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ITALIA

Castelbolognese e l’attivazione dal basso: una risposta concreta dopo la devastazione dei territori

Le alluvioni in Emilia-Romagna coinvolgono 43 Comuni e  21 tra fiumi e corsi d’acqua esondati. La risposta dal basso è stata vitale, Selene ci racconta l’esperienza di Castelbolognese. Il 17 giugno è stata chiamata una manifestazione sotto la Regione Emilia-Romagna per denunciare la realizzazione di due grandi opere

Dopo aver superato l’emozione e la rabbia di quello che è successo nelle zone alluvionate dell’Emilia-Romagna è necessario fermarsi e ragionare, comprendere l’entità del danno e fare quanto prima ciò che è necessario affinché quello che abbiamo visto non accada più.   

Le alluvioni di metà maggio coinvolgono 43 Comuni compresi nelle provincie di Bologna, Modena, Ferrara, Ravenna, Forlì Cesena e Rimini e sono 21 i fiumi e corsi d’acqua esondati: Idice, Quaderna, Sillaro, Santerno, Senio, Lamone Marzeno, Montone, Savio, Pisciatello, Lavino, Gaiana, Ronco, Sintria, Bevano, Zena, Rabbi, Voltre, Bidente, Ravone, Rio Cozzi e Rigossa. 

Questi canali fanno parte del territorio, a volte sono integrati nel paesaggio urbano a volte, soprattutto nelle grandi città, cementificati e «adattati alle esigenze umane».  Paolo Pileri, professore al politecnico di Milano, durante l’assemblea del 27 maggio in Piazza Maggiore a Bologna dal titolo “Non è maltempo, è crisi climatica”, riporta le parole di Antonio Cederna, pioniere dell’ecologia politica che negli anni ‘70 scriveva:   

«I disastri arrivano a ritmo accelerato e tutti dovremo aver capito che ben poco essi hanno a che fare con il naturale poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano nei confronti della stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti». 

A partire da questa citazione è possibile commentare la legge sul consumo di suolo della regione Emilia-Romagna e sostenere che questa sia completamente fallita. Secondo il rapporto nazionale dell’Agenzia della protezione ambientale italiana, ossia quella che produce ogni anno un rapporto sul consumo di suolo, la regione dell’Emilia-Romagna ha cementificato 628 ettari soltanto nell’ultimo anno e di questi, 500 ettari in area di media pericolosità alluvionale, 80 ettari in area di alto rischio idraulico. Secondo i dati ISPRA, l’Emilia-Romagna è quarta tra le regioni italiane con un consumo di suolo compreso tra il 7 e il 9%, oltre la media nazionale del 5%.   

Quando riflettiamo sulle cause di un evento così devastante che ha visto decine di migliaia di persone perdere ciò che avevano di più caro è necessario innanzitutto osservare le politiche regionali nella gestione del territorio: la mancata manutenzione degli argini, la pulizia dei letti dei fiumi ma anche la spaventosa cementificazione calata in quelle zone negli ultimi decenni. Inoltre, dovremo tener conto sia dell’evento estremo che è stato quello che ha colpito l’Emilia-Romagna sia gli effetti del cambiamento climatico, i quali determinano anche precipitazioni violente e concentrate in poche ore provocando vere e proprie bombe d’acqua:  piogge intense e di una quantità pari a quella che dovrebbe scendere in sei mesi hanno provocato una catastrofe umana e ambientale, oltre che ad aver messo ancora più a nudo una gestione fallimentare dei corsi d’acqua.   

