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“Once Upon a Time in… Hollywood”

Snobbato dalla giuria durante le premiazione, “Once Upon a Time in Hollywood”, il nuovo film di Quentin Tarantino, rimane una delle visioni più interessanti di queste due settimane di Festival di Cannes. Uscirà in Italia il prossimo 19 Settembre

La definizione perfetta l’ha data Di Caprio in conferenza stampa: Once Upon a Time in… Hollywood è una lettera d’amore all’industria del cinema. Non (solo) al cinema del passato (americano, anche europeo, italiano in particolare), ma al suo essere un prodotto industriale. Cinquant’anni fa come ora.

E dire che nel 1969 quel sistema non se la passa benissimo: da quasi dieci anni Lucille Ball (citata da una delle adepte di Manson per I Love Lucy, «l’unica serie in cui la gente non si uccideva») si è comprata l’RKO, ha prodotto serie come The Untouchables, Star Trek, Mission Impossible e Mannix (altra evocazione del film), ed è già al terzo spin-off del cult, con Here’s Lucy, la sua serie più rivoluzionaria. Lucille ha inventato la sit-com registrata nei teatri di posa, ha messo la parola fine ai serial in diretta di New York ed è sbarcata a Los Angeles. La televisione si è spostata dalla East Coast alla West Coast, Hollywood ha smesso di pensare al “telefilm” come a un prodotto di serie B, e infatti gli studios sono usati (e mostrati) solo per produrre tv fiction. La New Hollywood sta arrivando (ma non c’è ancora): c’è Polanski certo, c’è Cassavetes, c’è Arthur Penn, c’è Il laureato e Nick mano fredda. Sta per iniziare l’epopea di Al Pacino (qui uno straordinario Marvin Schwarz, che spiega a Di Caprio il rischio di una carriera fatta soltanto di villain) e anche di Robert Redford: il personaggio di Brad Pitt ne è insieme un omaggio, e una specie di ulteriore stunt double, in un cortocircuito che nella coppia Pitt-Di Caprio può trovare quella di Newman-Redford, ma anche Newman-Redford-Redford…o Newman-Steve McQueen-Redford-Redford, o…

Raddoppiamenti continui, giochi di specchi, prolungamenti di icone del passato, che trovano nuovi corpi e nuovi ruoli.

 

 

Tutto il mocu-biopic su Rick Dalton non è solo cazzeggio cinefilo (al netto di qualche lungaggine risolvibile al montaggio: soprattutto nelle scene delle riprese della serie western), ma è una specie di saggio storico-teorico sui rapporti incestuosi tra cinema (non solo b-movie) e tv, ed è difficile non vedere un collegamento con quanto sta accadendo oggi, 50 anni dopo, anche fuori dal genere: vedi Too Old to Die Young di NWR, trasferimento della mitologia cinematografica di un autore in un nuovo contesto produttivo, le OTT. Il pistolero Madrid di Timothy Olyphant arriva da Deadwood (la prima grande serie tv di ripensamento critico del mito del west, al contrario di Bonanza e La grande vallata, citata come esempi da non seguire per l’interpretazione) e da Justified (aggiornamento contemporaneo del character del marshall del Kentucky), e anche per Steve McQueen (presente e parlante in una festa di “Playboy”) si usa un volto-corpo televisivo, Damian Lewis, il tenete Brody di Homeland. E c’è anche il Luke Perry di Beverly Hills 90210, morto pochi mesi prima di una probabile reunion.

Oggi gli attori e registi passano agilmente tra i due mezzi: non solo gli Autori-nipoti della New Hollywood (Fincher, Soderbergh, Van Sant, Refn, Spike Lee, i Coen…) o quelli che la tv l’hanno sempre praticata (Lynch, Mann) o certi divi di belle speranze a rischio di oblio (esattamente come Rick Dalton: Kevin Bacon, Christian Slater, il povero Patrick Swayze) ma anche attori che negli anni ’70 hanno trovato la loro consacrazione, come Dustin Hoffman (Luck e, purtroppo, I Medici) e lo stesso Pacino (Angels in America). Le premium cable tv hanno consacrato la quality tv (o complex tv) e le OTT garantiscono loro una libertà creativa e produttiva (Amazon per NWR, ma anche Netflix per i Coen di The Ballad of Buster Scruggs) che il cinema non potrebbe più offrire.

 

 

Ma nel 1969 gli espulsi dal cinema-cinema trovano rifugio nella tv e nei suoi figli bastardi (lo spaghetti western e il poliziottesco italiano: da Corbucci a Margheriti). Qualcuno in quegli anni, seguendo la stessa parabola (ma lavorando con il “primo” e non il secondo dei registi di western italiani) è tornato a Hollywood e ha fatto la storia del cinema: è Clint Eastwood.

Qualcun altro, guardandolo e studiandolo (insieme alla Nouvelle Vague), ha fatto un’altra storia del cinema: è Quentin Tarantino.

