cult

CULT

C’è del marcio… anche negli USA

Vincitore del premio Ubu come spettacolo dell’anno del 2019 e attualmente ancora in tournée in giro per l’Italia (fino all’1 marzo è al Teatro Carignano di Torino), “Un nemico del popolo” di Ibsen è un testo con molte assonanze con l’attualità. Nell’allestimento di Massimo Popolizio, che sposta l’ambientazione della Norvegia di fine ottocento al Sud degli Stati Uniti degli anni venti, vediamo una grande messa in scena della crisi contemporanea della democrazia

Scritto nel 1882, durante un soggiorno in Italia dell’autore, Un nemico del popolo non è tra i drammi più rappresentati di Henrik Ibsen. Viene ora portato in scena in un adattamento di Massimo Popolizio, storico attore ronconiano che da qualche tempo cura anche la regia dei suoi spettacoli. Ibsen è un drammaturgo caro a Popolizio, che aveva già interpretato con successo altre sue opere, come Peer Gynt e John Gabriel Borkman. Un nemico del popolo è stato rappresentato poche volte nei teatri italiani: si ricordano le regie di Luigi Squarzina – la cui traduzione del testo, usata anche da Popolizio, è ancora oggi quella più autorevole – nel 1948 e quella di Edmo Fenoglio del 1975, memorabile per l’interpretazione di Tino Buazzelli nei panni del protagonista, il dottor Thomas Stockmann. Portare in scena oggi questo testo vuol dire indubbiamente coglierne i temi di stretta attualità, quali la crisi della democrazia, il populismo e la dittatura della maggioranza, la crisi ambientale e il conflitto possibile tra tutela della salute e sviluppo economico, il ruolo della stampa asservita al potere e quello della scienza che dovrebbe essere portatrice di una verità superiore.

L’opera è ambientata in una piccola città termale dove grande è il fermento per l’indotto economico delle attività turistiche in via di sviluppo. Con grande lucidità Ibsen descrive l’euforia del capitalismo, l’esaltazione per la circolazione del denaro. Ma il medico del paese, il dottor Thomas Stockmann scopre dei pericolosi livelli di contaminazione delle acque, per l’infiltrazione degli scarichi di attività di conceria. La bonifica e la messa in sicurezza delle terme richiederebbero interventi molto costosi nonché la sospensione per qualche anno delle attività turistiche. A questi interventi si oppone il sindaco, Peter Stockmann, fratello del dottore, preoccupato del danno economico che ne conseguirebbe, che minimizza e insabbia il problema. Dalla sua anche il giornale locale, che significativamente si chiama “Il Giornale del Popolo”, cambiando pavidamente la sua linea iniziale che voleva supportare la denuncia di Stockmann. Ne segue una grande assemblea pubblica, gestita e “moderata” dalle autorità, dove il dottore, contro ogni sua aspettativa, si trova avversa la popolazione tutta e viene additato come nemico del popolo.

 

 

La messa in scena di Popolizio traspone la vicenda dalla Norvegia di fine Ottocento in una piccola comunità di un luogo imprecisato nel profondo sud degli Stati Uniti, negli anni Venti, un’ambientazione torrida alla Tennessee Williams, enunciata con i filmati su un grande schermo che sovrasta il palcoscenico: immagini di casette di legno hopperiane tipiche, di villaggi da film western, si susseguono. Lo stesso dottor Stockmann, nel testo originale, vede l’America come ideale meta cui rifugiarsi, terra decantata di libertà e vera democrazia, riconoscendo però poi che anche lì qualcosa di marcio potrebbe esserci: «Anche là fioriscono la maggioranza compatta, l’opinione pubblica e tutti gli altri diavoli. Ma là, vedi, gli orizzonti di vita sono grandiosi, là si uccide ma non si fa morire a fuoco lento». L’America, la culla della moderna democrazia, che è arrivata a Trump, nella sua parte tradizionalmente considerata più retrograda come quella del sud, può essere più indicativa per riflettere sulle antinomie della contemporaneità impostate nel testo, sui valori di democrazia e sulla dittatura della maggioranza, più che la poco significativa, in questo senso, Norvegia. E tenere comunque l’ambientazione nel passato, negli anni Venti, preserva il carattere primigenio e ancestrale dei conflitti in atto. Popolizio sviluppa questo contesto storico e geografico, che rimane comunque vago e indefinito, avvalendosi di musiche blues e sviluppando la figura dell’ubriaco che, nel testo originale compare solo brevemente durante la pubblica assemblea, l’unico a non approvare, astenendosi con scheda bianca, altrimenti in un plebiscito, la messa in stato di accusa di Stockmann. L’ubriacone diventa un cantante blues, di colore, in salopette, presente come cantastorie o coro greco in tutto lo spettacolo. Una scenografia stilizzata di grandi pareti semovibili che inscrivono stanze intercambiabili, la casa di Stockmann, la sede del giornale e il luogo della pubblica assemblea, durante il quale Popolizio crea un’immedesimazione tra pubblico e la folla ottusa, alla cui gogna è esposto il protagonista, facendo provenire le urla di ludibrio da altoparlanti posti in platea e, quindi, anche gli applausi registrati che anticiperanno quelli reali del vero pubblico. Un modo per renderci parte di una massa, ma anche la riproposizione del meccanismo del processo, in questo caso sommario, come un momento di teatro come già dai tempi dell’Orestea.