Anche se smettessimo oggi stesso di utilizzare combustibili fossili ed emettere C02 le conseguenze di quello che abbiamo emesso finora in termini di eventi estremi, aumento delle temperature e piogge improvvise continueremo a vederne per diversi anni ancora. I climatologi lo ripetono da decenni: il clima è un sistema complesso, non c’è sempre un rapporto lineare e diretto tra le cause e gli effetti, i fenomeni una volta unici e rari si moltiplicano e siccità e alluvioni si alternano, con l’effetto di elevare esponenzialmente il rischio. È l’imprevedibilità del sistema a rendere il tutto così problematico, per questa ragione nella manifestazione chiamata per il 17 di giugno sotto la Regione dell’Emilia-Romagna si denunciano due grandi opere simboliche della volontà di non voler cambiare nessun paradigma: il Passante di Mezzo e il rigassificatore di Ravenna.   

 Mentre si continua a pretendere l’uscita dall’energia fossile non possiamo quindi perdere un secondo rispetto alle politiche di gestione dei territori, dei parchi, delle aree ancora naturali e non cementificate.  

Secondo Paride Antolini, presidente dell’Ordine dei geologi della Regione, il lungo periodo di siccità che abbiamo trascorso incide come concausa delle alluvioni poiché un terreno arido non riesce ad assorbire una grande quantità d’acqua. Inoltre, l’urbanistica e lo sviluppo edilizio incontrollato contribuiscono a indebolire il suolo, un ecosistema essenziale per la nostra vita, è costituito da componenti minerali, materia organica e organismi viventi e rappresenta l’interfaccia tra terra, aria e acqua, ospitando gran parte della biosfera. È una risorsa limitata e non facilmente rinnovabile.   

Nel bel mezzo del cambiamento climatico possiamo quindi affermare di non aver bisogno di commissari della ricostruzione piuttosto di governatori della decostruzione poiché le conseguenze indotte dalla rottura di ventuno argini sono gli esiti di qualcosa che era del tutto prevedibile, soprattutto quando si costruiscono case al di sotto dell’argine come a Forlì.  

Come evidenziato dalla mappa, diverse zone dell’Emilia-Romagna sono segnalate come maggiormente a rischio alluvioni per numero di popolazione esposta ma oltre alla città c’è un settore vitale che è stato duramente colpito: l’agricoltura delle campagne romagnole.  

Nelle interviste ad agricoltori della zona c’era chi denunciava di aver perso più di 200 ettari tra mais, grano, ravanello, chi 100 ettari di vite e di frutteti per un danno che va dai 20 milioni al miliardo. Un’ azienda in particolare ha subito gravi danneggiamenti poiché costretta a far defluire ingenti quantitativi d’acqua provenienti dalla città nei propri campi: si sono salvate le case al prezzo di perdere intere coltivazioni e di vedere il lavoro di una vita spazzato via in pochi secondi. 

Durante l’emergenza i mezzi pesanti e le auto spurghi sono stati pochissimi, l’esercito è arrivato dopo giornie nel mentre i prezzi degli stivali e dei badili nei supermercati hanno raggiunto cifre impensabili. Le forme di sciacallaggio sono state molteplici, oltre ai furti, per le strade di Faenza si leggevano volantini con i numeri di chi era pronto a comprare macchine alluvionate a cifre bassissime.   

  Le migliaia di persone scese e salite da diverse zone d’Italia per spalare fango sono state una forte espressione di solidarietà attiva, per quello che ho visto a Castelbolognese, la risposta più efficiente in campo. La Piattaforma di intervento sociale P.L.A.T è stata fondamentale nella gestione delle persone solidali, circa 11.000 volontarə hanno raggiunto Faenza, e nelle strade piene di fango camminavano a gruppi cercando di capire come rendersi utili.   

Essere però disponibile ad aiutare chi è stato colpito dalla furia dell’acqua e dalla pesantezza del fango non basta, le compagne e i compagni HubAut Bologna l’hanno scritto molto bene prima di me: we are not fucking angels.    Non ci siamo mosse con spirito pietistico o per sperimentare pratiche mutualistiche fini a sé stesse, le quali spesso non si traducono in termini di conflittualità, ci ha mosso la rabbia, l’ingiustizia nel veder subire conseguenze simili e la voglia di ribaltare questo sistema capitalista e antropocentrico.  

