuova partecipazione popolare, al di fuori dagli steccati corporativi delle professioni e da ogni tendenza di sussunzione e valorizzazione capitalistica.

Con quali proposte si è concluso questo incontro nazionale? Quale raccordo può esserci tra questa esperienza e quelle portate avanti dalle varie realtà operanti sui territori?

È emerso chiaramente che è necessario rinnovare le pratiche di lotta e di mobilitazione, laddove ad esempio le vertenze non siano riuscite ad andare oltre una dimensione solo settoriale e corporativa, proprio a partire dagli operatori sanitari. Bisogna costruire un nuovo immaginario, che sappia anche valorizzare gli esiti progressivi del mutualismo e delle culture sussidiaristiche ma in una rinnovata ottica di pubblicità del servizio, dignità del lavoro, de-mercificazione delle procedure e della governance. Bisogna necessariamente costruire nuove alleanze con i movimenti dei disabili e degli utenti, offrendo a questi ultimi la possibilità di sottrarsi a quelle forme edulcorate e spuntate di “partecipazione” che proliferano nel nostro sistema sussidiaristico senza mai tematizzare i veri squilibri di potere.

Bisogna costruire nuovi spazi di democrazia, nuove occasioni di confronto tra tecnicə. Oggi c’è un problema molto forte di democraticità interna al nostro servizio sanitario: la condizione di ricattabilità, l’arretramento sul piano delle tutele collettive, il clima di repressione diffuso a scapito del lavoro aggravano una tendenza che negli ultimi anni ha riguardato molti comparti della forza-lavoro impegnata nel welfare. Come già accadeva per le lavoratrici e i lavoratori del privato e del privato sociale, anche nel Servizio Sanitario Nazionale si sono affermati sempre più esplicite forme di minaccia, controllo, intimidazione, volte a evitare la presa di parola da parte di lavoratrici e lavoratori sulle condizioni del servizio, in termini di efficacia, equità e dignità del lavoro.

A questo punto un metodo importante delle prossime mobilitazioni che speriamo di stimolare sui territori riguarda la possibilità che ciascunə possa mettere in discussione politicamente il proprio ruolo tecnico. Su questo ricordiamo l’affermazione di Franco Basaglia del 1979: «Non è vero che lo psichiatra abbia due possibilità, una come cittadino e l’altra come psichiatra. Ne ha una sola: come uomo. E come uomo, io voglio cambiare la mia vita. Voglio cambiare l’organizzazione sociale; e non con la rivoluzione, ma semplicemente esercitando la mia professione di psichiatra. Se tutti i tecnici esercitassero la loro professione, questa sì che sarebbe una vera rivoluzione. Quando trasformo il campo istituzionale in cui lavoro, io cambio la società». Ecco, Basaglia parlava in un momento in cui si stava rivoluzionando una disciplina e, insieme a essa, la società. Oggi dobbiamo ricostruire spazi in cui, grazie alla partecipazione popolare, chi lavora nella cura possa esercitare questa riflessione rivoluzionaria sul proprio ruolo.

(da commons.wikimedia.org)

Quale idea di salute e di sanità avete e pensate debba affermarsi? Ne vedete un riflesso nelle politiche nazionali attuali (Pnrr, legge di bilancio, ecc.)?

Un elemento importante è emerso proprio dalle azioni di mutualismo e autorganizzazione dal basso: ci sono settori che, nonostante le buone leggi elaborate negli anni Settanta, sono stati svuotati dall’interno. Ci riferiamo principalmente ad ambiti strutturalmente carenti come quelli della salute delle persone migranti, la salute mentale e la salute sessuale e riproduttiva. Su questi ambiti pesano fortemente le condizioni di oppressione strutturale basate sul genere, i pregiudizi abilisti, le forme di esclusione e marginalizzazione che rispecchiano e legittimano lo sfruttamento diffusi nella società. In questi ambiti forme di mobilitazione, presa di parola, messa in discussione dal basso delle pratiche e dei saperi “esperti” sono particolarmente importanti e costruttive.

La nostra idea di salute è certamente inscindibile da una idea di società, come è stato per chi si è mobilitato all’epoca della creazione del Servizio Sanitario Nazionale. Si tratta di «lottare contro la malattia come perdita di partecipazione e rifiutare la perdita di partecipazione come malattia», come diceva Giulio Maccacaro. In particolare oggi questo significa destrutturare i modelli eterocisnormativi di salute, i sistemi sanitari basati sulle produttività e il profitto, l’organizzazione di un welfare incapace di incidere sulle cause strutturali dei fenomeni di disuguaglianza.

L’esempio delle politiche nazionali attuali che ci sembra più interessante da trattare è quello delle Case di Comunità, introdotte con il Pnrr. Da una parte, le dichiarazioni contenute nei documenti potrebbero anche essere prese come indicazioni positive: la prossimità, il territorio e la domiciliarità sono temi su cui da anni gruppi di lavoratrici e lavoratori consapevoli stanno promuovendo proposte e articolando modelli organizzativi. Il problema è che se non si mette mano a una serie di principi di base, come l’investimento strutturale in risorse umane (quindi finalmente farla finita con il blocco delle assunzioni), la riqualificazione del lavoro sociale su una base di dignità ed equo riconoscimento del valore del lavoro, l’esclusione di meccanismi di programmazione delle prestazioni sulla base della loro profittabilità, queste parole restano solo un vuoto imbellettamento.

A sentire quello che emerge dai territori, sembra che dietro queste parole altisonanti rischia di riprodursi un sistema basato sulla centralità del complesso tecnico-ospedaliero-farmacologico, innervato nel territorio attraverso una formula organizzativa che dietro il paravento della comunità si risolve in una mera composizione di prestazioni ambulatoriali, senza nessuna attenzione alla salute pubblica e preventiva e senza nessuna reale nuova formula organizzativa volta all’integrazione sociosanitaria. La prossimità diventa così un nuovo campo di investimento e di “manipolazione dei bisogni” che favorisce le corporazioni professionali, tecniche e industriali. Senza una grande azione strutturale sul servizio sanitario, sulle sue fonti strutturali di finanziamento, sulla sua epistemologia, rischiamo di creare solo una serie di nuove infrastrutture vuote su cui poi continueranno a proliferare il privatismo, il produttivismo e la disattenzione ai bisogni reali della popolazione.

Per fare un esempio, siamo molto preoccupati da quello che sta succedendo a Trieste, dove un Direttore Generale di Ausl, nominato dalla Regione il cui Presidente è a capo della Conferenza Stato-Regioni (e quindi dovrebbe avere in mente come implementare le parole del Pnrr), ha appena proposto un atto aziendale che taglia i Distretti Sanitari e li svuota di competenze, limitando di fatto la vicinanza tra essi e i bisogni della popolazione. Nel fare questo si compromette un modello di lavoro, quello delle Microaree, a cui moltə di noi guardano con grande interesse perché in esso riconosciamo l’onda lunga di un processo di lotte, mobilitazioni e politicizzazione del lavoro nel Servizio Sanitario Nazionale che ha saputo tenere insieme le tecniche e un’idea di società basata sull’uguaglianza e la reale partecipazione. Se le cose vanno in questa direzione è ora che emerga una rinnovata capacità di impegno, pensiero e mobilitazione da parte di tuttə.

Articolo pubblicato originariamente su Euronomade

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org