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Bangla, di Torpigna

«Bangla» segna il debutto da attore e regista del giovane Phaim Bhuiyan. Un film spiritoso e dissacrante, che parla d’amore, di Roma e dell’Italia che verrà

«So’ 50% bangla, 50% italiano e 100% di Torpigna», dice Phaim Bhuiyan attraversando la Casilina, dove via di Torpignattara cambia nome e diventa dell’Acqua Bullicante. Phaim è protagonista e regista di Bangla, pellicola con cui debutta sul grande schermo a soli 23 anni. Il ritmo della storia d’amore tra lui e Asia dai capelli blu (Carlotta Antonelli) è scritto sullo spartito della geografia sociale e urbana del quartiere romano.

A Torpigna, racconta Phaim, ci sono tre squadre che si contendono il terreno di gioco: vecchi, hipster e immigrati. I vecchi si lamentano di tutto e in particolare dei nuovi arrivati, sia quelli con la pelle scura che gli altri con barba lunga e occhialetti. «Non so’ razzisti, so’ vecchi», dice il ragazzo. Gli hipster fanno disegni sui muri del quartiere, figliano, bevono birra all’Hop Corner e spendono un sacco di soldi in prodotti bio. Gli immigrati compaiono a ogni angolo e sono soprattutto bangla: parlano un italiano «de merda» e si avvolgono inspiegabilmente la testa con delle sciarpe invece «de compra’ un cappellino». Un bangla-hipster sconvolge per un attimo gli schieramenti, poco prima del fischio d’inizio di un’effimera partita che avrebbe come trofeo il controllo del territorio.

Di Torpigna, poi, ci sono i luoghi. Il bellissimo acquedotto Alessandrino ai cui piedi pascola il parco Giordano Sangalli, al lato della piazza con le scritte «Quadraro, Vigne, Torpignattara». Un luogo in cui nel film Fortunata (2017) Sergio Castellitto faceva danzare sincronicamente le donne cinesi e che fuori dalle finzioni cinematografiche ospita, da un giorno all’altro, capodanni cinesi e bengalesi, feste di fine Ramadan (come oggi), messe cattoliche, mercatini, sfide di calcio e cricket, coloratissime celebrazioni ispirate a immaginari lontani.

A poche centinaia di metri c’è Villa de Sanctis con la sua luna in vetroresina davanti la quale “lavora” un amico di Phaim. Dietro si vede la skyline del Casilino 23, con i suoi incredibili palazzi disposti a ventaglio a partire da un centro misterioso. Intorno alla panchina da cui il ragazzo romano distribuisce bustine in cambio di soldi c’è gente che corre e fa sport, come in un qualsiasi pomeriggio nella Torpigna reale.

Poco prima della villa, sempre su via Casilina, si trova il caleidoscopico incrocio che irrora di vita le arterie del quartiere. I profeti molto acrobati del degrado ci vedono sporcizia e commercio abusivo, ma occhi più sensibili alla bellezza bullicante degli spazi urbani scorgono croci, delizie e contraddizioni della globalizzazione: un Mc Donald’s circondato da bancarelle di ambulanti; kebabbari e articoli per la casa; una pasticceria nata insieme al quartiere e un’altra venuta da una lontana regione dell’India; ristoranti cinesissimi e forni de Roma; un via vai ininterrotto di pelli bianche e scure, occhi a mandorla e non, lingue diverse, veli quasi integrali e scollature prorompenti, corpi in transito. Solo pochi metri più in là si può bere uno dei caffè più buoni di Roma, miscela di Sant’Eustachio ma prezzo popolare di Roma Est, e c’è un bar con il nome di un massacro coloniale che significa anche gran casino e nella notte è popolato da avventori che avrebbero ispirato De Andrè.

Nel mezzo dell’incrocio, che nel film è ripreso più volte dall’alto, sfila con un’eleganza lontana dai canoni del galateo il “trenino giallo”. Ufficialmente si chiamerebbe “ferrovia Roma-Giardinetti”, nonostante ormai non superi Centocelle, ma quella striscia del colore del sole lungo la fiancata ne ha fissato il soprannome nell’immaginario collettivo. Scorrendo sulle rotaie, il mezzo trasporta i tanti mondi che compongono la metropoli.

Dentro e fuori le vie del quartiere, ma sconfinando spesso e volentieri nel nord di Roma, Phaim e Asia si incontrano, si conoscono, si accarezzano, si baciano. L’amore «che non mi fa dormire, mi fa sentire scosse elettriche, mi toglie l’appetito» è un terremoto nella vita del ragazzo. Sebbene la sua esperienza oscilli già tra le linee di faglia che corrono lungo le differenti cosmogonie culturali, si trova improvvisamente costretto a scegliere. Perché non mangiare il panino con la porchetta o evitare di ubriacarsi di birra e spritz è un conto. Ma le cose si complicano quando le credenze religiose si insinuano dentro i pantaloni, dove la gioventù, la primavera e Asia dai capelli blu fanno perdere di vista qualsiasi orizzonte che non sia il letto di una camera con la porta chiusa.

Così tra dialoghi a tratti esilaranti e la straordinaria mimica facciale e corporea di Phaim, il film segue il conflitto tra i desideri del ragazzo e le aspettative della comunità di appartenenza. Lo scontro in questo caso non esplode in uno spazio urbano tutto sommato capace di garantire la convivenza tra le diverse tribù, ma in quello interiore di un giovane combattuto tra i diktat appresi in moschea, le convinzioni dei parenti pronti a emigrare verso Londra e la ragazza italiana di Roma Nord con alle spalle una famiglia iper-moderna e una maggiore libertà sessuale.

La conclusione è un avvertimento ai profeti dello scontro di civiltà: fuori da facebook e dall’appiattimento virtuale delle esperienze, lontano dai rancori e dalla propaganda dei partiti, le vite si incrociano, i corpi si attraggono, le comunità si trasformano. Tutto scorre.