Quando sono arrivata a Castelbolognese, cinque giorni dopo l’alluvione, ho visto un’organizzazione stupefacente. Nel palazzetto dello sport erano stati portati centinaia di materassi, su ciascuna postazione, anche per le persone solidali, c’erano coperte, asciugamani e prodotti igienici.

Ogni giorno venivano scaricate tonnellate di cibo e nella tensostruttura della palestra c’erano vestiti per ogni taglia, beni di prima necessità, guanti, stivali, badili e tutto veniva quotidianamente offerto e gestito dalle persone del posto. Nonostante il dramma, l’adrenalina era altissima e il tempo aveva un che di sospeso, in questa occasione ho intervistato Selene, una ragazza che insieme a tantə ha tirato su il gazebo dal quale sono state gestite tutte le richieste di intervento dimostrando che in alcuni casi l’autonomia dal basso e la solidarietà attiva sono degli elementi centrali per una risposta dignitosa all’emergenza climatica.

Quello che è successo è stato inizialmente narrato come un evento che non si dava da circa 70 anni, dopo qualche giorno come uno degli episodi più imprevedibili della storia. Come avete vissuto le settimane precedenti alla grande alluvione? Ve lo aspettavate?   

Due settimane prima della grande alluvione, cioè il 2 maggio, è arrivata un’allerta meteo da parte del Comune riguardante una possibile esondazione del fiume Senio. In prima battuta la percezione generale era di incredulità: le allerte meteo arrivano sempre ma raramente si crede possa arrivare un evento così estremo, che poi è davvero arrivato due settimane dopo. Inizialmente c’è stato quindi solo un messaggio di allerta rossa che diceva” piogge intense” scritto dal Comune sul sito dell’Arpat. Quella notte il fiume del Senio esonda colpendo circa il 10% del paese. Nella realtà dei fatti le istituzioni non hanno messo in pratica nessun vero consiglio e alla fine qualcun si è ritrovato con due metri di acqua in casa. A quel punto la risposta in termini di aiuti da parte della cittadinanza è stata molto forte, in tre giorni le case colpite erano state ripulite, non erano moltissime e tra i contatti che avevamo siamo riuscite ad aiutarci. In quella occasione ci siamo rese conto che un messaggio diffuso su una chat o sul sito dell’Arpat non era sufficiente, abbiamo pensato che un avviso lungo le strade potesse essere migliore.  

Lunedì 15 maggio arriva una nuova comunicazione di allerta rossa e il Comune questa volta decide di emanare un ordine di obbligo di evacuazione per circa 200 abitanti. Non era ancora piovuta una goccia dal 2 maggio. A quel punto pensiamo che l’avviso è esagerato e che fosse fuori luogo obbligare delle persone a spostarsi. Vengono messe giù 60 brandine al palazzetto e si presentano solo in tre, a metà notte inizia a piovere poco e si presentano altre tre persone, la mattina smette di piovere. Tuttə, a quel punto, credevano ci fosse un inutile allarmismo, dicevano: vedi vogliono farci paura, questi esagerano.   

Martedì mattina, invece, inizia a piovere e non si ferma più, l’acqua scendeva fortissima e da Casola arrivavano scrosci intensissimi. Luca, un amico smanettone di Castelbolognese, aveva aperto una pagina web dove potevamo monitorare i livelli del fiume utilizzando i dati in tempo reale dei sensori dell’ARPAT e la stessa sera il Comune ha iniziato a mandare messaggi allarmisti in continuazione, c’era una chat WhatsApp dove ogni 30 minuti arrivavano messaggi del tipo: spostatevi ai piani alti, portate con voi il minimo indispensabile, spostate le macchine.   

Ci eravamo riunitə per monitorare i livelli insieme e il grafico era arrivato al massimo: 7 metri sopra il livello normale. Nessuno credeva che potesse arrivare a così tanto e il fiume era ancora dentro gli argini. Riprogrammiamo la pagina mettendo il livello massimo a 9 metri e quando lo riavviamo l’acqua era arrivata a 8.40 metri. È iniziata a scendere solo alle 2 di notte quando sì sotto rotti più punti degli argini e la piena è arrivata.   

