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Chi ha paura di Virginia Woolf?

In una tournè che l’ha portato tra gli altri a Torino, Reggio Emilia, Napoli, Rimini e Milano, Antonio Latella torna alla regia teatrale con “Chi ha paura di Virginia Woolf”, il capolavoro di Edward Albee. Un testo realistico e visionario che narra la storia di un amore disperato e violento che precipita in un vorticoso gioco al massacro

Who’s Afraid of Virginia Woolf?, che ha debuttato a Broadway nel 1962, rappresenta l’opera più compiuta, e più nota, del drammaturgo Edward Albee, dove mette in scena ancora una volta la desolazione della borghesia americana. Protagoniste dell’opera due coppie appartenenti a un ceto accademico, una di mezza età, Martha e George, e l’altra dei più giovani Honey e Nick. I quattro si ritrovano nell’appartamento dei primi un sabato notte, per una bevuta dopo un party di facoltà dove si sono conosciuti, un drink conviviale che virerà ben presto in un gioco al massacro. In Italia, a partire dalla prima regia di questa pièce a opera di Franco Zeffirelli nel 1963, Chi ha paura di Virginia Woolf? è stato più volte messo in scena da teatri stabili, come semplice teatro di parola, con grandi attori, anche per la notorietà che l’opera ha acquisito dopo la versione cinematografica del 1966. Con il paradosso, tipico degli stabili di una volta, di mettere in scena un testo fortemente corrosivo sulla borghesia nella forma di teatro naturalistico borghese. Sempre eludendo quel macigno interpretativo rappresentato dalla filastrocca che dà il titolo all’opera, parodia della canzoncina Who’s Afraid of the Big Bad Wolf? del cartoon disneyano The Three Little Pigs. Un elemento da teatro dell’assurdo, canticchiata più volte dai protagonisti, tradizionalmente reso con semplice declamazione. Eccezioni nel panorama teatrale italiano sono state rappresentate dalla versione di Arturo Cirillo e, ora nei teatri italiani, da un nuovo allestimento di Antonio Latella.

Con la scenografa Annelisa Zaccheria, Latella costruisce uno spazio teatrale astratto, ben lontano dal banale tinello naturalistico borghese che si era visto finora. Una sorta di limbo racchiuso alle tre pareti del palcoscenico da un tendone continuo, come una red room di ispirazione lynchana, ma di colore verde. I drappi che rivestono la scena si pongono in ideale continuità con il sipario teatrale, come una sua rientranza, come a comunicare un teatro interno, quello della recita di George e Martha, sul loro fantomatico figlio, sull’uccisione dei genitori ma anche sulle vacanze inventate nel Mediterraneo, che vede gli ospiti Honey e Nick nel ruolo di spettatori. Un unico grande armadio troneggia in scena, ma si tratta di un oggetto teatrale cangiante. L’anta sinistra diventa il bar, mentre quella destra assume la funzione di uscita dalla stanza, una porta che si apre nel vuoto, su quel manto verde che avvolge tutto, attraversata dai personaggi quando cambiano di camera, mentre le loro entrate e uscite dall’appartamento avvengono semplicemente sbucando in un angolo della scatola scenica foderata da quel drappo, o scomparendoci. A volte un attore, quando il testo prevede che non sia in scena, appare in quella nicchia dell’armadio, come se origliasse. Sembra la tipica posizione dell’anticamera dell’attore che, occultato, aspetta il suo turno per entrare sul palcoscenico, nel limitare tra il visibile e il non visibile.

Latella prosegue così la sua opera di decostruzione della macchina teatrale, che era arrivata a certi estremi per esempio nel suo Servitore di due padroni, e che qui si mantiene sottile e minimale. Per lui, che ha sempre teorizzato l’assenza della quarta parete, si tratta ora di creare un interno da bomboniera ovattata, rappresentazione stucchevole della mediocrità di quel mondo borghese. Centrali in palcoscenico anche due manufatti in grado di generare musica diegetica, in un testo che prevede vari inserti musicali oltre alla canzoncina. C’è un pianoforte, usato spesso da Martha, che è interpretata da Sonia Bergamasco, attrice di cui è nota, già dal film La meglio gioventù, l’abilità da pianista. C’è poi a lato la cassa dello stereo che si aziona, con magia teatrale, semplicemente toccandola, a volte anche involontariamente. Saranno questi due manufatti musicali oggetto di quella distruzione scenica che, in altri spettacoli di Latella, ha coinvolto l’intero palcoscenico. A completare la scenografia un gruppetto di cagnolini di ceramica, forse un riferimento a Lo zoo di vetro, altro testo fondamentale del teatro americano del Novecento, di un autore, Tennessee Williams, già frequentato da Latella. Solo in due brevi momenti dello spettacolo, queste statuette vengono percepite dai personaggi.