Anche Rick torna (ingrassato e sposato) e salva l’industria del cinema: le porte del paradiso, della favola, si aprono solo alla fine, quando “consente” a Polanski di non fare Tess (il suo film-catarsi dopo la morte di Sharon Tate) e forse sarà anche il protagonista di Chinatown al posto di Jack Nicholson.

C’è tutto l’impianto ludico del Tarantino classico in questo Once Upon a Time in Hollywood: il rifacimento costante di quello che è stato, il gioco con le forme e i linguaggi, il feticismo cinefilo ed enciclopedico. Ma non è Grindhouse perché non è un calco degli anni ’60: quando vuole farlo, semplicemente lo fa (gli spezzoni della serie FBI), ma per il resto gira le immagini del passato esattamente come lo farebbe nel 2019. Il war movie con lanciafiamme contro i nazisti ha la grammatica di oggi, così come le trasferte in Italia: sono film che si fanno e si dànno in una dimensione totalmente trasversale. Rompendo la cesura dei piani temporali, Tarantino esce da ogni tempo e costruisce una storia parallela totalmente autonoma (anti-diacronica e anti-sincronica) e si permette di salvare Hollywood.

 

 

Ma Once Upon a Time in… Hollywood non è Inglorious Basterds, perché quella Storia (la morte dei nazisti) non può essere cambiata, mentre quella del cinema sì.

E soprattutto Once Upon a Time… in Hollywood non è Once Upon a Time in America (passaggio dolente dalla periferia al mondo dove si fanno i sogni) e nemmeno Once Upon a Time in the West (trascinamento indolente dei sogni e dei miti alla periferia). Tarantino sa di poter ri-scrivere (come una favola) il cinema: l’ha fatto rivitalizzando la memoria della black-exploitation (Jackie Brown), del genere italiano (Kill Bill, Django, Inglorious Basterds) e di quello giapponese (Kill Bill), del grindhouse. Adesso va a salvare l’innocenza perduta di quella notte caldissima del 1969: è difficile (ormai impossibile nell’epoca della chiacchiera sul web) serbare la sorpresa del finale, ma la richiesta di Tarantino di non diffondere particolari sulla trama (accolta in sala a suon di fischi, soprattutto per le tre ore e mezza di coda inflitta agli accreditati meno fortunati) è sensata in fondo. C’è una magia, una dolcezza ingenua e fiabesca in quel finale, che dovrebbe essere preservata intatta per tutti coloro che andranno a vedere il film per la prima volta.

In Inglorious Basterds era il grande cinema, una proiezionista cinefila, a (non) cambiare il mondo, qui è quello piccolo e basso (che gli/ci piace), e anche una certa tv rozza ed onesta, a prendersi la responsabilità. Once Upon a Time… in Hollywood è un film triste e disperato, per nulla nostalgico e compiaciuto, doloroso e dolente (si ride vedendolo, si piange pensandoci), ma non arreso, semmai ammutinato.

 

 

Angosciante anche, tra un ammiccamento e un altro perché, quando incomincia a mettere in scena certi oggetti della memoria (Polanski e la Tate, Manson e lo Spahn Ranch), davvero serpeggia il terrore che, con mostruoso cinismo, abbia deciso di irridere la tragedia di Cielo Drive. Ma Tarantino cinico non lo è davvero (almeno quest’ultimo), e tutto si trasforma in un atto di amore assoluto.

Di Caprio e Pitt sono i due corpi che meglio hanno rappresentano negli ultimi anni la ricostruzione dello star system (la politique des acteurs) e la loro presenza rima e dialoga con il corpo perfetto di Margot Robbie, che può permettersi di guardarsi-essere Sharon Tate sullo schermo senza esserlo, senza assomigliarle.

E poi nessuno (davvero) gira come lui. Potrebbe essere l’ultimo film, speriamo di no. Come qualcuno non abbia visto tutto questo è comprensibile. Come qualcuno l’abbia consapevolmente mistificato e sminuito proprio no. Once Upon a Time… in Hollywood è l’epifania di Cannes.

 

  

Aggiungo dopo la cerimonia di premiazione. Semplicemente il cinema di Tarantino è diventato troppo difficile: irriso come forma di ludopatia, costringe a prendere una posizione, a fare i conti con uno scarto e anche uno scandalo. Il “discorso del Festival” (la struttura che organizza il senso di ciò che deve essere mostrato, accettato, rivisto) ha preferito celebrare il più superficiale politically correct. Una giuria evidentemente inappropriata (condotta dal Silver Surfer della mediocrità, Iñárritu, con la complicità della meglio gioventù internazionale) si è scottata con l’incandescenza del cinema-cinema (Tarantino, Kechiche) e con la preziosità del cinema classico (Almodóvar, magari anche Bellocchio). Rimango stupefatto di due cose: come Tarantino non sia riuscito a seminare davvero nulla (solo epigoni, pochi discepoli, nessun ermeneuta) e quanto la capacità di costruire un cinema-mondo (termine orribile, ma in inglese, worldbuilding, è anche peggio) si sia ripiegata sulla pratica sonnolenta del mondo-cinema. Commentando la cerimonia di premiazione un amico mi ha scritto «Pulp Fiction vinse perché lo decise Eastwood». Ecco.