Una delle cose che più mi ha colpito e mi ha fatto sin da subito capire quale fosse il vostro ragionamento rispetto alle priorità nell’emergenza è stata la vostra richiesta al Comune di tutte le persone che vivono sole, che soffrono di disturbi mentali e che probabilmente non vi avrebbero contattato per farsi aiutare. Siete andati di casa in casa mettendo a disposizione anche un’assistenza psicologica. Com’è iniziato quello che racconterete come uno dei migliori interventi autogestiti durante un’emergenza alluvionale?  

I primi giorni abbiamo contemporaneamente aiutato i nostri vicini grazie alla comunicazione fra i referenti del quartiere e affacciandosi alle case lì intorno, con cui non sempre si ha un rapporto, ci siamo rese conto che le persone sole e senza un aiuto erano molte più di quelle che pensavamo. Abbiamo raccolto le prime informazioni rispetto alle situazioni di persone sole e seguite da assistenti sociali che già conoscevamo e nel mentre, avevamo iniziato i lavori nelle case delle persone più anziane. Lo stesso giorno ci è stato chiesto aiuto da una madre sola con un figlio disabile che vive nelle case popolari di Castello e con lei abbiamo capito che in quella zona c’erano dei casi particolarmente delicati ed erano moltissime le persone seguite da assistenti sociali. Per noi era prioritario l’intervento in quelle zone ma era anche impensabile avvicinarsi a loro senza una conoscenza più personale, entrare nelle loro case pensando di aiutarli non era qualcosa di scontato. Abbiamo quindi deciso di fare da tramite fra Comune, assistenti sociali, servizi sociali di Castello e anche l’ASP Romagna faentina, molti psicologi volontari si sono messi a disposizione.   

Incrociando più informazioni siamo riuscitə a intervenire dove c’era bisogno. Per noi ragazzə di Castello la forza è stata quella di essere sul territorio, mentre queste associazioni non sono animate da molte persone e spesso stanno negli uffici, noi eravamo nel territorio e davamo continue segnalazioni. Siamo andatə di casa in casa e abbiamo visto che anche le persone mai state seguite si sono ritrovate in una condizione così tanto di rifiuto rispetto a ciò che era successo che non avevano bisogno degli assistenti sociali o simili ma di un’assistenza psicologica. Affrontare il grosso trauma della perdita dei ricordi è stata una sfida enorme, soprattutto quando ci parlavano dei libri, gli appunti, le foto, la macchina da cucire, i diari. Molte persone avevano proprio rifiutato e rimosso ciò che era successo e non riuscivano a chiedere aiuto, alcune erano ancora con il fango in casa quando siamo arrivatə.   

Poi è nato il gazebo centrale, tirato su da un gruppo di giovani di Castello, diciamo più gruppi di amici, i quali sono impegnati nel sociale già in diverse forme: gestiamo un circolo Arci, c’è chi attraversa le associazioni sportive, chi organizza la festa della birra di Portofranco, evento eccezionale di Castelbolognese.

È stato facile per noi alzare la cornetta, contattarci a vicenda e dire abbiamo bisogno di un lavoro tempestivo e a tappeto: chi abita in certe zone diventa il responsabile di quelle vie e il riferimento per quel quartiere, il compito è monitorare e liberare il campo.

Durante le settimane si è creato un certo vocabolario per tutto il coordinamento dei volontari, questa cosa fa sorridere e fa capire anche quanto sia stato un evento eccezionale. Infatti, piccola nota simpatica, nel mio gruppo di amici giochiamo tuttə a giochi di ruolo, organizzare le missioni è qualcosa che ci appartiene e in questo caso, cercando di mantenere l’umore alto, si potrebbe dire di aver vissuto un’altra delle nostre missioni in cui ciascuno doveva mettere in campo le proprie capacità.  Liberare una zona significava avercela fatta ma nonostante la tanta solidarietà di Castello andavamo troppo lentə, non eravamo abbastanza e da solə non riuscivamo, anche perché la maggior parte di noi aveva il fango in casa.