Il testo di Albee, come buona parte della sua opera, appare come fortemente corrosivo di quella famiglia borghese tranquilla, simbolo del benessere del sogno americano, la cui paura si incarna in Virginia Woolf, la scrittrice e attivista britannica che fu pioniera nelle istanze di parità tra i sessi, dirompente anche nel linguaggio letterario. George è un mediocre professore di storia. È stato, vero, direttore del dipartimento ma solo per pochi anni durante la guerra, quando buona parte dei colleghi docenti si era data alla fuga. L’arrivismo accademico di George, e il nepotismo, per aver sposato la figlia del rettore della sua università, si mescola con una mentalità dinastica, perché il cognato ha spinto per quel matrimonio nell’ottica di creare una successione, ovviamente di linea maschile, alla guida dell’ateneo. Il tema della progenie è ripreso dai dialoghi con Nick, che è professore di biologia, con cui si parla spesso di cromosomi. E Albee irride a questa esigenza di eredi nella mentalità borghese, nel momento in cui entrambe le coppie hanno fallito in questa loro missione, per problemi di fertilità. Nick aveva sposato Honey pensando che fosse incinta, ma si trattava di una gravidanza isterica. George e Martha mettono in scena il racconto di un figlio, con tanto di finale drammatico. Si tratta di un teatro nel teatro, e non solo per quella situazione, nella dicotomia tra verità e illusione centrale nell’opera di Albee. «Verità e illusione. Chi può conoscere la differenza?» chiosa George nel testo. Ed è George il regista di questa recita («Sono io che dirigo lo spettacolo»), lui che è anche uno scrittore fallito, che aveva pensato a un romanzo sull’uccisione dei genitori, altra sua millanteria.

Latella compie un lavoro scenico classico sulle pause, di riempimento di immagini teatrali del testo che è sostanzialmente rispettato. Un testo proposto nella nuova traduzione di Monica Capuani, che modernizza il linguaggio sostituendo così la versione storica, datata 1970, di Ettore Capriolo. E da tutta questa miseria umana Latella distilla dei sentimenti purissimi: dopo la catarsi di quella notte, dopo il disvelamento dell’illusione, entrambe le coppie usciranno saldate nei loro legami affettivi. Martha è interpretata da Sonia Bergamasco che usa una recitazione naturalistica, ‘psicologistica’, cinematografica. Più straniato e compassato Vinicio Marchioni, nel ruolo di George, il tipico personaggio di Albee che incalza, che sfida in continuazione, che trascina tutti nella sua ragnatela isterica. La tensione, il crescendo di nevrosi sfocia in una deflagrazione dove salta ogni residuo naturalismo, dove tutto vira in una fiaba dark lynchana: Honey con una testa di coniglio, che rende la battuta di Nick «Sei un coniglietto», e una detonazione tellurica di luci intermittenti che pervadono il palcoscenico. 

Chi ha paura di Virginia Woolf? rappresenta un’ulteriore tappa del percorso di Antonio Latella per la drammaturgia e la letteratura americane del Novecento, per la messa in scena della decadenza e dell’illusione del sogno americano. Passando per Un tram che si chiama desiderio, La valle dell’Eden e Francamente me ne infischio, che riprende una battuta di Via col vento, battuta riproposta anche in questo spettacolo. «L’occidente, gravato da zoppicanti alleanze e appesantito da una mentalità troppo rigida per potersi adattare al mutar degli eventi finirà un giorno per crollare»: è il brano del libro che George declama. Edward Albee ha debuttato nel 1959, con Storia dello zoo, e ha scritto le cose più importanti negli anni Sessanta, pur avendo continuato la sua opera fino al 2007, anno del suo ultimo lavoro, Me Myselsf and I. Negli anni della sua affermazione si stava sviluppando negli Usa una rivoluzione teatrale che spostava la centralità del teatro dal linguaggio drammaturgico a quello scenico: il testo come mezzo e non come fine. Albee era nella barricata opposta, la sua distruzione del sistema rimaneva interna alla scrittura. Oggi un protagonista della scena di ricerca come Antonio Latella, che ha saputo lavorare finanche con il grande mattatore dei palcoscenici Giorgio Albertazzi per un Re Lear, può andare ben oltre a quelle distinzioni.