Il carattere antinaturalistico di tutta la rappresentazione ha poi il suo punto di forza nel far interpretare il ruolo del sindaco, Peter Stockmann, a un’attrice, la straordinaria Maria Paiato. Una scelta che semplicemente sottolinea di essere nell’ambito del teatro, quella forma d’arte che rimane presentazionale, terreno della magia, dove si mettono in scena personaggi e situazioni archetipici. Quella forma di rappresentazione che ha visto, nel teatro elisabettiano come nel kabuki, attori in ruoli femminili e dove si ricorda come massima interpretazione di un Amleto quella di Sarah Bernhardt.

 

 

Rispetto al testo va detto che la messa in scena di Popolizio leviga tutta una serie di asperità ed evita alcuni aspetti, non certo positivi, della figura di Stockmann, tali da permettere a Ibsen di impostare grandi problematiche senza offrire una manicheistica via d’uscita. La superiore verità del sapere scientifico, per esempio, a cosa può portare? A governi di tecnici, elitari e di intellettuali, che dall’alto decidono quale sia il bene e il male del popolo? Popolizio però aggiunge al testo, nell’arringa difensiva del protagonista, i riferimenti a Cristo e Galileo come esempi storici di condanne ingiuste prese a furor di popolo o in virtù del dogmatismo dominante (mentre nel testo di Ibsen semplicemente perdona i suoi avversari perché non sanno quello che fanno, venendo anche tacciato di blasfemia). Vero che ci sono aspetti dello stesso Ibsen nella figura del medico, a sua volta ostracizzato per aver messo a nudo le ipocrisie della società borghese con le sue opere. Lo stesso drammaturgo ammette, in una lettera all’editore, di trovarsi d’accordo con il suo personaggio, che tuttavia presenta delle singolarità che «fanno accettare […] alcune delle cose che gli escon di bocca, che non si accetterebbero se venissero fuori dalla mia». Un’ambiguità rivendicata dall’autore quindi che si perde in questo allestimento.

Un nemico del popolo è prima di tutto un conflitto tutto interno alla borghesia, nella piena cifra stilistica del drammaturgo. Si parla spessissimo di borghesi nel testo, di piccoli borghesi che sono la maggioranza. Stockmann ha una donna di servizio di cui non ricorda come diavolo si chiami e che definisce uno sgorbio. Rammenta, citando una celebre battuta di Stanislavskij –ispirata ai moti di San Pietroburgo del 1905 mentre il grande teorico russo stava mettendo in scena Un nemico del popolo – di essersi procurato uno strappo al vestito nero, quello buono durante le fasi concitate dell’assemblea: «Quando si va a combattere per la libertà e per la verità, non si dovrebbe mai mettere un vestito nuovo». Stockmann è perfettamente integrato nel sistema. Fa parte dell’organizzazione di sfruttamento turistico delle terme, di cui è stato anche uno dei fondatori e che non vuole mai mettere in discussione. Viene tacciato ironicamente di essere un aristocratico, quando sostiene con veemenza che solo le minoranze, le élites, hanno ragione, salvo essere definito subito dopo un rivoluzionario per la sua caparbietà nel portare avanti la sua istanza. Si arriva così al cortocircuito paradossale, che solo gli aristocratici sono democratici. La folla è una materia bruta che deve essere trasformata nel vero popolo, sostiene sempre Stockmann, arrivando alla sua battuta più meschina, evitata ancora nell’allestimento di Popolizio. E fa il riferimento a un cagnolino, ben allevato e curato, che non può che avere un cranio più sviluppato di quello di un cagnaccio randagio. E ancora Stockmann apostrofa gli avversari di essere plebei nell’animo, usando la parola in senso figurato ma non negando però anche il suo significato dispregiativo autentico: i plebei non sono solo quelli dei bassifondi. Da una parte c’è il potere del popolo purché non costi troppo, dall’altra tutto ciò. Ambiguità, sfumature, antinomie e paradossi che purtroppo si perdono in questo, pur teatralmente maestoso, allestimento.

 

Le fotografie sono di Giuseppe Distefano