Un mio amico di dottorato mi ha chiamata il giorno dopo e mi ha chiesto se conoscessi P.L.A.T, mi disse: sono delle compagne e dei compagni della piattaforma di intervento sociale bolognese, sono una trentina e domani salirebbero per dare una mano. Ho pensato: una trentina? Ma non conoscono il posto, come li gestiamo? A quel punto avevamo capito che c’era bisogno di un punto centrale per mettere in ordine le richieste e gestire i volontari dando indicazioni precise. E l’abbiamo tirato su, è nato il gazebo.

Quando entravamo nelle case e scendevamo negli scantinati gli scenari erano molteplici: quando non sapevamo da che parte iniziare per il soqquadro generale, quando c’era da spostare ingombranti mobili, quando da provare a recuperare libri, oggetti, sempre e comunque da “cavare via” il fango. Gli interventi a Castebolognese sono stati portati a termine tutti in tempi molto celeri, qual è stata la reazione della cittadinanza difronte alla vostra iniziativa e a questa immensa catena umana che ogni giorno si faceva sempre più lunga?   

Non c’è stato nessun riconoscimento scritto o ufficiale nonostante fossimo i primi intermediari. La cosa più bella, che ancora succede in questi giorni, è quando vai al bar e senti dire ma ti ricordi quei cinque ragazzi di Piacenza, di Torino, di Modena…non ce l’avremo mai fatta senza di loro.   

Bisogna dire che nessuno di noi ha messo il nome, non c’erano né associazioni né partiti, è stato un movimento di tutta la popolazione che se voleva, poteva aiutare, c’è stato un grosso riconoscimento informale, quello sì.  Le istituzioni ci hanno permesso di vivere dei momenti di socialità fondamentali per riprenderci da ciò che era successo, senza porci le classiche regole come per la festa di Pentecoste. Anche se non c’è mai stato un riconoscimento dell’imponente lavoro che abbiamo fatto nessuno vuole una medaglia all’onore, la cosa importante era riportare il paese nelle condizioni migliori di prima.  

Nella settimana trascorsa a Castelbolognese sono passate moltissime persone arrivate un da varie zone per spalare fango e aiutare chi ne aveva bisogno. La cooperazione fra sconosciutə ha dimostrato una forte efficienza. Avete idea di quantə volontarə sono passatə e quante richieste sono arrivate?   

Di volontarə più di 2000, dal primo venerdì’ avevamo circa 100 volontarə al giorno, nel fine settimana sono arrivate 400 persone da Bologna e in più era partita l’app volontari SOS e si sono presentate tipo altre 600 persone.   

Questi numeri sono solamente quelli di chi è passato dal nostro gazebo perché nella prima settimana c’erano anche persone che si fermavano a caso senza passare dal coordinamento volontari, li chiamavamo i battitori liberi che andavano da soli nelle case e ad esempio loro non sono stati contati.   

Per noi bastava essere efficaci e veloci, non ci siamo messə a contare tutte le persone passate, volevamo solo riuscire a dirgli grazie, ritorna che ti offriamo una birra quando è finito tutto.  Per le richieste oserei dire un migliaio, a volte multiple, a volte le persone non si rendevano conto di quanto avessero bisogno di aiuto perché veniva quasi sempre sottovalutato il fango e la sua rimozione.  

Castelbolognese vanta uno dei sindaci più giovani d’Italia e sin dall’inizio è stato in prima linea collaborando insieme a voi. Quali sono stati i vostri rapporti con le istituzioni?   

Luca della Godenza oltre che a essere un giovane sindaco è anche un nostro amico, il dialogo con lui è stato facile e in più siamo un paese piccolo di circa 10.000 abitanti, parlavamo su WhatsApp ed è sempre stato disponibile. Questo è un elemento fondamentale per gestire un’emergenza in maniera veloce.

Il sindaco ci ha lasciato carta bianca e si è completamente fidato di noi, il suo non è stato uno scaricare le responsabilità ma investirle su di noi.   

Anche chi era all’opposizione non c’è stato un momento in cui non si è fidato di lui, pure la componente anarchica bolognese, ma è ovvio… abbiamo fatto una politica per la città in un momento d’emergenza estrema. Un giorno il sindaco disse: «Qui è cambiata la geografia, bisognerebbe riscrivere i libri: non ci sono più dei monti, non ci sono più delle strade, non ci sono dei ponti…d’ora in poi il rapporto col territorio sarà diverso».   

Avete partecipato all’assemblea di sabato 27 maggio in Piazza Maggiore dal titolo “Non è maltempo è crisi climatica” la quale ha lanciato un corteo per il 17 di giugno, come leggete questo evento sul vostro territorio? Cosa poteva esser fatto per evitare un danno simile?  Se c’era qualcosa che poteva esser fatto…  

Le questioni sono molteplici, da scienziata ambientale e sociologa dell’ambiente posso dirti senza alcun dubbio che ciò che è accaduto è il frutto dell’intervento che l’uomo ha fatto sulla struttura della geografica di molti luoghi, in poche parole la causa è antropocentrica. Sto parlando di interventi umani che hanno anni, anni e anni. Non è colpa solo dell’ultima opera costruita, è colpa anche dei nostri nonni che hanno deciso di deviare i fiumi per ampliare le zone coltivabili. Bisognerebbe guardare alle cartografie per comprendere le cause.

Il punto è: l’uomo vuole sovrastare la natura, vivere con la natura oppure siamo una cosa unica? Questa discussione è nata sotto al gazebo di Castello: cercare di capire come da una parte renderci resilienti, ripensare i nostri spazi in funzione dei cambiamenti climatici che stanno avvenendo, che significa adattarsi. Dall’altra parte quale cambio di rotta del pensiero e dei comportamenti quotidiani sono possibili? Come fermiamo questa folle cementificazione che negli ultimi anni ha visto le nostre zone cambiare completamente? Più rendi impermeabile il terreno più questi eventi saranno sempre più la norma.   

Sono questioni che vanno affrontate con le amministrazioni comunali, regionali, del governo nazionale meglio non parlare… Sono contenta che sia stata lanciata la data del 17 giugno e dobbiamo sfondare la bolla mediatica sulle questioni del cambiamento climatico, dall’altra parte dobbiamo proporre delle soluzioni pratiche che devono essere implementate dai cittadini.   

Le capacità acquisite in quelle settimane in termini di logistica, knowledge e relazioni sono incalcolabili. Come pensate di riprodurle?  

Alcune persone hanno fatto emergere dei talenti di cui non erano a conoscenza, tant’è che alcune di noi stanno ripensando anche al loro percorso lavorativo, è stato talmente tanto impattante che alcuni amici si sono messi in discussione dicendo che questa poteva essere una nuova occasione, alcuni si sono scoperti molto bravi con le persone e ad ascoltare i loro bisogni, a non cercare di risolvere ma di stare a fianco.  C’è chi ora vorrebbe lavorare nel campo della gestione dell’emergenze, fare corsi di formazione o entrare nella protezione civile, insomma c’è una volontà di mettersi a disposizione per il prossimo e di pensare al lavoro diversamente.   

C’è stata una vera e propria contaminazione di capacità, dove c’era una mia capacità forte, dove avevo competenza sono riuscita a trasferirla ad altri e viceversa. C’è stata una creatività tale nel tentativo di risolvere i problemi che ora siamo cariche per dare forma alla città del futuro.

Immagine di copertina da Wikimedia Commons di Nick.mon